
Cosa sta gridando l’uomo in acqua aggrappato al soccorritore e attraverso lui aggrappato alla vita?
Quale il pensiero del ragazzo, di spalle, mentre vede all’orizzonte - finalmente - una nave di soccorso?
I 19 giorni in mare dei naufraghi, uomini donne e minori, a bordo della Open Arms ci consegnano ammonizioni e domande.
La più importante: quanti di noi possono dirsi ancora capaci di tendere la mano a chi ha bisogno?
Di riconoscere nella mano dell’Altro che ci chiede aiuto, un simile. Di più, un pari.

Per i latini la radice Hos genera il nemico e genera l’accogliente, genera l’hostis e genera l’hospes.
I corpi, i volti degli uomini della Open Arms impongono di chiederci se possiamo dirci ancora capaci di Ospitalità, del crocevia di cammini - per dirla con Edmond Jabès - che riconosce il valore di chi è accolto e, attraverso l’ospitalità, conferisce valore a chi accoglie.
Raccontano la paura dell’hospes che può rivelarsi hostes, cioè dell’ospite che può divenire nemico o, peggio, capro espiatorio quando i sentimenti della cura e dell’ospitalità vengono negati.
Perché è dalla nostra capacità di fare spazio all’Altro, qualunque Altro che inaspettatamente bussi alla nostra porta, che dipende la qualità del nostro cammino nel mondo. E con esso, il nostro grado di civiltà.
La medesima radice può generare rifiuto o comunità, sta a noi decidere, sempre, da che parte stare. Decidere cioè se Hos diventi ospite, o se invece diventi ostile.
E noi con lui. Perché, di nuovo, tornando a Jabès «lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero».
Ciascuno di noi è straniero di un altro.
Chiudere le porte e non vedere è rassicurante, perché la somiglianza lo è.
L’estraneità confonde, perché è più faticosa.
Implica una domanda che ci impone di scavare dentro di noi: in cosa questo straniero che bussa alla mia porta, mi è simile? In cosa mi abita?
Nel II secolo dopo Cristo, Sesto Pompeo Festo descrive l’hostis come colui cui erano riconosciuti gli stessi diritti del popolo romano («quod erant pari iure cum populo Romano») e per spiegarlo sostiene che il verbo “hostire” aveva pari significato di “aequare”.
La lingua che disegna la civiltà, la lingua da cui veniamo, ci insegna che l’ospite è legato all’uguaglianza e alla reciprocità, lo straniero non era uno nemico da cui difendersi, ma una persona cui si riconoscono diritti che sono i nostri, pari iure.
Ecco perché è necessario ricominciare a parlare di disuguaglianza, e uscire prima possibile dalla grammatica della vittima. Che è rassicurante e prolunga l’equivoco di un Occidente benefattore (a singhiozzo) di fronte a un mare che consegna vittime (o invasori).

Lo straniero ci consegna domande ostiche: la vita di Te che mi tendi la mano ha lo stesso valore della mia?
Lo straniero - non il migrante, il rifugiato, il richiedente asilo, il minore non accompagnato - lo straniero - non le griglie semantiche, le categorie burocratiche in cui vogliamo spingere le persone per semplificare le implicazioni sociali delle loro biografie - lo straniero, semplicemente colui che è diverso da noi, perché proviene da un altro paese, ha una storia diversa dalla nostra, è banalmente nato altrove, ci affida con la sua presenza, con la sua richiesta di ospitalità, la responsabilità delle “politiche della vita” che affrontino gli effetti delle disparità di trattamento e le configurazioni sociali che incorporano tali disuguaglianze.
Mentre la politica nazionalista e sovranista, la politica dei confini, impugna rosari appellandosi al cuore immacolato di Maria, la politica progressista, moderna, dovrebbe essere capace di leggere il mondo nella sua complessità e di relazionarsi a tale complessità non con soluzioni reazionarie e retrive, ma incoraggiando la pluralità.
Perché le vite sono plurali.
In un mondo in cui la politica dei rosari e dei crocifissi difende il valore della vita biologica, ma non quello della vita biografica, afferma cioè il diritto alla vita ma non difende il diritto alle vite, smascherando la contraddizione tra l’affermare tale diritto e delegando (a pagamento) i diritti altrui a regimi autoritari come la Turchia, o a poteri tribali (come in Libia), la sinistra dovrebbe riaffermare con forza il tema della disuguaglianza. Ripartire da lì, per dirla con Didier Fassin, antropologo francese, autore de “Le vite ineguali”: «La vita dei “senza” - che siano persone senza permesso di soggiorno, senza domicilio, senza cittadinanza, senza una terra, senza diritti - la possiamo comprendere solamente in relazione alla vita dei “con”, per così dire, ovvero coloro che beneficiano di queste cose generalmente date per scontate, in una relazione mediata dall’insieme delle istituzioni che contribuiscono a legittimare e mantenere tali disuguaglianze. (...) Considerare la vita nella prospettiva della disuguaglianza (...) permette di passare dall’espressione di compassione al riconoscimento dell’ingiustizia».
Per difendersi e contrastare il sovranismo, le paure irrazionali e le espressioni razziste di queste paure, la politica oggi deve saper rinnovare il proprio linguaggio, uscendo dal vicolo cieco della vittimizzazione del migrante, e dimostrare – attraverso l’affermazione di una nuova politica, non figlia della monetizzazione delle esistenze – che si possa costruire una società più lucida, consapevole dei divari, e pronta a nuove modalità di intervento per superarli.
Cominciando dalla parole, che costruiscono il nostro modo di stare nel mondo.
Ospite, dunque, non nemico.
E con nuova idea di ospitalità, che non significa carità.
Me lo ricordò un uomo, un padre di famiglia, in Libia.
Il vero altruismo non è dare agli Altri ciò che mi avanza, ma dividere con lui ciò di cui ho bisogno.