Così la Ddr collassò in un’orgia di nepotismi e menzogne
Ha raccontato i 40 anni della Germania dell’Est in un romanzo autobiografico che smaschera la grande finzione del regime. Oggi Eugen Ruge avverte: «All’Ovest avete rimosso lo stalinismo»
Il romanzo sul crollo del Muro e i 40 anni della Ddr, della Deutsche demokratische Republik, doveva scriverlo lui: Eugen Ruge. Un tedesco laureato in matematica a Berlino-est. Venuto al mondo nel 1954 a Soswa, villaggio degli Urali in cui sua madre combatté con l’Armata rossa - all’urlo di “Per la patria! Per Stalin!” - contro gli invasori nazisti. Mentre suo padre Wolfgang Ruge - che nel dopoguerra sarà uno dei più grandi storici dell’ex-Ddr - era in un gulag costretto, in quanto tedesco, ai lavori forzati. «Nel mio romanzo», racconta Ruge, «ho dato a quel villaggio russo in cui sono nato subito dopo la morte di Stalin, il nome di Slawa, che in russo significa “fama”. Mia madre poi non si chiamava Irina, come nel libro, ma Taissia». Siamo andati a trovare Ruge nella sua casetta di villeggiatura a Rügen, l’isola sul Mar Baltico dove, con i tramonti violacei e le sublimi scogliere dipinte da Caspar David Friedrich, nacque il romanticismo tedesco.
Anche nel salotto dello scrittore vediamo i quadri delle marine che sua madre dipingeva , e un ritratto - con pipa e berretto da pescatore - di suo padre Wolfgang (autore di un’ottima biografia di Lenin nonché di “I miei anni nell’Unione sovietica di Stalin”, le sue memorie dai gulag). E sul comò, accanto ai romanzi di Ruge, la foto di Taissia, occhioni ridenti e capelli ricci, come la bella Irina del romanzo. «Mia madre desiderava tanto una casa qui al mare; fu la prima e ultima volta che mio padre si rivolse al partito per ottenere il permesso di costruirla in seguito ai suoi tanti anni di prigionia». [[ge:rep-locali:espresso:285137926]] È il mix di storie vissute nel sistema comunista e (poca) finzione che rende unico, esilarante “In tempi di luce declinante”: romanzo sulla parabola della Ddr dalla fondazione nell’ottobre del ’49 al crollo del Muro il 9 novembre dell’89. Pagine autobiografiche in cui seguiamo in una famiglia il progressivo disincanto di tre generazioni che, dopo la costruzione del Muro il 13 agosto del ’61, ci credono sempre meno ai miti del comunismo e ai riti sempre più vuoti della Ddr. «Dietro a quel Muro, spiega Ruge, seguivamo in tv le immagini che l’Occidente trasmetteva, le belle auto, i mille prodotti, il rock e le proteste dei giovani in piazza o i politici che nei Parlamenti dell’Ovest si esprimevano liberamente». È anche nel riflesso abbagliante della Germania-ovest, per quanto edulcorato, che l’esperimento del Socialismo su terra prussiana, con 16 milioni di tedeschi imbottigliati dietro un Muro, perde via via smalto ideologico.
Ricordando fatalmente il declino dei Buddenbrook, narrato all’inizio del Novecento dal giovane Thomas Mann. «Per mantenerci a galla in una Ddr che faceva sempre più acqua non ci restava», ricorda Ruge, «che inventarci barzellette sul sistema, una più cinica dell’altra». Come quella sui sei “miracoli” dei Kombinat ad esempio, come si chiamavano le fabbriche nella Ddr, con plotoni di operai non tanto stakanovisti. «Nessuno è disoccupato nella Ddr», la racconta Ruge, «ma nessuno lavora! E sebbene nessuno lavori, i piani quinquennali del partito sono più che realizzati! Anche se i piani sono raggiunti, non c’è nulla da comprare! Le merci non ci sono, ma tutti hanno tutto nella Ddr! Tutti soddisfatti, e tutti si lamentano! Ma anche se si lagnano, alla fine sono tutti comunisti!».
Una dialettica surreale questa dei “miracoli” della Ddr che, cinismo a parte, spiega perché il sistema doveva collassare. La prima delle menzogne del cosiddetto socialismo reale era che «nella Ddr», spiega Ruge, «tutti si arrangiavano con quel che si riusciva a “organizzare”, e cioè a recuperare via contatti personali». Altro che marxismo, piani quinquennali e giustizia sociale: era un enorme mercato nero, un’orgia di favoritismi e nepotismi questa Ddr in cui, senza contatti, aspettavi decenni per una fatiscente Trabant, e anche all’accademia di Lipsia, come ci ha raccontato il pittore Neo Rauch, dipingevano su pezzi di cartone, data la penuria di tele. Ma ciò che sin dagli inizi minò il regime e doveva farne esplodere le miserabili contraddizioni, «è stata la rimozione degli orrori dello stalinismo», spiega Ruge, «ecco la menzogna capitale della Ddr: il silenzio sugli orrori dello stalinismo dall’era delle purghe, ai processi sommari alle persecuzioni e omicidi di massa in Russia e nel Blocco sovietico dagli anni Trenta alla morte di Stalin e oltre. Tutti i dirigenti dei partiti comunisti del Vecchio Continente, non solo quelli tedeschi, sono passati a Mosca per questa tremenda scuola di Stalin».
E tutti, sia Ulbricht che Honecker o Togliatti, hanno taciuto sugli squallori dello stalinismo. A cui Ruge ha ora dedicato un nuovo romanzo intitolato “Metropol”, come il famoso hotel di Mosca. Una storia che, basata su documenti degli archivi sovietici, ricostruisce le vicende di sua nonna Charlotte e del nonno Wilhelm, due comunisti convinti sfuggiti per un pelo (come suo padre Kurt e lo zio Werner) agli sgherri nazisti. Ma sbarcati a Mosca nel ’36, nel pieno del Terrore in cui Stalin e i suoi aguzzini del Nkwd fanno fuori migliaia di ”nemici di classe”, dai trotzkisti a quasi tutto il gruppo dirigente dell’era leninista, generali e vari intellettuali. «Ho scritto “Metropol”», dice lo scrittore, «per capire come funzionano le ideologie e sino a che punto l’uomo può spingersi a negare la realtà per una fede politica».
Anche oggi d’altronde, in piena era digitale, c’è chi crede a fake news e a ogni idiozia (dal terrapiattismo alle più aberranti fandonie razziste). « La fede nel marxismo di mio nonno derivava dal suo rifiuto del capitalismo. Per lui il capitalismo era destinato a sparire dalla Terra. Per un operaio come lui il marxismo era una fede, una verità inconfutabile». Nulla di strano all’epoca: un raffinato scrittore come Lion Feuchtwanger, anche lui a Mosca nel ’36, riuscì a lodare i “processi’”di Stalin. Dopo la morte del dittatore georgiano però, la rivolta operaia a Berlino del 17 giugno ‘53, spenta nel sangue, e soprattutto dopo la costruzione nel 1961 del Muro di Berlino - il “vallo antifascista” nel gergo del partito - anche nella Ddr l’atmosfera cambia. «Quando è stato costruito il Muro avevo sei anni», ricorda Ruge, «ma per me il Muro era il recinto della mia scuola che si trovava in un quartiere di Berlino-est confinante con l’ovest. Anche senza Muro sapevo che Berlino-ovest era la parte più luminosa della città, dove vivevano i capitalisti».
Certo, il nonno e la nonna del piccolo Eugen rimasero fedeli sino alla fine al partito. «Mio padre invece non entrò mai nel partito e in famiglia praticavamo un certo socialismo democratico. Tra noi si discuteva di tutto, era fuori che bisognava tacere». È questo ultimo tabù, l’impossibilità di criticare apertamente il partito e l’Unione sovietica che, secondo Ruge, ha portato al crollo del Muro. «Sin da ragazzo sapevo che mio padre era finito in un gulag, ma di questo non si poteva parlare perché eravamo una società stalinista, una società che si basava su milioni di morti». Sì, suo padre, lo storico Wolfgang, riuscirà a scrivere dei suoi anni negli Urali, ma solo dopo il crollo del Muro (in un libro edito da suo figlio Eugen). E anche oggi, a 30 anni di distanza, quando ripensa alla vita nella Ddr a Ruge non viene in mente che una parola: “die Verlogenheit“, la menzogna, l’ipocrisia in una società asfittica e pseudo-comunista, dove la doppiezza è sparsa ovunque, non solo in politica. «Nei nostri libri di scuola», ricorda, «c’era una sistematica deformazione della storia, non solo della Ddr e dell’Urss».
In una società in cui la Stasi aveva, fra ufficiali e collaboratori, il triplo di spioni della Gestapo, non esisteva un grammo di fiducia negli altri. Per Eugen essere il figlio di un perseguitato fu un amaro “privilegio”: «la Stasi non mi ha mai contattato», dice Ruge, «a 14 anni mio padre mi disse: “se qualcuno della Stasi ti cerca digli di rivolgersi a tuo padre, lui sì che ne ha fatta di esperienza in Unione sovietica!”». Ironia della storia, il giovane Eugen, che nel 1988 fuggirà all’ovest, il servizio militare lo fece nei battaglioni che sorvegliavano il Muro. «Ero già a Krefeld, in Germania ovest, la sera del 9 novembre in cui le Tv davano la notizia che il Muro era caduto. Ma per me era inimmaginabile che il Muro cadesse, visto che era entrato nella mia vita dai primi giorni di scuola». A dar retta a Marx i tedeschi non sono buoni a fare le rivoluzioni: quelle le fanno i francesi; i tedeschi obbediscono a norme e imperativi categorici.
Ma il 9 novembre dell’89 fu non solo un evento inaudito e imprevedibile, ma “eine friedliche Revolution”, una rivoluzione pacifica in terra tedesca. Merito dei tedeschi? «La storia della Ddr», spiega Ruge, «non si può pensare senza l’Unione sovietica, anche il crollo del Muro è impensabile senza la fine dell’Urss. E fu un uomo del Kgb, Gorbaciov e la sua perestrojka ad avviare la rivoluzione in Germania». In effetti Honecker - “Principino Zanzara”, lo sfottevano all’Est - celebrò i 40 anni della Ddr come se il regime fosse eterno, e il Comunismo incrollabile. Ancora il 4 novembre dell’89 anche gli scrittori più celebri della Ddr - Christa Wolf, Stephan Heym o Christoph Hein - chiedevano alla gente sulla Alexander Platz di «immaginare una Germania senza Muro, e noi che costruiamo un socialismo diverso». «Al socialismo dal volto umano non ci credevo più», dice Ruge, «30 anni fa ero pieno di rancore contro le menzogne dell’ex Ddr. Forse, come consigliava Günter Grass, si sarebbe potuta creare una confederazione delle due Germanie, un processo di unificazione più lento, forse con meno danni per l’industria all’est».
Ma la Storia non si fa coi forse, la fece Helmut Kohl imponendo il cambio 1:1 tra i due marchi, e trasformandosi nel “Kanzler dell’Unità”. E oggi, a tre decenni da quel fatidico ’89, è unita la Germania o persistono differenze e rancori fra i cosiddetti Ossi, all’est, e i più ricchi Wessi all’ovest? «Mi sento molto legato alle mie radici russe, risponde Ruge, e da quelle sento meglio di tanti altri quelle tedesche. Non capisco il desiderio che gli Ossi diventino come i Wessi e i tedeschi siano tutti eguali». Sulle finissime spiagge di Rügen intanto i tedeschi, Ossi e Wessi, si accalcano come sardine, e negli hotel sull’isola è impossibile trovare una stanza libera. “Meno disoccupati questa estate”, titola l’“Ostsee Anzeiger”: a Rügen sono in 1842 senza lavoro, il 5 per cento come a livello nazionale. Miracoli del “made in Germany”, certo.
Eppure, per quanto assurdi e traumatici, quei 4 decenni della Ddr, non sono tutti da buttare, anzi. «All’ovest avete difficoltà a capire cosa l’89 ha rappresentato qui all’Est: all’improvviso i tedeschi hanno cambiato tutta la loro vita, non solo la situazione economica. Col tempo all’Est abbiamo sviluppato diffidenza per il potere, mentre all’ovest siete ancora attaccati ad ideologie e partiti». Non è un caso se negli ultimi 14 anni i tedeschi si sono ritrovati al potere Angela Merkel. Kanzlerin dell’Est, figlia di un teologo protestante, laureata in fisica, «che incarna», conclude Ruge, «l’estremo pragmatismo, la capacità di adattarsi al peggio, e al nuovo, dei tedeschi dell’Est».
Questo articolo è il sesto di una serie dedicata al trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino