Le battaglie, gli agguati feroci casa per casa, il fronte che non si vede e, per ultimo, la strage del centro detenzione migranti. Un incubo, a meno di 300 chilometri dall’Italia. Rapporto dalla città assediata dal generale Haftar (Foto di Alessio Romenzi per L'Espresso)

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«La menzogna fa bere una volta, ma non fa bere la seconda». Abdullah cammina in Piazza dei Martiri, osserva gli striscioni, le bandiere, i volantini. «Abbiamo già cacciato un dittatore, abbiamo festeggiato la sua fine, non ne lasceremo entrare un altro nella capitale», dice mentre indica l’immagine del generale Khalifa Haftar su uno striscione appeso al muro.
Haftar ha il volto coperto da una croce, una scritta in basso dice: «lasciaci soli».

Abdullah ha ventinove anni, per gran parte della sua vita quella che oggi è chiamata Piazza dei Martiri in onore dei morti della rivoluzione del 2011, era as-S ? hah al-Hadr ? , la Piazza Verde, espressione del consenso per la Jamahiryia, il regime delle masse, per il Fratello Guida, il Colonnello, il guardiano della Rivoluzione: Muammar Gheddafi, il beduino nato in una tenda di Qasr Abu Hadi. Abdullah ricorda le manifestazioni in supporto del regime, ogni due marzo per celebrare la dichiarazione della Jamahiryia, e il primo settembre, il giorno della rivoluzione, al Fateh.

Da questa stessa piazza all’inizio delle proteste, il 25 febbraio del 2011, Gheddafi gridò ai suoi sostenitori: «La vita senza dignità non ha valore, la vita senza bandiere verdi non ha valore, quindi cantate e ballate! Chi non mi sostiene morirà».
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Pochi mesi dopo a ballare in piazza c’erano i rivoluzionari: i cartelloni che celebravano il rais furono abbattuti, tutti i ritratti di Gheddafi stracciati a terra dagli insorti che ballavano, sì, ma in segno di sfida contro il regime, per rivendicare la vittoria e appropriarsi del luogo che per decenni era stato simbolo del potere del Colonnello, e ribattezzarlo Piazza dei Martiri.
Oggi la piazza è di nuovo piena, uomini e bambini da un lato, le donne dall’altro. Un cartellone campeggia di fronte al mare: “No alla militarizzazione della Libia”. Che però è già militarizzata e conta 5 milioni di persone e venti milioni di armi.
Un’enorme bandiera viene trascinata per tutto il perimetro della piazza da ragazzi che urlano “No a un altro dittatore, No ad Haftar, il criminale di guerra”. Un anziano siede su uno sgabello declamando una poesia, un’ode al deserto, al coraggio e agli eroi della Libia, primo tra tutti Omar al Mukhtar, che guidò la resistenza anticoloniale contro gli italiani negli anni Venti. Cita le sue parole, l’anziano sullo sgabello: “Non lascerò questo posto finché non avrò ottenuto uno dei due livelli più alti: martirio o vittoria”. Non vinse, catturato e processato nel Palazzo Littorio di Bengasi fu condannato a morte e impiccato in piazza, di fronte a ventimila persone. In questi giorni in piazza si commemorano altri morti. Saranno i martiri della guerra di Haftar.
Intorno all’anziano a Piazza dei Martiri, al nome di Mukhtar, l’eroe, tutti gridano “Allah u Akhbar”, dio è grande. E ancora: “vinceremo”.
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Ogni muro è tappezzato di immagini di Haftar e dei suoi alleati. C’è il saudita Bin Salman, il presidente egiziano Al Sisi, quello russo Putin e il principe ereditario degli emirati Mohamed bin Zayed al Nahnyan. Tante le immagini del presidente francese Macron. Il volto di ognuno cancellato da un segno rosso.
Non ci sono foto di Sarraj, nessun cartello o manifesto che inneggi al governo in carica, sostenuto dall’Onu. È chiaro chi sia il nemico, meno chiaro chi siano gli alleati.
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I manifesti in Piazza dei Martiri sono lo specchio di quanto questa ennesima guerra di Libia sia già diventata più che una guerra civile, una guerra per procura. Si contano amici e antagonisti, e tutto intorno la gente ripete: «Dove sono gli italiani?». Si chiedono perché il sostegno di Macron per l’uomo forte della Cirenaica sia così limpido mentre gli italiani tacciono e se parlano lo fanno con timidezza. «Vattene via criminale senza dignità, sconfiggeremo te e le bombe emiratine», grida la gente di Tripoli.

Nawja ha portato una sedia da casa, e un cappello per ripararsi dal sole, parla italiano: «Italia e Libia popoli fratelli»; è in piazza per supportare i ragazzi al fronte, far sentire loro che non sono soli, che Tripoli non diventerà una nuova Bengasi, una nuova Derna, rase al suolo dalle bombe di Haftar. Ma a guardarla da qui, Tripoli sta già diventando una nuova Siria.

Sua figlia tiene in mano uno striscione, con la scritta “le Nazioni Unite stanno distruggendo il paese”: «Nessuno si fida più di Gassam Salamè qui, le Nazioni Unite hanno perso credibilità, da anni parlano di negoziazioni, ma anche loro sono complici. Sanno che non si può trattare con i criminali eppure si ostinano a dialogare con Haftar», dice, «La pazienza è finita, è finito il tempo della negoziazione».
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Salma si avvicina con una rosa in mano, ha venticinque anni, il volto coperto dal niqab e non è d’accordo. “No al governo militare, sì al governo civile”, dice il manifesto che alza al cielo: «I libici sono fratelli, non sono nemici. Bisogna tenersi per mano». Parte della sua famiglia vive a Bengasi, nella zona del paese controllata da Haftar, Bengasi, dove la rivoluzione ebbe inizio. Salma dice che l’unico esercito che riconosce è quello del 17 febbraio, è lo spirito della rivoluzione, che la rivoluzione non è ancora finita: «C’è tanta gente con cui possiamo ancora sederci e parlare, negoziare, fare accordi. A est non ci sono nemici, ci sono fratelli, libici come noi. Sono i benvenuti, ma in pace. Haftar ha distrutto gli sforzi fatti finora con la sua avanzata militare. Perciò credo ancora che ci sia una soluzione diplomatica, ma solo se lui sarà escluso dalle trattative. Venite fratelli dell’est, ma senza Haftar». Le donne intorno le fanno da coro, gridano: «Bengasi svegliati, caccia l’assassino».

La manifestazione dello scorso venerdì è stata l’ultima prima dell’inizio del Ramadan, il mese sacro dei musulmani, il mese del digiuno, della preghiera, dell’autodisciplina. «Per noi è anche il mese della guerra», sorride amaramente Abdullah, ricordando tutte le battaglie degli ultimi anni combattute durante il mese sacro.
«Anche la guerra civile del 2014 è iniziata durante il Ramadan. Per noi Ramadan purtroppo significa combattimento». Lo sa bene anche Haftar, che ha esortato le sue truppe ad attaccare più duramente e dare ai nemici una lezione, perché «il Ramadan è mese di guerra santa», ha detto in un audiomessaggio diffuso dal suo portavoce al-Mismeri.
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Abdullah si allontana dalla piazza che è quasi sera, qualcuno distribuisce dolci, i baryoush, qualcuno intona ancora canti di protesta, “Haftar, Tripoli non ti lascerà entrare”. I bambini sostengono manifesti di cui ignorano il significato, invitati dai padri a calpestare le foto del generale stese a terra. Altri a bassa voce esprimono la stanchezza della città.

«Non si tratta di essere ottimisti o pessimisti sulla fine della guerra, me di essere lucidi e ammettere che la scelta ormai è tra milizie e dittatura», dice un anziano che indossa la jalabia bianca del giorno di festa. Sale gli scalini del palazzo da cui si affacciava il Fratello Guida, Gheddafi, osserva le bandiere: «parte di quelli che oggi vedi in piazza fino a un mese fa si lamentavano degli abusi delle milizie, evocavano i tempi della sicurezza, rimpiangevano il passato, quando il regime garantiva almeno a tutti casa, lavoro e elettricità. Siamo stanchi e molti di quelli che riempiono questa piazza sarebbero stati pronti solo poche settimane fa ad accogliere Haftar».
La stanchezza di Tripoli è nelle sue code alle stazioni di servizio, nelle banche. La stanchezza di Tripoli si legge nelle sue contraddizioni, la più grande riserva petrolifera del continente africano, la nona nel mondo, con i suoi 48 miliardi di barili di greggio e i 15 miliardi gas naturale la Libia potrebbe restare sul mercato per oltre cento anni.
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Un’economia basata sul petrolio, che rappresenta il 95% delle entrate governative e il 96% del valore delle esportazioni, un fatturato medio di 24 miliardi di dollari, un pieno di benzina per 4 dollari. Ma la gente resta in coda ore, se non giorni, alle stazioni di servizio, con le macchine piene di taniche per elemosinare un po’ di carburante. Perché tutto, raffinerie comprese, è ostaggio delle milizie. Un paese ricchissimo in cui non c’è denaro contante. Perché anche le banche sono in mano ai gruppi armati.

La stanchezza di Tripoli è ciò su cui Haftar avrebbe voluto far leva per costruire il consenso. Ma ha sopravvalutato i suoi alleati in città. E osato troppo, troppo in fretta. Avrebbe voluto entrare da eroe, replicando la retorica con cui ha condotto la guerra di Bengasi: ripulire la capitale di “milizie e islamisti”. Ma non può essere accolto da invasore.

Quando su Tripoli fa buio Abdullah guida tra le strade di Darah, il quartiere degli hotel, di fronte alla Marina, e al porto vecchio dei pescatori. La gente è stanca, certo, e ha paura di dire cosa pensa. «Nessuno oggi ti dirà apertamente che appoggerebbe Haftar. La paura è un lascito del regime».
Come il timore vivo che provava Abdullah da bambino, quando i padri dicevano ai figli di non nominare Gheddafi mai, nemmeno quando si è soli in una stanza.
Indica un edificio: «Al tempo di Gheddafi lì sotto c’erano parcheggiate macchine di ogni tipo, umili o lussuose, taxi o camioncini della frutta. Tutti si fermavano una volta al mese a prendere una busta di contante, era il giorno di paga degli informatori. Non importava a quale classe sociale appartenessero, tutti controllavano tutti e basta. Consuetudini del regime. Alla fine ti ci abitui. E oggi sembra di essere tornati al punto di partenza, Haftar l’aveva detto nel 2014 che “la Libia non è pronta per la democrazia” e ora ha presentato la sua strategia per conquistarla: una dittatura mascherata da liberazione dai terroristi». Non pensava che la sua ambizione sarebbe stata bloccata a un incrocio a venti chilometri a sud est di Tripoli da gruppi armati arrivati da tutto l’ovest della Libia.
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Sono passate cinque settimane dall’inizio dell’offensiva contro le forze del Gna (Governo di accordo nazionale) di Tripoli da parte delle truppe del maresciallo Khalifa Haftar, capo delle forze armate libiche (Lna); la battaglia ha raggiunto quartieri periferici nella parte meridionale della città, Ain Zara, Khalat al Ferjan, Salhaeddine, Yarmouk camp e la zona del vecchio aeroporto internazionale già distrutto nel 2014. Poi c’è il fronte esterno, a quaranta chilometri dalla capitale, ad Azizia e al Hira, dove si combatte in zone di aperta campagna.
Più di quattrocento morti, duemila feriti. Cinquantamila sfollati. Tante linee del fronte, una più fluida dell’altra. Avanzate e ritirate quotidiane. Più che combattere si gioca al gatto e al topo sotto i colpi di mortaio.
Il quartiere residenziale di Ain Zara è spettrale. I negozi fermi al momento in cui sono stati abbandonati, all’esterno ancora la frutta e la verdura ormai coperta di sabbia e polvere delle macerie, chilometri di strade e blocchi di terra, per contrastare i mezzi nemici. Le moschee usate come postazioni dei cecchini.
Lungo la via i segni delle bombe di Haftar. «Hanno carri armati di ultima generazione, T72, T92, droni, razzi Grad, aerei e elicotteri», dice Yasin Salama, arrivato a combattere da Misurata, con il suo khalashnikov scassato, la T-shirt e l’esperienza di tre guerre in otto anni: «siamo addestrati ma a terra è facile, se il nemico bombarda non puoi fare nulla. Preghi e basta».
Veterano esperto, Yasin spiega che non si può avanzare indiscriminatamente, al madaniiyn: «i civili, dobbiamo pensare ai civili. Prima di tutto salvare vite umane». Intorno a lui mitragliatrici e ak-47 raccontano l’insufficienza materiale delle truppe rispetto a quelle avversarie.
«Dove sono i nostri alleati? Perché non mandano droni, mentre noi viviamo con la paura delle bombe emiratine?». Yasin fa riferimento a uno dei missili usati su Tripoli, un LJ-7 cinese, usato dagli Uav Wing Loong, apparecchi anche questi cinesi, di cui dispongono solo gli Emirati Arabi che secondo le Nazioni Unite hanno fornito ad Haftar anche aerei, 100 blindati e stanziato 200 milioni di dollari a sostegno della sua campagna militare.

Fathi Bashaga, il ministro dell’Interno del Gna, è corso ai ripari e volato in Turchia, solido alleato del governo di Sarraj, insieme al Qatar, per discutere di difesa e sicurezza. Tradotto: a chiedere sostegno militare.
All’ingresso del quartiere una cartiera, anch’essa distrutta dalle bombe, il rumore delle cataste di lamiera mosse dal vento si unisce agli spari che si fanno sempre più vicini. I civili che potevano sono scappati, mancano all’appello quelli intrappolati ancora nelle zone dei combattimenti.

Un’automobile carica di buste si ferma lungo il ciglio della strada, seguita da un’ambulanza. Osama Oshah è l’ultimo ad andarsene dal quartiere, con la moglie e i due figli piccoli. Sfollato due volte, ha lasciato la città di origine, Derna, quando Haftar ha iniziato la sua campagna militare per liberare la città da Ansar al Sharia, e oggi fugge da Tripoli: «la distruzione di Ain Zara non è niente rispetto a Bengasi e Derna. Non fatevi ingannare dalle parole, quello che Haftar chiama esercito è una banda di selvaggi mercenari, sudanesi, ciadiani, e quelli che Haftar chiama terroristi per giustificare la sua guerra sono oppositori politici. I dittatori fanno così, giocano con le parole, l’abbiamo imparato sulla nostra pelle, chiamano guerra al terrore la giustificazione della loro brutalità».
L’ambulanza che lo segue trasporta un uomo, scheletrico, sembra non mangiare da giorni. Per settimane non è stato possibile evacuarlo. I soldati alzano gli occhi al cielo, ogni rumore è la minaccia di un drone, di una bomba improvvisa.
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Il comandante della brigata è di Misurata - Khaled Mansour - e ha il volto coperto dal passamontagna perché parte della sua famiglia vive ancora a Bengasi, e anche sul campo – dice – meglio non fidarsi di nessuno. Racconta che la settimana scorsa due uomini sono arrivati sventolando una bandiera bianca, dicevano di essere soldati di Haftar, di volersi arrendere e disertare. Invece era un’imboscata. Quando i suoi uomini sono usciti per salvarli sono stati attaccati ai due lati dai soldati nemici. Ha perso tre dei suoi uomini migliori.
Poche centinaia di metri separano i cecchini: libici da una parte, libici dall’altra. Il comandante imbraccia un ak-47 e sale velocemente tre piani di scale, uno dei suoi uomini armato di mitragliatrice lancia una raffica di fuoco verso il nemico. Hanno combattuto anche nel 2016, con Bunyar al Marsous, la coalizione di forze militari di Misurata che sconfisse l’Isis a Sirte. Una guerra durata sei mesi e costata alla città settecento morti e tremila feriti: «non accetto di farmi descrivere come un terrorista da un aspirante dittatore burattino di altri dittatori, se c’è qualcuno che ha combattuto gli jihadisti in Libia, siamo noi».

Per leggere il fronte di Tripoli è necessario osservare chi si astiene dai combattimenti, più di chi vi partecipa. Le forze in campo sono prevalentemente misuratine, i combattenti più numerosi, quelli più esperti. I comandanti misuratini sono i più attrezzati sul campo, sono qui per proteggere la capitale ma anche per proteggere sé stessi. Haftar considera la città una roccaforte della fratellanza musulmana, i misuratini sanno che se cade Tripoli, sono i prossimi sulla lista.

Ci sono brigate di Zawhia e di Zuwara, ci sono gli amazigh, gli uomini di Janzour, mancano però all’appello la maggioranza delle milizie di Tripoli. I grandi assenti sono i salafiti della milizia Rada, le Forze di Deterrenza che contano 1500 persone e controllano l’aeroporto di Mitiga e la prigione. Sono i potenti salafiti sostenuti da Ryahd che con il decreto 555 emanato da Sarraj si sono guadagnati lo status privilegiato di Forze Speciali. Non devono tenere conto a nessuno in nome della lotta al terrorismo.

In città chiamano il decreto 555 l’assegno in bianco ai signori della guerra. È con loro che gli emissari di Haftar hanno dialogato negli ultimi anni, attraverso i gruppi salafiti madkhalisti che lo sostengono in Cirenaica. Sono loro oggi l’ago della bilancia. Dai loro tavoli di negoziazione con l’uno e l’altro governo può dipendere l’esito della campagna militare del generale.

Atiya ha poco più di vent’anni, pantaloni corti e giacca mimetica. Sorride sempre. «È la mia guerra», dice, «non ho paura di essere un martire se serve a proteggere la capitale dall’invasore».
Combatte nella zona dell’ex aeroporto, uno dei fronti più pericolosi, il più conteso. È aperta campagna e si avanza tra le fattorie e gli allevamenti. I blindati si muovono verso sud, in ricognizione.
La radio trasmette le posizioni: “Zona 17, ci siamo, baba, baba”, significa che c’è un carroarmato in postazione nemica. La voce dall’altra parte risponde: «moriremo se è necessario, non ci muoviamo fino a nuovo ordine. Dimostreremo chi siamo. Allah u Akbar».
Essere sulla prima linea del fronte di Tripoli, oggi, significa muoversi randomicamente. Prima di combattere il nemico bisogna cercarlo, sapere dov’è. Quanto è distante, ma soprattutto se è troppo vicino.
I soldati che presidiano Airport Road devono conquistare la strada metro dopo metro, sotto la pioggia dei mortai, perché gli uomini di Haftar sono a destra e sinistra. Basta che entri un carroarmato a bloccare la strada principale per essere circondati.
Un rpg colpisce improvvisamente la macchina blindata, seguito da una raffica di proiettili. Il suono sordo e rotondo dei colpi che escono si interv
alla a quello sibilante e ripetuto dei colpi che entrano.
«È la quarta guerra in otto anni», dice Atiya , «la rivoluzione prima, la guerra civile, poi la guerra di settembre, milizie contro milizie a marciare su Tripoli e ora la guerra di Haftar. I nemici di ieri sono gli alleati di oggi. E gli alleati di oggi possono diventare i nemici di domani».

Il balletto di brigate e gruppi armati ha portato anche Salah Badi, il signore della guerra di Misurata, a difendere la capitale. Solo sette mesi fa, nella guerra di settembre, aveva mosso i suoi mezzi a sostegno della Settima Brigata di Tarhouna contro gli abusi di potere delle milizie di Tripoli che oggi invece difende, contro gli alleati di ieri, a loro volta sostenitori di Haftar.
Per questo al fronte i soldati non sono solo spossati, sono disincantati, sanno che nel caso di sconfitta del generale della Cirenaica, gli alleati di oggi torneranno rivali, e come in tutti i conflitti precedenti chi ha combattuto più tenacemente chiederà il conto: posizioni politiche, denaro. È difficile immaginare che i misuratini che stanno combattendo per difendere Tripoli lascino le posizioni in caso di vittoria. E di nuovo, gli alleati di oggi saranno i nemici di domani.
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«È l’opportunismo che ha ucciso lo spirito della rivoluzione», dice Atiya, «I giovani sono morti per la libertà e i vecchi hanno rubato il bottino».

Atiya durante la rivoluzione ha perso suo padre, un ribelle. «Un martire del 2011», racconta mentre osserva dal finestrino del blindato blocchi di abitazioni danneggiate o distrutte. Atiya dice che non può smettere di credere nello spirito del 17 Febbraio, nelle parole d’ordine della rivoluzione.
Dice che è difficile uccidere, perché dall’altra parte, di nuovo, ci sono libici come lui. Ma che non può fare altrimenti: «Se non sparo per primo, sono il primo a morire».

Grida “Hurria Hurria”, libertà libertà, mentre scende dal mezzo blindato: «non posso smettere di credere nella libertà».

Perché il rischio di smettere di credere nella libertà, oggi a Tripoli, è consegnarsi alla stanchezza e alla passività che apre la strada a una nuova dittatura.