La rivolta. La democrazia. I giovani. «il ricatto è durato vent'anni: o Bouteflika o gli islamisti. Ora il popolo non ci casca più». Parla con lo scrittore Yasmina Khadra, in esilio in Francia

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Dopo l’annuncio della ricandidatura al quinto mandato del presidente Abdelaziz Bouteflika, il 10 febbraio scorso, la protesta ha invaso le strade algerine, crescendo di settimana in settimana, estendendosi dalla capitale Algeri al resto del Paese. Bouteflika ha 82 anni e governa ininterrottamente dal 1999, è rimasto al potere nonostante nel 2013 un ictus l’abbia reso infermo. La piazza algerina oggi chiede riforme e cambiamento, con forza tale che anche l’esercito ha definito Bouteflika «non più in grado di governare», sicchè il presidente è stato costretto ad annunciare le dimissioni entro il 28 aprile, sostenendo che prenderà «tutte le misure necessarie per assicurare il funzionamento delle istituzioni durante la transizione».

Lo scrittore Yasmina Khadra osserva le proteste da Parigi, sua città d’adozione.

Yasmina Khadra è lo pseudonimo con cui dagli anni ’90 è universalmente noto Mohammed Moulessehoul, romanziere algerino di lingua francese, che da ufficiale dell’armata algerina, decise di firmare con il nome della moglie per aggirare la censura militare. La sua identità rimase celata fino al fino al 2001, quando, dopo 25 anni di carriera militare, Khadra lasciò l’esercito per trasferirsi in Francia.

Yasmina Khadra è uno scrittore affascinante e pieno di contraddizioni e ha saputo come pochi altri in questi anni raccontare gli estremismi e le ragioni socioculturali delle radicalizzazioni. Il suo ultimo romanzo, “Khalil”, pubblicato in Italia da Sellerio, è il viaggio nella mente di un giovane terrorista europeo.
Khadra ha sempre parlato dell’Algeria come della sua «malattia». Oggi osserva migliaia di persone in piazza con uno sguardo di speranza. «Per anni ho scritto che l’Algeria si era arresa. È un vero piacere oggi rendersi conto di aver sbagliato», dice.

I manifestanti vedono le concessioni di queste settimane - come la non ricandidatura di Bouteflika - come un modo per evitare riforme strutturali. Il rischio, per dirla con Tomasi di Lampedusa, è che “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Di che riforme vere avrebbe bisogno l’Algeria, oggi?
«La prima riforma in assoluto è mandare a casa questo regime marcio e corrotto, che sta portando l’Algeria alla rovina. Poi il Paese deve dotarsi di un governo e di una governance laica e democratica, per togliere di mezzo tutti quegli arcaismi che ancora oggi relegano il popolo algerino alla stagnazione e all’arretratezza. Infine, occorre ripulire tutte le istituzioni del Paese, economiche, politiche e sociali, profondamente contaminate dal malgoverno. Ecco le prime tre cose da fare nell’immediato, che forse potranno permettere al paese di aprire lo sguardo verso un orizzonte più vasto».

Quando dice che bisogna togliere di mezzo gli arcaismi, a cosa fa riferimento, in particolare?
«Intendo tutto ciò che si richiama a una tradizione retrograda, per esempio alcune leggi islamiste (e non dico religiose o musulmane, ma proprio islamiste) che hanno reificato la donna nella nostra società. Lo statuto della donna e della famiglia in Algeria è stato completamente azzerato a causa della reazione dei conservatori. Gli arcaismi sono il risultato della tendenza dei conservatori a legare il paese alla zavorra di una tradizione che gli impedisce di spiccare il volo ed emanciparsi. Sono quelle leggi retrograde che risalgono al 1500 e che impediscono allo spirito algerino di modernizzarsi e di incamminarsi in direzione del progresso».

Yasmina Khadra

Perché in Algeria appare così difficile trovare una alternativa a Bouteflika?
«Perché in 20 anni il regime ha fatto di tutto per spegnere le coscienze. Ha allontanato l’élite sana e i veri oppositori, ha premiato la mediocrità a scapito della competenza e dell’efficienza. Il regime ha infantilizzato il popolo algerino, l’ha ingannato dicendo che le cose sarebbero cambiate. Era carità, e ora il popolo sembra averlo capito. Oggi gli algerini si rendono conto di quanto siano stati complici, non vittime del sistema, lasciando che le cose marcissero. Si rendono conto soprattutto dalla consapevolezza di oggi dipende il futuro dei loro figli».

Nel 2015 lei ha scritto un libro straordinario, “L’ultima notte del rais”, in cui descriveva gli ultimi giorni di Gheddafi, in un atto unico, per voce del dittatore. La violenza, i tradimenti, la caduta e infine la morte. Quanto secondo lei i dittatori, sono vittime della loro modalità di gestire il potere?
«Sa cos’è il potere? Il potere è possesso. In senso demoniaco, proprio: le persone che flirtano con il potere a un certo punto dimenticano di essere umani e cominciano a credersi delle specie di divinità. Questo ovviamente li allontana da tutto e da tutti e finisce per intrappolarli dentro la loro stessa sovranità. Soprattutto quando la sovranità si accompagna all’impunità, l’esito più automatico è la follia. In un certo senso, i dittatori sono tutti dei folli».

Il capo dell’esercito algerino Gaid Salah ha detto che i militari e il popolo hanno una visione unitaria del futuro, suggerendo il sostegno delle forze armate ai manifestanti. Secondo lei è credibile che l’esercito sia protagonista della fase di transizione? O il rischio è piuttosto che voglia preservare la attuale struttura di potere, insomma un colpo di stato sotto mentite spoglie?
«Ora, noi vogliamo che tutto si svolga nel modo più preciso possibile, ovvero semplicemente come la fine di un mandato presidenziale, senza bisogno di colpi di stato. L’esercito non ha alcun ruolo nelle proteste di queste settimane e i soldati farebbero bene a restare nelle loro caserme. Il generale Salah parla per se stesso, non rappresenta l’esercito e gli ufficiali giovani non lo amano né lo seguiranno. Gli algerini hanno chiarito molto bene che nessuno può intestarsi il merito del risveglio del paese. Nessuno, neanche il generale Salah, che non conta più degli altri. Quello che può fare al massimo è smuovere un po’ le alte sfere, ma le decisioni spettano al popolo algerino e il popolo algerino non lo vuole. Chiunque sia stato legato al regime di Bouteflika non deve ripresentarsi è da questa base che deve partire il il risanamento di tutte le sfere politiche che gli algerini esigono.I giovani chiedono di rimpiazzare la vecchia generazione con una nuova, che abbia senso di responsabilità e senso della patria».

L’Algeria è il terzo fornitore di gas dell’Unione Europea. Quanto e come secondo lei giocheranno le eventuali ingerenze dei vicini governi europei?
«Credo che gli algerini abbiano capito che i partner occidentali dell’Algeria proveranno a tenere in piedi un governo che li ha sempre aiutati. Ma i partner stranieri non devono interferire. Spetta agli algerini scegliere che paese vogliono. Dico no alla sottomissione e no alle ingerenze».

Oltre il 30 per cento dei giovani in Algeria è disoccupato. E di nuovo, come spesso è accaduto in questi anni, a prendere la piazza sono i giovani. Secondo lei, nella piazza algerina c’è una spinta simile a quella che animò le cosiddette “primavere arabe” ormai quasi dieci anni fa?
«Non mi piace la parola “primavera” perché non c’è mai stata un’estate dopo. Anzi, la primavera è finita nell’inverno di tutte le promesse e delle speranze: siamo tornati a patire la stessa stagnazione e la stessa arretratezza di prima.Io penso che le primavere arabe siano state una grande menzogna occidentale. Detesto questa definizione ‘primavere arabe’ perché la trovo servile, sbagliata, ingannevole e, in ultima istanza, una forma di piaggeria. Credo dipenda dalla fretta con cui alcuni media occidentali cercano di dare definizioni a cose che in realtà sfuggono alla loro comprensione».

A osservarle a quasi dieci anni di distanza, che giudizio ha delle proteste del 2011?
«Penso che siano state pericolose perché la rabbia che hanno espresso non ha trovato un gruppo in grado di trasformare realmente quell’insurrezione in una rivoluzione. Ci si è fermati allo stadio della mera protesta e una protesta che non trova elaborazione a livello delle idee finisce solo nella rabbia o nella normalizzazione».

Ha timore del rischio violenza di fronte alle proteste di piazza algerine, il rischio cioè che frange estremiste di facciano strada approfittando della confusione di queste settimane?
«Gli algerini - specialmente i giovani - odiano gli islamisti. Questi non hanno il monopolio dell’opposizione o della credibilità. Il male che hanno fatto alla nazione li rende d’ufficio impresentabili. Attualmente il regime è l’unico a poter scatenare la violenza e fare terra bruciata dopo il rifiuto categorico che arriva dal popolo algerino». 

Lei ha detto: i traumi della rivolta jihadista sono stati fortissimi, la gente per anni ha preferito la tranquillità a scapito della rinascita, intendendo con questo che si tollerasse il regime di Bouteflika per tutelare una presunta sicurezzza. Qual è il rischio che vede, se lo vede, rispetto a movimenti estremisti islamici, oggi?
«Il popolo algerino ha vissuto per due decenni le conseguenze del terrorismo. Oggi vedere gli algerini diventare consapevoli dei pericoli che minacciano la nazione mi rassicura. Lo dico chiaramente: il movimento islamistain Algeria è morto. Il terrorismo è stato sconfitto con le armi e con la ragione e non ha alcuna chance di tornare. Il 60 per cento della popolazione algerina ha meno di 35 anni e i giovani detestano profondamente gli islamisti. Non lasceranno mai che un islamista si infiltri in questo movimento straordinario che si è sviluppato e che si sviluppa ogni giorno in Algeria. Gli algerini sono musulmani, certo, ma sono assolutamenti contrari all’integralismo. I dieci anni di guerra civile li hanno traumatizzati e oggi stanno cercando di andare verso un mondo migliore, un mondo completamente purificato da ogni forma di estremismo».

Il suo ultimo libro, “Khalil”, è un viaggio nella mente di un giovane radicalizzato che desidera il martirio, e che trova infine una personale forma di redenzione. Proprio in queste settimane abbiamo assistito alla sconfitta militare del Califfato. Lei ha molto lavorato anche sull’estremismo e le ragioni della violenza nei terroristi. Come sempre debellare militarmente un gruppo terroristico non significa sconfiggere l’ideologia. Quali sono gli strumenti adeguati, secondo lei, per sconfiggere questo tipo di ideologie?
«Per sconfiggere il terrorismo fondamentalista per prima cosa si deve smettere di confondere l’Islam, che è una religione, con l’islamismo, che è un’ideologia nefasta. Non si può risolvere un problema se prima non lo si capisce. La società deve rimanere vigile e unita. Solo l’intelligenza è in grado di sconfiggere la stupidità; l’approssimazione e le condanne senza appello sono i migliori alleati del radicalismo». 

Cos’è per lei l’Algeria, quella di ieri e quella di oggi?
«L’Algeria, come l’Italia e qualsiasi altra nazione, è immortale. A volte le capita di toccare il fondo, di andare alla deriva, di lasciarsi travolgere dalla mediocrità e dalla corruzione, dalla violenza e dall’arretratezza, ma alla fine rinasce sempre dalle sue ceneri. L’Algeria è un paese giovane, è ancora nella fase della pubertà, ingenuo. Ma deve crescere, è condannato a farlo».

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