Dieci anni di crisi economica hanno trasformato il Paese. Ma sono stati anche un formidabile motore di creatività. E ora si respira, finalmente, una grande fiducia nella rinascita

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La sede del miglior giornale greco fra quelli che si possono leggere in lingua inglese si trova al primo piano di un tipico palazzo ateniese del Novecento. Per raggiungerla è necessaria un’esperienza estetica che da sola può spiegare la città e la Grecia di oggi. Basta infilarsi sulla via intitolata a Kolokotroni, condottiero dell’indipendenza dai turchi, e fermarsi al civico 59 B. Qui il visitatore rimarrà disorientato di fronte a quello che ha tutta l’aria di un bar di gran successo. I mille colori di suppellettili, cornici, pelli e bislacchi barocchismi tracimanti nel kitsch travolgono chi si ostini a entrare. Eppure fa bene chi non cede al timore di aver sbagliato portone. Il bar Noel, infatti, come capita spesso in Grecia, ha preso possesso dell’atrio del palazzo a tal punto che nessuno potrebbe immaginare di trovarsi a percorrere spazi condominiali. Tirando dritto fra la folla vociante a ogni ora, i camerieri indaffarati, la musica, il rumore di stoviglie e il fumo spesso di centinaia di sigarette, in fondo all’atrio una luce fioca risplende oltre gli scintillii della modernità. Una vetrata dominata da pile di libri annuncia l’ingresso alla libreria Rodakió. Un’altra sorpresa per chi si aggira in un androne condominiale trasformato in bar. Ma qui, perlomeno, sarà possibile orientarsi. La proprietaria vi accoglierà con grazia. Non si cura, lei, del fatto che il proprio negozio sia stato quasi seppellito dai tavolini e dai festoni del bar. Non si stupisce neppure se anziché di un libro siete in cerca della sede di Athens Live. Vi indicherà l’accesso alla scala e voi, sorpresi, vi ritroverete dove avevate immaginato che si aprissero le cucine del Noel. E non avevate torto. Ma oltre alle cucine ecco la scala condominiale. Inoltratevi. I suoni del bar si assottigliano in un istante e improvvisamente è un altro mondo.

Angelos Christofilopoulos mi accoglie accendendo una stufa per l’occasione. Il riscaldamento centrale non funziona dall’inizio della crisi. Nelle sale di Athens Live hanno appena chiuso uno shooting fotografico e Christofilopoulos è stanco. Fotografo quarantottenne, cresciuto a Düsseldorf, è una delle anime di questo giornale giudicato fra le fonti di informazione più influenti quando la Grexit sembrava a un passo.

«Decidemmo di raccontare quel che capitava in Grecia perché ciò che si leggeva sui media internazionali era talmente lontano dalla realtà che veniva da ridere. Pensammo che fosse necessario un mezzo di comunicazione completamente libero dal ricatto degli sponsor, e autonomo da qualsiasi forza politica. Raccogliemmo 25 mila euro con un crowdfunding e cominciammo. Negli ultimi anni, la Grecia non interessa più a nessuno. La crisi dei rifugiati è stata l’unico motivo per occuparsi ancora di noi. Facciamo del nostro meglio per continuare. Ma lavorare gratis non è facile per nessuno».

Christofilopoulos indica i magnifici libri antichi che inondano gli scaffali. «Sono della libreria che hai visto giù. Condividiamo gli spazi. Molta gente è stupita di questo intreccio di pubblico e privato, come nell’ingresso del palazzo. Ma è la Grecia, questa. Ai piani superiori troverai la sede di Popaganda, altro sito web indipendente che ha grande peso in Grecia, e Fosphoto, un’agenzia fotografica in cui ho sempre lavorato con Gerasimos Domenikos, l’altro ideatore di Athens Live, nonché direttore di Popaganda. L’unione fa la forza». Domenikos è un tipo divorato dall’entusiasmo. Lui e Christofilopoulos raccontano quanto gli anni della crisi siano stati una formidabile molla culturale. Da una parte il bisogno ha costretto artisti di ogni genere a cercare nuove strade. Dall’altra li ha spinti a unirsi. Dando il via a una vera e propria rinascita greca che «ha inserito Atene nelle mappe dei circuiti internazionali».

Finché il dilagare dei sovranismi e delle chiusure ha creato un nuovo vuoto. «Una certa cultura underground resiste, ma quel che manca ora è la voglia di fare gruppo», dicono. E Domenikos aggiunge: «Il mio sogno, per tenere in piedi il nostro progetto, è creare una rete con altri media indipendenti in Europa. Ci sto provando ma è molto faticoso. Se non si riuscirà il futuro sarà fosco».

Anche Christos Ikonomou la pensa così. È uno scrittore che ha lasciato il segno non solo in patria. Da noi Elliot edizioni ha tradotto due suoi libri e chi ha letto anche uno solo dei racconti che li compongono sa quanto la sua ricerca abbia contribuito a raccontare la Grecia dei nostri anni. «Ho l’impressione che, in questi ultimi tempi, l’abitudine abbia prevalso fra chi non è partito per cercare fortuna altrove», mi dice in un bel caffè del centro che ha scelto perché resiste alla moda sempre più schiacciante di vietare il fumo, seguendo una normativa europea che i greci hanno sempre orgogliosamente eluso. «A volte, durante i miei corsi di scrittura creativa, chiedo ai ragazzi per chi stiano scrivendo. Magari hanno talento ma raccontano storie intime: sono completamente chiusi su se stessi. In fondo privi dell’ambizione di essere letti altrove, di creare connessioni fra le persone, di avere impatto. I social media hanno vinto. Si cresce dentro una bolla di autoreferenzialità ma - dico io - spaccala quella bolla!». Forse la bolla l’hanno spaccata solo quelli che sono partiti? «Quella è una ferita drammatica. Oltre 300 mila ragazzi hanno lasciato il Paese, su poco più di dieci milioni di abitanti. Una vera generazione perduta. Anche perché non tornerà quasi nessuno. Chi lo farà, proverà un senso di sconfitta. È una vera tragedia greca. Mentre le tragedie europee? I populismi che avanzano. Il razzismo. Noi cosa possiamo fare? Io credo nel lavoro dell’artista. Ma mi pare che prevalga un senso di abitudine. Si pensa che tutto sia ormai dato per sempre. La democrazia, la pace, certe libertà. Non sono conquiste perenni. Ci dobbiamo unire, dobbiamo lottare per volare oltre il pessimismo. Io non vendo speranze. Ma uno scrittore deve andare in profondità. Deve aprire le ali».

Nei mesi in cui la Grecia occupava le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, si diffuse l’idea che avesse prevalso un sentimento antieuropeo. In realtà, l’icona di quelle battaglie - Yanis Varoufakis - non faceva altro che ripeterlo: non vogliamo distruggere l’Europa, vogliamo trasformarla in un’Europa solidale. Oggi, mentre il fantasma della disgregazione si è diffuso come un virus, è quasi commovente viaggiare fra intellettuali uniti dall’idea che solo creando connessioni transnazionali si possa davvero aprire un varco sul futuro.

Eleftheria Tseliou, per esempio, è una delle più giovani galleriste in città e nella sua galleria di Kolonaki, il quartiere ricco del centro di Atene, quando deve spiegare come siano cambiate le cose, sostiene che è stato il respiro internazionale a dare l’unica vera spinta dinamica all’arte contemporanea. «Documenta, che per la prima volta è uscita dai confini di Kassel per venire ad Atene, è stata un passaggio importante. Ma, in generale, l’arrivo di molti artisti, l’apertura di gallerie, nuovi progetti indipendenti, tutto concorre a fare di Atene una città vibrante, anche se politicamente non è cambiato molto. Per esempio, Emst, il museo di arte contemporanea, non ha ancora esposto la sua collezione permanente. Sono sempre le fondazioni private a offrire un futuro agli artisti. Per il resto, se qualcosa di buono è arrivato da questi anni sta solo nella stabilità politica». Niarchos e Onassis, le grandi fondazioni intitolate ai ricchissimi armatori che si fecero benefattori e mecenati, sono i nomi che tutti gli artisti sognano. Niarchos, con la spettacolare apertura del Centro Culturale realizzato da Renzo Piano a ridosso del mare, ha contribuito a rilanciare l’appeal della città sul versante opposto a quello della Street Art con i writers che di Atene sono diventati coloni e loro stessi rispettati benefattori. Da tutto il mondo si viene in città per contemplare pezzi di arte urbana notevolissimi, diffusi dappertutto ma in primo luogo nel quartiere anarchico: Exarchia.

È qui che incontro ? tella (il Sigma è il marchio del suo nome d’arte) e Dimitris Theodoropoulos. Lei è la cantante indie più interessante del momento. Lui è uno dei giovani architetti dell’ammirato studio Hiboux. Beviamo vino rosso per combattere il freddo. Amici da sempre, condividono l’impressione che la forza dirompente degli anni di fuoco della crisi si sia esaurita. «Quell’entusiasmo dovuto al baratro su cui si camminava si è dissolto». Raccontano di quel che realizzarono nel grande spazio che era stato lo studio del nonno di ? tella e che nessuno sembrava interessato a comprare. Allestirono una esposizione di arte con installazioni e opere di ottimi artisti. Dunque inaugurarono quella che chiamarono “ENOIKIAZETAI TO PARON” ossia qualcosa come “Affittasi lo spazio presente”, una formula di rito in Grecia. Fu un successo. Si alternavano visitatori in cerca d’arte che trovavano una vera casa in affitto e visitatori della casa che trovavano l’arte.

«Oggi non sarebbe più possibile», dice ? tella: «Airbnb ha stravolto il mercato immobiliare. I prezzi sono saliti. È pieno di studenti che non trovano più un buco dove vivere. La città sta cambiando volto. Difficile dire dove stiamo andando. L’Europa - ovvero quello per cui ci siamo dissanguati - sembra a pezzi. Una cosa è certa. Viviamo il paradiso e l’inferno insieme. Ma siamo tragici, noi».

I tragici greci sono nel Dna di chiunque qui. Pochi però studiano davvero gli antichi. Uno degli scrittori rivelazione di questi ultimi anni, invece, lo ha fatto con grande serietà addirittura a Oxford. Dimosthenis Papamarkos, trentacinquenne, è fra quelli che sono tornati a casa. Senza delusioni. Solo con la felicità di essere greco. Con l’orgoglio di poter cambiare mestiere. E con una specie di fiducia nell’idea stessa di Europa. «Sono tornato perché non potevo passare la vita lontano da qui. Gli anni a Oxford mi hanno aperto gli occhi sull’enorme fortuna che abbiamo. E le insicurezze della crisi mi hanno dato la libertà di rischiare e di scegliere la vita che davvero volevo vivere. Non ho rinnegato gli studi antichi. Semplicemente, tutto quello a cui ho lavorato in passato è come incorporato nelle varie strade che ho preso letterariamente».

Siamo in un piccolo bar di Pangrati, quartiere che assieme a Koukaki (dove ha aperto Emst, il museo d’arte contemporanea) è uno degli esempi lampanti della città stravolta da Airbnb. Ma Papamarkos non si lamenta. Ha scritto racconti, romanzi, opere teatrali, serie tv, graphic novel e il suo “Giak” è stato un libro di grande successo con oltre 30 mila copie vendute, nonostante il piccolo editore, Antipodes, nato durante gli anni più violenti della crisi grazie alla sfida di due giovani. «Non credo a una certa retorica che continua a dominare secondo cui noi greci, come voi italiani, lavoriamo poco. E non credo nell’idea che il nord Europa manchi di creatività. Ci sono grandi differenze, certo. Ma dovrebbe prevalere l’idea di uno scambio reciproco. Noi possiamo imparare dal nord nell’organizzazione dello Stato. Mentre il nord può imparare da noi mediterranei per la nostra attitudine a risolvere i problemi. Se ci si rinchiude nella difesa delle tradizioni e della purezza, siamo finiti».

Mentre me ne torno a casa passando accanto allo stadio dove furono inaugurate le Olimpiadi moderne, penso a quanto grande sia la fiducia e la speranza in un’Europa forte e piena di futuro, nonostante tutto quello che i greci hanno sofferto negli ultimi anni per via delle politiche di austerità. Sembra un paradosso. Scendo scalette che costeggiano la casa che fu di Seferis, il grande poeta Nobel nel 1963, che cantava «Ovunque io viaggi la Grecia mi ferisce». Cerco qualche risposta nei suoi versi, nei miti antichi di Europa rapita da Zeus, ma non trovo nulla che spieghi l’impressione feroce che sia forse proprio la Grecia il Paese più europeo dei nostri giorni, con il suo spirito ribelle, la propensione al senso critico e la continua capacità di rinascere e riplasmarsi dopo qualsiasi dominazione straniera. In fondo è qui che sono fermi, da quasi tre anni, circa 80 mila profughi, eppure i movimenti xenofobi non crescono. Poi, mentre attraverso il parco nazionale e un sole invernale sprigiona odori improvvisi, mi viene in mente la battuta di Andreas, ferramenta che ha bottega in una delle vie del centro, Praxitelous. Era il giorno in cui la Gran Bretagna votò l’uscita dall’Europa, pochi mesi dopo l’ennesimo memorandum con cui il popolo greco s’inginocchiava per restarci, in Europa. Chino sul suo banco di lavoro, con la tipica ironia ateniese, un po’ disincantata e piena di senso della tragedia, ridendo Andreas disse: «Piano piano se ne andranno tutti. Resterà solo la Grecia in Europa».