Un enorme affare. Pulito. Ma che scatena lotte tribali. E i raccoglitori compaiono a ogni angolo di Adis Abeba (Foto di Alessandro Penso per L'Espresso)

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Addis Abeba, anche a gennaio, stordisce con il sole alto e caldo, il traffico disordinato, i clacson. Ai margini delle strade, fino a poco fa, era pieno di plastica. Adesso no, da qualche tempo hanno iniziato a riciclarla. L’Africa, ricoperta di plastica, è improvvisamente diventata una risorsa: la plastica, da un giorno all’altro, ha acquistato un valore economico, anche se basso. Sono comparsi raccoglitori a ogni angolo, formali e informali – questi si riconoscono perché all’alba girano su carretti malconci trainati da muli malati e gridano «Qoshasha alowe?», avete immondizia? Verso le otto la vanno a vendere a 3 birr al chilo alle aziende che ne esportano i lavorati in Cina, Europa e Usa. Addis è diventata il grande hub africano per la raccolta e il riciclo della plastica. Da qui provengono molte delle bottiglie ricavate da preforme da riciclaggio che usiamo ogni giorno. Se il riscaldamento globale è un tema apocalittico e imprendibile, la plastica al contrario si vede. È quindi sulla plastica che le coscienze ambientaliste hanno iniziato a scagliarsi. Così le big corporation hanno imparato che è lì che si gioca la loro immagine futura, e fanno a gara a lanciare campagne su materie prime riciclate. Ma siccome le contraddizioni del mondo occidentale si fanno più evidenti nelle colonie, per avere sotto gli occhi l’impatto, la presenza della plastica sul mondo bisogna venire in Africa.
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La plastica è sempre stata l’immagine che il mondo dei consumi ha avuto di se stesso: la dominazione sulla necessità. All’inizio della sua diffusione, negli anni Cinquanta, la plastica era venerata alla stregua di una divinità pagana: finalmente non eravamo più noi a doverci sottomettere alla materia, a lavorarla, a sudare per cavarne una forma. Finalmente era tutto l’opposto. La plastica assumeva qualunque forma. Oggi l’immagine simbolo della nostra èra è l’Isola di plastica, un agglomerato grande tre volte la Francia che galleggia nel centro dell’oceano Pacifico. La rappresentazione del cadavere indecomponibile del consumismo. Sessant’anni dopo la sua invenzione, ci ritroviamo con 10 miliardi di tonnellate di feticci prodotte, l’ottanta percento delle quali è dispersa nell’ambiente. Confusa col plancton, va a cibare i pesci.
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L’Etiopia, il paese che cresce di più al mondo, come ogni altro paese africano non ha mai conosciuto un piano per la gestione dei rifiuti solidi. In più, l’alta crescita demografica e il forte sviluppo economico potenziano il problema legato alla plastica. In Etiopia l’utilizzo del polietilene tereftalato (Pet) è in crescita vertiginosa: i consumi di bottiglie d’acqua e di bibite in Pet sono passati da 1,2 milioni nel 2001 a 21 milioni nel 2010. Alla fine del 2020 saranno centinaia di milioni, se è vero che un solo produttore, come Coca-Cola, che oggi immette nel paese 60 milioni di bottiglie l’anno, in maggioranza in vetro, entro quella data le convertirà tutte a plastica, con il piano di raddoppiarne la produzione: 120 milioni di bottiglie l’anno in Etiopia. Niente sistema di raccolta dei rifiuti solidi significa il disperdersi e l’accumularsi di plastica abbandonata nelle strade, nelle fognature, nelle discariche a cielo aperto. Con la stagione delle piogge, tutta questa plastica finisce nei corsi d’acqua, fin o all’oceano.

Una Onlus italiana, Cifa, nella città di Hawassa sta coordinando il primo progetto di riciclaggio al di fuori della capitale, apripista sul trattamento della plastica in Africa. Cifa ha creato una rete formale di raccoglitori raggruppati in 26 associazioni che convogliano la plastica sparsa per la città in un luogo di raccolta che sorge di fianco alla discarica pubblica, la Qoshe. Ma questo sistema virtuoso di raccolta si inserisce in un quadro più complesso, che riguarda i conflitti etnici deflagrati localmente nel paese dopo l’elezione dello scorso aprile del nuovo primo ministro, dr. Abiy. Il primo premier di etnia Oromo a essere stato eletto.
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Da un lato si respira, sia a Hawassa sia ad Addis, una forte aria di libertà. Dall’altro, tutte le liberalizzazioni operate in questi mesi da dr. Abiy, se hanno fatto cessare la decennale guerra etnica “nazionale” tra Oromo (da sempre osteggiati nonostante rappresentino la maggioranza della popolazione) e Tigrini, l’hanno però moltiplicata in feroci e imprevedibili guerriglie localizzate in ognuna delle nove regioni, tra etnie locali. Ad Hawassa, per esempio, i raccoglitori erano tutti di etnia Wollaita, la più umile, quella tradizionalmente votata ai lavori pesanti. Ma i Wollaita sono stati accusati dai Sidama, l’etnia rivale, di usare la raccolta di rifiuti casa per casa per controllare i nemici e fare spionaggio. A giugno scorso, durante Chambalala, la festa annuale della fertilità, migliaia di Sidama hanno attaccato i Wollaita uccidendo centinaia di persone con i machete. «Tutti i Wollaita hanno perso il lavoro, dopo quell’attacco infernale», mi racconta Enok Tangote, un uomo tarchiato e orgoglioso del suo lavoro, nel suo regno, Qoshe, la discarica di plastica a cielo aperto. «Io li ho dovuti sostituire tutti con i Sidama».

Così adesso sono i Sidama che girano per la città e poi portano la plastica alla Qoshe. Questo luogo di raccolta, primo smistamento e pressaggio della plastica, è l’impresa di Enok, Hawassa wubet (“la bella Hawassa)”, e impiega 40 persone salariate a circa 2000 birr al mese (60 euro). È gennaio, ma fa molto caldo, e nell’aria si sparge veloce il puzzo velenoso di questa enorme discarica a cielo aperto, dentro la quale vivono anche delle famiglie, che campano di raccolta spontanea e vendita casuale di materiali non ancora decomposti. Occorre turarsi il naso. Enok mi spiega che dall’inizio del 2018 ha ripulito la città di Hawassa di 300 tonnellate di plastica, una tonnellata e mezzo al giorno. Si guarda attorno, e mi mostra le donne che lavorano per lui; sedute a terra tra montagne di bottiglie di plastica.

Enok indica orgoglioso la pressa fornita da Cifa, che in pochi secondi crea balle da 40 chili l’una, pronte per essere caricate su camion e portate nella capitale. Hawassa wubet paga 3 birr al chilo (10 centesimi di euro) la plastica ai raccoglitori in città, e la rivende in balle pressate a un’azienda etiope-italiana, la Coba Impact di Addis Abeba, a 7 birr al chilo. «Ogni due settimane porto 6 camion ad Addis», mi dice Enok. «In ogni camion ci sono 2 tonnellate e mezzo di plastica. Ogni chilo mi costa 5,2 birr. A cui devo aggiungere le mazzette per la polizia», sorride.
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Vado ad Addis Abeba a incontrare Gabriele Amara, titolare della Coba Impact, che trasforma la plastica raccolta ad Hawassa e nella capitale in flakes, le scaglie, che poi rivende in Europa, dove verranno trasformate in granulato di Pet, da cui si otterrà plastica riciclata, che andrà via via decadendo fino a diventare microplastica: veleno. La famiglia di Gabriele conosce l’Etiopia da quasi cento anni. Il nonno paterno ci era andato, dalla Sicilia, al seguito del Genio civile. Poi, nel ’29, con la crisi in Europa, ha deciso di tornarci. Il padre di Gabriele aveva solo due anni: lì cresce con il sogno di diventare meccanico. Lavora nella “Tana Garage” per un certo signor Rossi, fascista, che viene espulso dal paese dal regime comunista di Menghistu. Il padre di Gabriele riesce allora a coronare il suo sogno e ad acquisire il Garage a rate. Dal 1972 al ’78 il Tana garage lavora per il regime comunista, e il signor Amara diventa ricco, cavalcando anche la corruzione dei funzionari di regime. Poi, con la nazionalizzazione socialista di tutte le imprese, la famiglia è costretta a rientrare in Italia. Fino al 1994, quando tornano e fiutano di cosa il paese ha bisogno: iniziano a lavorare con la plastica. In Etiopia nessuno trasforma i flakes derivati dalla raccolta nelle strade in granulato di Pet. Così loro vendono flakes in Europa e comprano granulato dalla Cina. Con i granuli producono tutto: preforme (ciò da cui per esempio Coca-Cola ricava le bottiglie), casse di plastica, contenitori, qualunque cosa. Contribuiscono alle tonnellate di plastica che adesso i raccoglitori trovano sparse nel paese, accumulate nei corsi d’acqua.
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Finché, quattro anni fa, la svolta. Di nuovo il fiuto di come si muove il mondo: iniziano a lavorare al riciclaggio, a produrre a loro volta i flakes. Gabriele mi porta a visitare la sede di Coca-Cola Etiopia. Fuori dagli stabilimenti, centinaia di migliaia di casse rosse di plastica dura. «È questo il nuovo business», gli dico sorridendo. Scuote la testa: «Bisogna lavorare su entrambi i lati. Produzione e riciclaggio». «Noi ora facciamo 15 milioni di preforme all’anno». Certo, il riciclaggio, per le grandi Corporation, è di sicuro un bel vestito, penso. Ma una bottiglia di plastica si può riciclare una volta sola. Poi è destinata a diventare veleno. Cosa faremo di tutta questa plastica? Cosa faremo, dello scarto del nostro antico feticcio? Abbiamo davvero capito che il feticcio, nel mito, finisce per mangiare chi lo ha creato?