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Mondo
agosto, 2019

Altro che El Chapo, il vero capo dei narcos è ancora in libertà. E si chiama El Mayo

Il più famoso dei criminali messicani è stato condannato a New York. Ma a regnare sui narcos oggi è qualcun altro. Un boss potentissimo e misterioso. Ecco chi è

Il processo a Joaquín Guzmán Loera a New York - a momenti rivelatore quanto una Commissione per la verità, a momenti improbabile come un talk show latinoamericano - ha reso noti alcuni aspetti sconosciuti del mondo del crimine.

Uno dei principali interrogativi che vi si è posto è se sia stato realmente il noto criminale soprannominato El Chapo (il nanetto) a muovere le fila del narcotraffico in tutti questi anni, o se il vero potere dietro al suo trono sia sempre stato il suo socio, Ismael Zambada García, un capo dal basso profilo, noto come El Mayo (Il Maggio), che ha dedicato mezzo secolo al traffico illegale della droga senza mai avere messo piede in prigione.

Perché quest’uomo di più di settant’anni nato nello stato del Sinaloa è stato indicato ripetutamente dalla difesa del Chapo come il vero “Capo de capi della mafia?”

Per iniziare a rispondere alla domanda, è necessario tornare indietro, alla fine degli anni ’70, quando nel Messico del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) vigeva ancora il monopolio del potere presidenziale. Anche nel vecchio mondo del narcotraffico ha dominato una sola organizzazione: il cartello di Sinaloa.

Fu Miguel Angel Félix Gallardo, El Jefe de jefes (Il capo di capi), il primo ad amministrare come un’azienda l’attività illegale originatasi negli anni ‘40 nel Nordovest del Messico.Tutto fu abbastanza facile per il primo capo del cartello di Sinaloa fino a quando l’omicidio di un agente della Dea (Drug Enforcement Administration, l’Agenzia Usa per la lotta alla droga, ndt), Enrique Camarena, detto Kiki, non si trasformò nello strumento di pressione del governo degli Stati Uniti per far ripartire con forza la crociata contro la droga e, già che c’era, contro il regime del partito unico che prevaleva in Messico. Sulla scia di quella pressione, nel 1989 fu arrestato anche Félix Gallardo. Con lui finì il modello di cartello con il quale era partita l’industria del traffico della droga in Messico.

Anche se non è chiaro se sia stato Félix Gallardo o lo stesso governo a creare il sistema dei cartelli che ancora prevale e si è moltiplicato in Messico, l’idea dietro a quella decisione fu che tutte le cellule criminali restassero organizzate e coordinate con le autorità. Come mi disse Félix Gallardo: «Noi narcos non eravamo contro il governo, eravamo parte del governo». Così, verso la fine degli anni ‘80, il traffico di droga funzionava come una sorta d’impresa parastatale gestita da famiglie originarie quasi tutte dal Sinaloa.

Negli anni ’90, però, mentre in Messico emergeva il neoliberismo e un’incipiente alternanza tra i partiti al governo, anche nel mondo del narcotraffico s’impose un nuovo spirito concorrenziale determinato dalle leggi del libero mercato e del massimo vantaggio, che rivelò la sua notevole attitudine ultra capitalistica. In quel contesto, la prima cellula di trafficanti che si separò per diventare un cartello a sé fu quella di Tijuana, sotto il controllo della famiglia Arellano Félix.

Tra le persone colpite da questa decisione ci fu El Mayo, che era già allora un proprietario terriero con vaste coltivazioni di marijuana e di eroina nel Sinaloa, ed El Chapo, che operava nella vicina città di Tecate ed era già famoso per aver scoperto l’opportunità del business sotterraneo inventando i tunnel al confine per far arrivare la droga negli Stati Uniti. Entrambi finirono per allearsi con la famiglia Carrillo Fuentes, che aveva mantenuto il controllo di Ciudad Juárez, l’altro importante attraversamento del confine messicano verso gli Usa.

Fu così che El Mayo ed El Chapo prima si allearono e poi costituirono con le rispettive famiglie una delle più famose organizzazioni criminali degli ultimi decenni anni nel mondo. Finirà dissezionata dal processo a New York degli ultimi anni, a conclusione del quale El Chapo sarà condannato all’ergastolo, mentre sorge il sospetto che egli sia stato tradito dal socio il quale, a quanto pare, ha sempre tirato le fila del potere da dietro il trono del cartello di Sinaloa.

La locomotiva del treno diretto verso l’Arizona aveva lasciato Sufragio, Sinaloa, e aveva superato Empalme, Sonora. Da lì a sette chilometri, era successo qualcosa alle valvole del vapore e il mostro aveva dovuto fermarsi. Nulla accade a caso nella vita, specialmente quando si tratta di treni. I poliziotti aspettavano. I vagoni del convoglio erano pieni di migranti e di marijuana proprietà del Mayo.

Empalme è un villaggio deserto a metà strada tra Sufragio ed Hermosillo. Lì la linea ferroviaria si biforca verso le città di confine Mexicali e Nogales. A volte chi spedisce comunica agli uomini dei cartelli le rotte e dove e quando i treni devono essere fermati per immagazzinare la marijuana che in seguito sarà portata di là del confine tra Messico e Stati Uniti.

Non è l’unico modo per passare il confine alla droga. Con oltre cinquant’anni di attività, El Mayo è riuscito a mettere in piedi un’infrastruttura ben diversificata per il trasporto della sua merce per via aerea, terrestre e persino sotterranea. Il modo più comune per aggirare la sicurezza delle dogane degli Stati Uniti è utilizzando veicoli commerciali che trasportano la droga nascosta in scompartimenti segreti o all’interno di prodotti legali come burro, lattine di chili o chili marchio La Comadre.

Un altro modo è quello con cui El Chapo ha sorpreso all’inizio i colleghi, diventato famoso poi con la sua seconda fuga da un carcere messicano di massima sicurezza: la costruzione di tunnel per attraversare sotto terra il muro che divide il Messico dal lato statunitense. L’opera comincia quasi sempre nel lato messicano, di solito in case o casupole dall’aspetto normale, anche se talvolta si utilizzano luoghi più stravaganti, come nel caso della cappella di un cimitero vicino al confine che nascondeva l’accesso a un tunnel per la droga che sbucava negli Usa.

Marijuana, metanfetamine ed eroina, le droghe che l’organizzazione produce negli stati di Sinaloa, Durango e Chihuahua - la regione nota come Triángulo Dorado (Triangolo d’oro) - viaggiano di solito via terra. La cocaina importata dalla Colombia, invece, richiede una logistica speciale che le faccia attraversare l’America Centrale, raggiungere il confine meridionale del Messico e poi, via aria o via terra, percorrere tutto il Messico fino al Sinaloa o Sonora, dove è immagazzinata in attesa del momento opportuno per farla entrare negli Stati Uniti passando da Sonoyta, Agua Prieta, Nogales, San Luis Río Colorado o il deserto di Altar, dove i migranti sono usati come facchini (li chiamano “muli”) e costretti a portare ciascuno sacchi che arrivano a 20 kg di marijuana.

Già in Arizona, la merce è immagazzinata in case speciali a Tucson o a Phoenix, proprietà di cittadini americani che all’apparenza conducono una vita normale. Poi la si trasferisce a Chicago o a New York, le principali destinazioni della merce dell’organizzazione, con qualche occasionale spedizione a Los Angeles, un mercato controllato dalla famiglia Arellano Félix, che conta storicamente con contatti in tutte le forze della polizia locale della California.

Quando arriva alla destinazione finale negli Usa, la droga è tenuta in magazzini speciali, dove per nasconderla si utilizzano auto con scompartimenti segreti. Queste auto poi sono lasciate nei parcheggi dei centri commerciali con le chiavi nascoste, in modo che gli acquirenti piacevano e ritirino la droga. Qualche volta le auto sono restituite il giorno successivo con i dollari del pagamento nello stesso scompartimento dove stava la droga, facendo ripartire, ora alla volta del Messico e trasportando denaro contante invece che droga, la stessa logistica del trasporto di andata.

Nel processo a New York, il figlio maggiore del Mayo, Vicente Zambada Niebla, El Vicentillo, ha spiegato che un investimento di 9 milioni di dollari per il trasporto di 15 tonnellate di cocaina dalla Colombia agli Stati Uniti può generare un utile netto di 39 milioni di dollari se consegnato a Los Angeles, 48 a Chicago e 78 a New York.

Una logistica meno complessa è quella utilizzata dall’organizzazione per l’acquisto di armi e munizioni quasi sempre nell’Arizona o nel Texas, dove i controlli sono meno rigidi che altrove. Sebbene il cartello abbia nel tempo acquisito armi anche da reparti corrotti delle forze armate del Messico, El Salvador, Ecuador e Colombia, l’industria degli armamenti statunitense resta il principale fornitore del suo arsenale.

Persino lo stesso governo Usa ha rifornito qualche volta di armi i narcotrafficanti messicani, com’è successo nel 2014 durante la fallita operazione sotto copertura Fast and Furious condotta dal Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives (Atf). Allo scopo di tracciarne i movimenti, gli agenti cedettero ai cartelli duemila unità tra pistole calibro 5.7 e 9 millimetri e fucili AK–47, AR–15 e Barret. 50. Le armi sono state poi utilizzate per commettere una serie di atrocità in Messico.

Il 1994 fu per il Messico l’anno dell’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio Nafta, della rivolta dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln) nel Chiapas, dell’omicidio di un candidato presidenziale e leader nazionale del Pri e della peggiore crisi economica della sua storia. Come se ciò non bastasse, il vulcano Popocatépetl, le cui pendici sfiorano la capitale, si era riattivato. Fu anche l’anno in cui El Mayo rischiò di morire.

Molto vicino a dove si trovava, nell’hotel Camino Real Hotel a Guadalajara saltò in aria un’autobomba. L’ordigno era stato piazzato da emissari della famiglia Arellano Félix, che in precedenza avevano fatto esplodere altre due auto piene di esplosivo a Culiacán. La disputa tra la famiglia Arellano Félix e il cartello di Sinaloa fu la prima guerra tra narcos in Messico di scala nazionale. Due anni prima dell’autobomba di Guadalajara, El Chapo ed El Mayo avevano mandato un comando alla discoteca Christine a Puerto Vallarta con l’ordine di uccidere Benjamín Arellano Félix, il capo del cartello di Tijuana. L’attacco era fallito, non senza concludersi in un massacro.

In risposta, l’anno successivo, El Chapo doveva essere ucciso all’aeroporto di Guadalajara, ma gli uomini della famiglia Arellano Félix scambiarono per El Chapo un importante gerarca cattolico, il Cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo, che fu ucciso mentre El Chapo, che si trovava in un’altra auto, risultò incolume.

La morte del Cardinale scatenò una crisi politica e persino una diplomatica tra il governo messicano e il Vaticano, il che a sua volta dette il via a una caccia contro El Chapo, che era intanto fuggito in Guatemala, dove poi fu arrestato e consegnato alle autorità messicane, che finsero di averlo messo in prigione e continuarono a gestire la crisi politica con la Santa Sede.

La guerra tra la famiglia Arellano Félix contro El Chapo ed El Mayo si era calmata un po’ quando, non molto tempo dopo, cominciò un’altra contro la famiglia Carrillo Fuentes, sua alleata negli anni ’90. Quasi contemporaneamente, El Mayo ed El Chapo stavano combattendo una terza guerra, questa volta contro la famiglia Beltrán Leyva che aveva lavorato con loro sin dagli anni ‘80. Verso la fine del 2008, mentre in una villa nei dintorni di Città del Messico si svolgeva una festa, decine di agenti della polizia federale fecero irruzione per arrestare Harold Poveda, El Conejo, il principale intermediario della famiglia Beltrán Leyva per l’acquisto di cocaina in Colombia.

Gli agenti dell’operazione non riuscirono a catturare il trafficante di droga colombiano, ma decisero che comunque potevano godersi anche loro la piscina, il cinema, le vasche idromassaggio e il grande giardino della villa. Oltre a rubare denaro, gioielli e persino animali domestici, torturarono alcuni dei partecipanti e stuprarono varie delle donne presenti.

L’informazione e la decisione di fare ufficialmente irruzione non erano partite da uffici governativi, ma dal quartier generale del Mayo e del Chapo che avevano aumentato i pagamenti ai corpi federali per vincere la guerra contro i Beltrán Leyva, che nel frattempo si erano spostati dal Sinaloa per operare da Città del Messico e dal vicino stato di Morelos. Jesús, fratello del Mayo, soprannominato El Rey, era l’incaricato del coordinamento delle azioni con un budget mensile di 200.000 mila dollari solo per bustarelle alle autorità. Sorprendentemente, tuttavia, una settimana dopo l’operazione nella villa del Conejo, El Rey sarebbe stato arrestato da agenti della Pgr che invece che nel loro libro paga, erano in quello dei Beltrán Leyva.

Il processo a New York provò che il cartello di Sinaloa aveva un accordo con l’allora Segretario per la pubblica sicurezza, Genaro García Luna (un dato che aveva già reso noto in precedenza la giornalista Anabel Hernandez e che il funzionario nega tuttora), ma non sono stati istigati ancora gli accordi che la famiglia Beltrán Leyva aveva con certi personaggi degli alti comandi della Pgr - un altro corpo che combatte il narcotraffico in Messico. Ne risultava che ogni cartello aveva una parte del governo al proprio servizio.

Nel processo di New York sono venute fuori altre rivelazioni della narco-politica o della fantapolitica, se si preferisce. Fino ad allora non si sapeva, per esempio, delle presunte riunioni tra il figlio del Mayo e alti comandi dell’Esercito, a cominciare dal generale Roberto Miranda, capo dello Stato maggiore presidenziale durante il governo di Ernesto Zedillo (Pri), e dal generale Marco Antonio de León Adams, un ex membro della guardia del presidente Vicente Fox (Pan, Partito d’azione nazionale), per arrivare a una presunta visita a Sinaloa da parte del generale Humberto Miranda Antimo per incontrare El Mayo, proprio all’inizio del governo di Felipe Calderón (Pan).

Tra gli altri dati delicati emersi al processo ci sono le donazioni alla campagna elettorale presidenziale di Enrique Peña Nieto (Pri) da parte del cartello di Sinaloa tramite lo stratega elettorale venezuelano J. J. Rendón. In vari modi, tutti gli alti funzionari dei governi precedenti i cui nomi sono venuti fuori dell’uno o nell’altro contesto hanno respinto ogni accusa. Finora, il governo guidato da Andrés Manuel López Obrador (Morena, Movimento per la rigenerazione nazionale), non ha avviato alcuna indagine specifica sulle accuse di legami tra le alte sfere del potere criminale e quelle del potere politico, come emerso nel processo a New York.

Le guerre tra i cartelli hanno fatto perdere i figli a migliaia di padri e madri negli ultimi anni. La nebulosa violenza chiamata ufficialmente dall’ex presidente Felipe Calderón Guerra del narco, ha portato in un decennio a più di 200.000 persone uccise, 35.000 dispersi e altri 35.000 sfollati forzatamente, col che in questo primo quarto del secolo XXI, la democrazia in Messico ha registrato più dolore e distruzione di qualsiasi tipica dittatura latinoamericana del secolo scorso.

El Mayo non ne è uscito illeso. Almeno venti dei suoi familiari più stretti sono stati assassinati, arrestati, rapiti. L’elenco inizia con l’unico figlio maschio dei cinque figli che ha avuto con la prima moglie Rosario Niebla: Vicentillo, arrestato ed estradato negli Stati Uniti come anche Ismael Zambada Imperial, detto Mayito Gordo, il figlio avuto da Margarita Imperial. La stessa sorte toccata non tanto tempo fa a Serafín Zambada Ortiz, il figlio avuto da Leticia Ortiz, rilasciato alla fine del 2018.

I suoi altri figli, tra cui Ismael Zambada Sicairos, soprannominato Mayito Flaco, sono stati colpiti anche da ordini di arresto, mentre le figlie María Teresa, Miriam, Mónica e Modesta Zambada Niebla, sono tutte nei radar di varie agenzie statunitensi.

Oltre al rapimento di Agueda, e l’uccisione di un altro fratello del Mayo, Vicente, anche, Jesús, figlio del Rey, è in carcere negli Stati Uniti. I nipoti Vicente e Jesús, figli del Rey, sono anche loro morti, il primo assassinato e il secondo suicidatosi dopo essere stato arrestato ed essere diventato testimone protetto del governo. Anche un altro nipote, Édgar, figlio di María Teresa, è morto assassinato.

Forse le disgrazie personali che più hanno colpito El Mayo sono l’arresto del figlio Vicentillo e quello del fratello El Rey. Furioso, durante una riunione con El Chapo nelle montagne di Durango, il capo avrebbe preso in considerazione la possibilità di ingaggiare un soldato statunitense per attaccare una qualche istituzione Usa, rinunciandoci alla fine.

Quello che sì è stato pianificato a un certo punto, secondo la testimonianza dello stesso Vicentillo nel processo a New York, è l’assassinio dello zar antidroga José Luis Santiago Vasconcelos per mano di un gruppo di militari messicani, come rappresaglia per l’arresto a Guadalajara del figlio del Chapo, Iván Archibaldo, che il governo stava per estradare negli Stati Uniti. Dopo il rilascio di Iván su richiesta di un giudice, il piano per uccidere Vasconcelos è stato cancellato. Resta il fatto che qualche mese più tardi, Vasconcelos è morto in un incredibile incidente aereo: lo schianto dell’aereo governativo che lo trasportava assieme al Segretario degli Interni, Camilo Mouriño, sul trafficato anello periferico di Città del Messico.

I giornalisti più impegnati a informare su questo conflitto, i miei amici Martin Duran, Cynthia Valdez e Javier Valdez, sono minacciati proprio per il loro lavoro. Quanto a Javier, alla fine il lavoro di giornalista gli è costato la vita: è stato ucciso un giorno a mezzogiorno, il mezzogiorno più triste della storia di Sinaloa.

Nei tribunali di Chicago, prima del processo a New York al Chapo, era stato avviato il processo contro Vicentillo, che aveva promesso di rivelare altre informazioni sul così poco noto mondo del narcotraffico negli Stati Uniti. Uno dei motivi è che ci sono più giornalisti statunitensi che scrivono dell’argomento dal Messico che nel proprio paese.

Dopo essere stato estradato negli Stati Uniti, attraverso gli avvocati, il figlio del Mayo ha accennato alla possibilità di rivelare con documenti ufficiali che il cartello di Sinaloa aveva agito in collaborazione con la Dea, l’Fbi e l’Ice (l’agenzia per il Controllo dell’immigrazione e delle dogane). In particolare, in una delle sue memorie aveva menzionato il direttore regionale della Dea per il Sud America, quello per il Messico e una serie di agenti assegnati all’Ambasciata degli Stati Uniti a Città del Messico e ai consolati di Hermosillo e Monterrey.

Secondo i documenti del processo resi pubblici, l’intermediario di quegli accordi era un avvocato di nome Humberto Loya Castro, che avrebbe gestito il presunto accordo tra il cartello di Sinaloa e il governo degli Stati Uniti tra il 2004 e l’arresto del Vicentillo. L’accordo avrebbe previsto che in cambio di un non intervento da parte delle forze dell’ordine statunitensi nelle operazioni del cartello di Sinaloa e del fatto che El Mayo ed El Chapo non sarebbero stati arrestati, l’organizzazione criminale avrebbe fornito a Washington informazioni sulle altre organizzazioni coinvolte nel traffico di droga.

Il processo al Vicentillo che avrebbe dovuto rivelare queste accuse ha continuato a essere rinviato per quattro anni, parallelamente al negoziato che si è concluso con un accordo di cooperazione tra accusa e il figlio del Mayo. Secondo l’accordo, quest’ultimo si sarebbe dichiarato colpevole di accuse di minor peso e avrebbe accettato di collaborare come testimone in altri processi come quello al Chapo in cambio di una riduzione della pena e di protezione alla moglie e ai figli da parte del governo americano.

È così che, durante il processo a New York, quando il Vicentillo ha preso la parola per testimoniare contro il padre ed El Chapo (che tuttavia ha indicato come compare), l’avvocato, come ha fatto durante tutto il processo, ha ripetuto che gli sembrava sorprendente che El Mayo fosse ancora libero e che se lo spiegava con il fatto che il capo aveva corrotto tutto il governo messicano e che il figlio aveva un accordo speciale con gli Stati Uniti.

«Che cosa fa tuo padre?», ha chiesto l’avvocato a Vicentillo a un certo punto. Il primogenito della famiglia Zambada non ci ha pensato molto prima di rispondere. «Mio padre è il capo del cartello di Sinaloa».

Traduzione di Marina Parada

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