1989-2019, la caduta del Muro

"Io, in quelle riunioni carbonare in Polonia in cui ho visto il comunismo sgretolarsi"

di Wlodek Goldkorn   12 luglio 2019

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Il cibo razionato, i salari da fame. La mano morbida di Jaruzelski, la visita di Gorbaciov. Il ruolo di Wojtyla e degli intellettuali. La grande spinta popolare di Solidarnosc. Finché Lech Walesa mi disse: «Non c’è posto per me in Parlamento». Ma un anno dopo era presidente

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La storia dell’anno 1989, del crollo del Muro di Berlino, della riconquistata libertà e della promessa di un’Europa mai più divisa dalle barriere, perché ai tempi il filo spinato era sinonimo del Male e della vergogna e non totem dell’orgoglio nazionalista, comincia in Polonia. L’inizio è quasi in sordina, nel novembre 1987. Novembre, sulle rive della Vistola è il più triste dei mesi: il cielo è grigio e piove spesso, la gente è depressa e abusa della vodka. Il Paese era poverissimo, il cibo razionato, negli ospedali mancavano perfino i guanti da chirurgo, lo stipendio medio ammontava a quindici dollari al mese, i giovani cercavano lavoretti occasionali: lavavetri a Roma, raccoglitori di mele in Scandinavia.

A Mosca Mikhail Gorbaciov era impegnato nell’opera di perestrojka, un tentativo così audace di rendere più democratica l’Urss, da non aver risorse né tempo per occuparsi degli affari dei Paesi satelliti. Il potere in Polonia era nelle mani del generale Wojciech Jaruzelski, un nobile educato in un liceo dei padri mariani, convertitosi da giovanissimo al comunismo, protagonista di una specie di golpe militare nel dicembre 1981 e che oltre ad aver messo fuori legge il sindacato indipendente Solidarnosc, aveva ridimensionato il ruolo del Partito. In questa situazione dunque, Jaruzelski e i suoi avevano indetto un referendum su una proposta di riforma dell’economia. E fu miracolo. Non solo la maggioranza dei polacchi bocciò nelle urne il quesito, ma il governo ammise la sconfitta. Il mondo stava cambiando.
Lech Walesa

Nello stesso triste mese, ho avuto occasione di conoscere Jaruzelski di persona. Nel suo ufficio, nell’allora sede della presidenza della Repubblica, mi avevano colpito due cose. La prima: il suo polacco. Non parlava l’idioma dei capi comunisti, sgrammaticato e infarcito di triviali metafore di stampo militare, ma al contrario si notava la cura per le parole e l’attaccamento a una lingua classica e letteraria. La seconda: un certo, manifesto imbarazzo, dato dal fatto che il generale non poteva dire fino in fondo quello che avrebbe voluto. Jaruzelski aveva capito che per salvare il Paese dallo sfascio occorreva cambiare tutto. E anche che la situazione al Cremlino e l’appoggio del pontefice polacco Karol Wojtyla, rendevano possibile ciò che sembrava inimmaginabile.

Nel Paese non c’erano più prigionieri politici. All’Università si potevano comprare liberamente libri e riviste stampati senza il visto della censura. Ma l’atmosfera di libertà aveva qualcosa di provvisorio, incerto. Un esempio. L’allora capofila dei riformisti in seno al Partito, Mieczyslaw Rakowski, mi disse: «Lei domani va a trovare Geremek. Il fatto che lui sia in casa e non in prigione è la massima concessione che possiamo fare all’opposizione». Bronislaw Geremek era uno storico celebre, un intellettuale raffinato di casa a Parigi come a Varsavia, un uomo al quale piacevano la buona tavola e l’ottimo vino (i nostri pranzi in uno dei ristoranti di solito frequentati da stranieri mi davano la possibilità di capire le dinamiche della politica polacca e non solo), nonché lo stratega di Solidarnosc e consigliere numero uno di Lech Walesa. Geremek dunque, sentite dalla mia bocca le parole di Rakowski, reagì: «Allora uno di noi due non ha capito niente, spero solo che a sbagliare sia lui e non io».

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La primavera del 1988 portò con sé un’ondata di scioperi. C’era la questione della povertà e dei salari troppo bassi, ma soprattutto i lavoratori avevano meno paura. Uno di questi scioperi ebbe luogo nei cantieri navali Lenin di Danzica, culla di Solidarnosc, simbolo della lotta per la dignità degli oppressi e degli sfruttati. La protesta iniziò il 2 maggio, all’indomani della festa dei lavoratori. Le maestranze ebbero un ospite importante. Si chiamava Tadeusz Mazowiecki, era un intellettuale cattolico, seguace di una corrente del pensiero nata in Francia, definita “il personalismo”, prodotto di un cristianesimo che abbracciava la modernità e che non aveva paura del marxismo né degli atei. Mazowiecki, nel 1989 sarebbe diventato il primo presidente del Consiglio di una Polonia libera. A Danzica in quel maggio dormì per una settimana per terra in un sacco a pelo assieme ai compagni di lotta molto più giovani (lui aveva 61 anni), diede coraggio e consigli. La polizia minacciò di invadere i cantieri. Finì con un’onorevole resa. Quella minaccia, quel momento di intransigenza del potere avrebbero poi indotto Mazowiecki, persona schiva, diffidente, da un lato generosa fino all’inverosimile dall’altro capace di una certa gelosia (un giorno nel suo modesto appartamento, due stanze con mobili essenziali, mi rimproverò perché frequentavo più Geremek di lui, ma Geremek era una fonte, lui Mazowiecki, con la sua proverbiale riservatezza, no). Quell’episodio a Danzica, insomma, lo convinse che dei comunisti non ci si poteva fidare, nonostante Gorbaciov a Mosca.

Due mesi dopo, a luglio 1988, Gorbaciov arrivò a Varsavia. Fu un piccolo trionfo. L’automobile che portava in giro un russo, comunista, capo del Cremlino, uno zar rosso insomma, veniva fermata da folle acclamanti di polacchi, anticomunisti e non particolarmente amici dei russi. Durante un incontro con intellettuali al Castello reale, a Gorbaciov vennero poste, tra le altre, due domande: l’una sulla questione di Katyn, la foresta dove nel 1940 per ordine di Stalin allora alleato di Hitler, vennero fucilati ventiduemila ufficiali polacchi, prigionieri di guerra. L’altra, sulla validità della dottrina Breznev, per cui l’Urss avrebbe avuto il diritto di intervenire militarmente nei Paesi del Patto di Varsavia. Gorbaciov non rispose, ma il fatto che queste domande potessero essere fatte in pubblico, fu una risposta.
Il generale Wojciech Jaruzelski

Sempre in quel luglio, nella sede dei gesuiti a Varsavia ebbe luogo una riunione. Vi parteciparono, oltre a Geremek e Mazowiecki, Adam Michnik, oggi direttore di Gazeta Wyborcza, ma prima ancora leader del Sessantotto polacco, nella propaganda del potere dipinto come pericoloso estremista, padre Stanislaw Opiela, generale dell’Ordine dei gesuiti e Michal Jagiello, allora direttore della rivista sempre dei gesuiti e ministro della Cultura nel futuro esecutivo di Mazowiecki. Ero lì, ma non potevo prendere appunti perché ero abusivo e temevo di essere mandato via (non mi cacciarono perché ciascuno dei partecipanti pensava che fossi stato invitato da qualcun altro). Mi rammento Michnik dire che Gorbaciov costituiva una grande occasione per conquistare la libertà. E che occorreva tentare di intavolare un negoziato con la parte più lucida del Partito. Geremek annuiva sornione. Mazowiecki invece era infastidito. «Con loro non si deve trattare e di loro non ci si può fidare», ripeteva.

Il 31 agosto, Walesa incontrava, in una villa dei servizi segreti, Czeslaw Kiszczak, ministro dell’Interno e l’uomo di fiducia di Jaruzelski. Il tema dell’incontro: la riabilitazione di Solidarnosc e le riforme politiche. Kiszczak era una persona simpatica e intelligente. A suo modo era perfino generoso. La storia è questa: nel 1983 le autorità proposero ai capi di Solidarnosc in galera di espatriare. Michnik reagì scrivendo una lettera a Kiszczak in cui disse in sostanza: solo una persona ignobile come lei poteva escogitare un’idea così vile e umiliante. Nel 1989, Kiszczak mi disse: «Fui ammirato per il coraggio che mostrò quell’uomo. Cominciai a sospettare che non fosse un pericoloso estremista da tenere in una cella, ma un patriota». Ci mise quasi sei anni per convincersene del tutto, ma ebbe l’onestà di ammetterlo così come di chiedergli scusa. Intanto tra riunioni più o meno segrete, con l’attiva partecipazione dei vescovi, e con tutto l’appoggio possibile di Wojtyla, si stava preparando un vero negoziato per la transizione dei poteri.

Mi sia permessa un’ulteriore testimonianza dell’atmosfera che si respirava a Varsavia più di un anno prima del crollo del Muro. Un giorno Michnik mi disse di cercare Aleksander Kwasniewski, all’epoca uno dei responsabili delle questioni dello sport e della gioventù del Partito e più tardi Presidente della Repubblica. Quando entrai nel suo ufficio, Kwasniewski mi disse: «Ho fatto un grosso errore nella vita. Ho aderito al Partito comunista». Sorrise, fece un ampio gesto per mostrarmi il lusso del suo studio (arredato per la verità con orrendi mobili chiari, come tutti gli uffici del potere comunista). Aggiunse: «Ne ho tratto benefici. Ma ora me ne pento. E da questa mia posizione farò di tutto perché il partito perda il potere. Michnik è un amico e alleato. Spero che vinceremo insieme, altrimenti, sarà per me un onore condividere con lui la stessa cella di prigione».
Prima tavola rotonda tra il governo polacco, Solidarnosc e le opposizioni nel febbraio 89

Nel febbraio 1989 cominciò il negoziato della Tavola rotonda. Rappresentanti (quasi tutti maschi, le donne erano pochissime) di Solidarnosc, del Partito e della Chiesa trattarono per due mesi il modo di ricostruire fin dalle fondamenta il sistema politico ed economico del Paese. Mazowiecki, all’inizio contrario alla trattativa vi partecipò. Il 5 aprile, ero accanto a Geremek alla stazione centrale di Varsavia. Dal treno da Danzica scese Walesa. Quasi di corsa, per schivare giornalisti e fotografi, lo portammo alla macchina che avevo affittato. Walesa era tesissimo. Chiedeva a Geremek se fosse davvero convinto che gli accordi con i comunisti andassero firmati. «E se ci ingannano?», chiedeva. Ma al contempo ripeteva: «Comunque i preti dicono che ci dobbiamo fidare».

Non so se fosse una forma di scaramanzia, o un gioco (a Walesa piaceva tenere le persone sulla corda), questo suo apparente oscillare tra la convinzione che tutto sarebbe andato bene e la tentazione del rifiuto dell’ultimo istante. Andammo all’Hotel Europejski. Dopo aver fatto l’intervista al leader di Solidarnosc (per questo settimanale) lasciai i due. Ero convinto che Walesa avrebbe firmato, ma avevo la sensazione che la storia spesso è casuale, che molto dipende dall’umore del momento. E ho visto quanto coraggio occorre per prendere una decisione che possa cambiare, nel bene, ma pure nel male (se i comunisti avessero tradito) le sorti di un Paese.

Il resto è scritto nei libri. A maggio nasceva “Gazeta Wyborcza”, oggi il principale quotidiano polacco, e che iniziava l’attività in un ex asilo nido, con le riunioni di redazione nella sabbiera. Il 4 giugno ci furono le elezioni. Solidarnosc trionfò, ma per via dell’ordinamento elettorale ai comunisti era riservata una consistente quota di deputati alla Camera bassa. E così su “Gazeta” uscì un editoriale a firma del direttore Michnik, con la proposta: a voi comunisti il capo dello Stato, a noi il premier. Il negoziato non fu semplice: nessun problema per Jaruzelski presidente. Era lui il garante della transizione, in grado di rassicurare l’Urss e tranquillizzare le forze armate e le forze dell’ordine. Svolse il compito in una maniera eccellente. Ma sulla figura del premier non c’era accordo. Qualcuno pensò a Geremek, ma si obbiettò che un ateo, scappato da bambino assieme alla madre dal ghetto di Varsavia non era la figura adatta per gestire una fase così delicata nella vita della nazione. Così, spuntò Mazowiecki. E fu come se la provvidenza divina o lo hegeliano spirito della Storia si fossero fatti carne.

Salito al potere ad agosto, me lo ricordo alla Dieta (oltre a me c’era per L’Espresso Gad Lerner) commosso, quasi incredulo per quello che succedeva. Prometteva un nuovo inizio. Giurava che non ci sarebbero state vendette. Il passato era passato, occorreva guardare l’avvenire. Fu un premier eccellente, forse il miglior possibile data la situazione (il Patto di Varsavia ancora in piedi così come il Muro di Berlino, il Paese in rovina, la Chiesa ingorda di incassare i dividendi dell’impegno).

E Walesa, l’eroe della lotta per la libertà? Nel negoziato con i comunisti venne deciso che non sarebbe stato candidato per un seggio in Parlamento. Mi ricordo la prima riunione dei gruppi parlamentari appunto di Solidarnosc. Mi ero messo alla porta dell’aula. Arrivò Walesa. Entrò nella sala. Dopo pochi minuti lo vidi uscire. C’era una scrivania e una sedia accanto alla porta. Io mi sedetti sulla scrivania, lui sulla sedia. Mi guardò negli occhi, mi disse: «Mi hanno spiegato che non sono né deputato né senatore. Non c’è posto per me». Un anno dopo, il Muro di Berlino crollato, vinse le elezioni presidenziali. Oggi è un vecchio saggio in prima linea nella lotta contro i nazionalisti.