Critica il regime. Sostiene i diritti Lgbt. Mette in guardia dal ritorno del totalitarismo. Parla Masha Gessen, una delle attiviste più coraggiose del nostro tempo

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Il suo ultimo libro si intitola “Il futuro è storia”. I quattro protagonisti sono nati nei primi anni Ottanta, la maggior parte nel simbolico 1984. Perché ha scelto questa generazione?
«Tutti e quattro hanno votato per la prima volta nelle prime elezioni vinte da Putin. E tutte le successive sono state elezioni di Putin. Per questa generazione le proteste degli anni 2012-13 non avevano precedenti: un’esperienza del tutto nuova, era un tempo di grande speranza. E il loro soffocamento ha mutato la loro vita. Inoltre, volevo capire come era essere bambini negli anni Novanta. Di solito, le dispute intorno a quel decennio si fanno in Russia tra coloro per i quali fu il periodo di nuove, eccitanti opportunità, e coloro che non sono riusciti a ritrovarsi nella nuova realtà. Ai bambini tutto ciò non importava: per loro fu tempo di destabilizzazione. Quando i genitori non sanno cosa sta succedendo, per il bambini è terrificante».

Lei è emigrata da adolescente, nel 1981, ed è tornata a Mosca dieci anni dopo. Come era la Russia negli anni Novanta?
«Un periodo incredibile. Mi è difficile prendere atto del fatto che la maggior parte dei russi avesse subito una perdita enorme. La gente - perfino mio fratello - argomenta: «Ma persero i risparmi di tutta la vita! Non avevano più soldi!». Eppure i russi ci guadagnarono, materialmente. Tutti, letteralmente, verso la fine degli anni Novanta, si comprarono un televisore e una lavatrice. E il possesso della lavatrice voleva dire una qualità di vita nuova».

Ma i lavoratori statali non erano pagati.
«Certo, ma non è questione di risparmi o di pensione. È la perdita del proprio posto nel mondo che costituisce un’esperienza distruttiva, traumatica. Risarcire la perdita dell’identità è impossibile. Per la minoranza che, come me, aveva una vita comoda o un’educazione occidentale, per i giovani e per quelli che alla stabilità preferiscono le nuove opportunità, fu un tempo magnifico. Ma la maggioranza pone la stabilità sopra ogni altra cosa».

E la perdita dell’impero?
«Anche, per quanto mi sia difficile simpatizzare con chi coltiva nostalgie imperiali. Nella fase tarda dell’Urss le persone sapevano chi erano, il loro futuro era chiaro: se appartengo all’intellighenzia farò l’università, andrò a lavorare e magari avrò un appartamento di tre stanze, una piccola dacia e la macchina Lada. Nella storia sovietica questo fu un periodo borghese, spesso lo si dimentica. La stabilizzazione era tangibile. Ed ecco che all’improvviso il sistema cadde e la gente non sapeva più dov’era il suo posto e quali attributi avesse. Dovrei forse avere una villa come nella serie “Dynasty”? Una limousine? E se no, perché gli altri le hanno? Questo disorientava».

Putin si agganciò a questo desiderio di stabilità. Ma il suo stile di governo non è forse il caos?
«Già Hannah Arendt faceva notare come il totalitarismo usi la carota della stabilità e allo stesso tempo con un bastone del terrore destabilizzi permanentemente la tua vita. E quanto più efficacemente lo fa, tanto più tu desideri la stabilità».

Parlare di totalitarismo, sin dal titolo del libro, non è un’esagerazione? Quello del Novecento includeva campi di concentramento e terrore.
«Dopo 70 anni di totalitarismo, la Russia ha creato un ibrido. Il regime non è totalitario, è piuttosto uno Stato mafioso, però costruito sulle rovine della società totalitaria. E quando la mafia al potere, dopo le proteste 2011 e 2012, ha cominciato ad aumentare la pressione sui cittadini, la reazione è stata la ricostituzione della società totalitaria».

Si sono rimessi in moto i vecchi schemi?
«La responsabilità collettiva, l’atomizzazione e un livello di paura stabile, per quanto non proprio alto. Prima del 2012 la società era autoritaria. L’autoritarismo non chiede ai cittadini di mobilitarsi: nulla è politico, tutti se ne stanno a casa e si occupano dei fatti privati, mentre il governante fa ciò che vuole. Una società totalitaria è l’esatto contrario: i cittadini devono partecipare alla vita pubblica, tutto è politico, nulla è privato. Questo cambiamento è avvenuto dopo il 2012, in particolare dopo l’annessione della Crimea».
Vladimir Putin

Il concetto chiave nel libro “Il futuro è storia” è l’Homo Sovieticus. Da noi in Polonia questo termine è stato impiegato dai pubblicisti orientati al mercato per spiegare perché tanti polacchi continuino a contare sul sostegno dello Stato invece di costituire un’impresa propria.
«La definizione che uso io non è così accondiscendente. Si basa sul presupposto che la sopravvivenza in una società totalitaria esige certi adattamenti. Il suo tratto caratteristico è il bipensiero, ovvero il conformismo quando il momento lo richiede, la frammentazione della personalità e lo sviluppo dentro di sé di una attenzione vigile ai segnali del potere».

Il protagonista Serjozha si scontra con l’homo sovieticus in versione postsovietica.
«Vuole arrivare dall’aeroporto a Mosca con la metropolitana ma non ha il biglietto, quindi per comprarlo deve mettersi in fila che è lunga. Arriva allo sportello dopo un’ora e compra 60 corse tutte insieme perché ritiene che non abbia senso che anche le persone stanche, in fila dietro di lui, debbano aspettare tutto questo tempo. Si mette ai tornelli: passate, ci penso io alla convalida. Tutto è assolutamente legale, ha pagato per i biglietti, può usarli liberamente, eppure viene subito fermato. Non sa perché, e anche il poliziotto non è in grado di spiegarglielo. Per il funzionario è ovvio: queste cose semplicemente non si fanno, come anche per Serjozha è ovvio che invece bisogna fare proprio queste cose, che si tratta di un normale impulso umano e non di una frode al sistema. Alla fine il poliziotto dice: «Chi ti credi di essere, dio?». Che in sostanza significa: come ti permetti di occuparti tu di queste cose? Come osi organizzarti? È a questo punto che Serjozha si rende conto: oh no, noi non ci capiremo mai».

L’homo sovieticus non concepisce un’iniziativa individuale? Che qualcuno possa spingersi oltre lo schema?
«Per l’homo sovieticus è evidente che esistano regole non scritte e che tutto ciò che non è espressamente permesso, è vietato. Per Serjozha è vero il contrario: ciò che non è espressamente vietato, è permesso. L’homo sovieticus è spaventato anche da qualsiasi iniziativa dal basso e da qualsiasi organizzazione spontanea. Lo scopo del totalitarismo è infatti l’eliminazione di ogni possibilità di un’azione comune non legittimata dal potere. Ne scrive Hannah Arendt: le persone sono sì contenute in un solo organismo di proporzioni gigantesche, ma sono allo stesso tempo sole. Così funziona il totalitarismo: sei nel gruppo, ma non puoi interagire con gli altri. La minaccia più grande per il totalitarismo è quando persone reciprocamente estranee creano spontaneamente una polis. La polis è un insieme di persone molto diverse fra loro che si sono trovate nello stesso luogo nello stesso tempo e fanno insieme qualcosa. Quando Serjozha crea per un attimo questa sorta di polis, tutto dentro il poliziotto si ribella».

L’Istituto Lewady ha studiato l’homo sovieticus per anni. Verso la fine degli anni ’80 giunse alla conclusione che questo tipo d’uomo si stava estinguendo e le prossime generazioni se ne sarebbero liberate del tutto. Già nel 1994 si scoprì tuttavia che il tipo stava tornando e ad ogni studio successivo risultava inserito meglio.
«Perché il regime sovietico un risultato lo ha raggiunto: è riuscito a creare un suddito totalitario. L’ipotesi del Lewady, poi verificata, fu un errore da economista. Gli economisti pensano sempre che le persone sono razionali e agiranno sempre in modo da sfruttare al meglio le condizioni trovate, come se non avessero dietro alcuna storia. Sullo stesso presupposto si era basato l’Istituto Lewady: nei tempi del terrore la gente farà certi adattamenti per sopravvivere, ma quando il terrore finirà il loro comportamento cambierà in modo naturale. Solo che la gente non sempre si adatta razionalmente. Talvolta continua a comportarsi come prima e trasmette questi modelli alle generazioni successive. Come accade a una donna che vive una relazione violenta: di solito la sua relazione successiva sarà simile, e soltanto la terapia potrà darle la capacità di rompere gli schemi imparati».

Il ritorno dell’homo sovieticus è stato inevitabile? Se la Russia avesse trovato un buon marito la prima volta, oggi si troverebbe in una situazione diversa?
«Può darsi, se per esempio Eltsin fosse stato più consapevole dell’importanza della narrazione (ma gli avevano insegnato che le condizioni materiali sono le più importanti). Il primo governo postsovietico, inconsciamente – giacché altre filosofie non c’erano – si era basato su questa premessa marxista. Se all’epoca le autorità si fossero concentrate sullo sviluppo di una narrazione critica sull’Urss, se avessero tentato di misurarsi con il terrore e di creare un’identità della Russia basata non sull’idea della sua grandezza ma della sua bontà, la storia sarebbe andata diversamente».

Magari la bontà si vende peggio.
«Molti Stati che in passato furono imperi ce l’hanno fatta. Prendiamo i Paesi scandinavi: hanno sostituito l’imperativo della grandezza con la bontà e questa narrazione gli ha giovato. Però sia chiaro, vedo molte difficoltà su questa strada: da dove potrebbe venire un governo siffatto».

L’homo sovieticus avrebbe dovuto superare se stesso con le proprie forze?
«Ecco, appunto».

Lei scrive che il trauma russo si è rivelato così persistente perché non si sono fatti i conti con il passato.
«E non si faranno, perché come potrebbe la Russia fare questi conti? I tedeschi sono riusciti a farli con il passato nazista, ma per loro è stato più facile. Il regime era durato solo 13 anni, quindi la maggior parte degli adulti ricordava ancora i tempi precedenti. E poi hanno potuto operare la suddivisione in artefici, vittime e spettatori passivi: lo scopo di ogni totalitarismo è la loro eliminazione, solo che quello tedesco non ne ebbe il tempo. Da noi gli artefici e le vittime furono le stesse persone, per quanto in proporzioni diverse. Come la bisnonna di una delle mie protagoniste, che denunciò il marito perché aveva deviato dall’ortodossia del partito, diventando così vittima e artefice. Infine, nell’Urss il terrore era diretto verso l’interno. Nella Germania nazista suo oggetto era altro: l’ebreo, lo zingaro, l’omosessuale, lo slavo. Un tedesco poteva dire: «Siamo stati orribili perché abbiamo fatto questo agli altri». Non è cosa facile, ma è molto più difficile ammettere: lo abbiamo fatto a noi stessi, per giunta senza motivo».

Senza motivo?
«Il terrore è casuale, è questa la sua essenza, ma appena cominciamo a parlarne tentiamo di attribuirgli un senso. Svetlana Aleksijevich chiedeva: «Chi ha scritto 5 milioni di denunce?». Ma non ci furono 5 milioni di denunce. Bastava che ogni distretto ricevesse da Mosca una norma da produrre: dovete arrestare tot traditori e tot spie. E venivano prese persone a caso. Le persone hanno aggiunto mitologia al terrore: si doveva pur motivare un arresto. Di sicuro è stato il vicino a denunciarmi. O il mio capo. L’arrestato deve aver fatto qualcosa, non può essere che lo abbiano condannato per caso. Per questo, quando cominciamo a raccontare questa storia attraverso una relazione causa-effetto, facciamo una grande ingiustizia alla memoria delle vittime. Ma come si può ricordare senza trovare un senso? Ecco perché è tanto difficile».

Visto che parliamo del terrore verso l’Altro: perché nella Russia di Putin sono diventate capro espiatorio le persone Lgbt?
«Perché non solo avevano tutti i tratti caratteristici di ebrei o musulmani, simbolizzavano anche l’Occidente. Un capro espiatorio ideale. Se desideri eliminare tutto ciò che dopo la dissoluzione dell’Urss è venuto dall’Occidente, devi liberarti di gay e lesbiche. Perché ovviamente prima del 1991 non esistevano».

Come il sesso nell’Urss?
«Girava una barzelletta su questo, ma è in effetti la verità. Nell’Urss c’erano persone che facevano sesso con persone dello stesso sesso, ma non dicevano di appartenere a un gruppo, non avevano un’identità distinta né chiedevano diritti. Questa novità è comparsa ormai in Russia. E se vuoi confrontarti con qualcosa di terribilmente scomodo per te, e vuoi tornare ai tempi precedenti al 1991, il bersaglio a cui punti sono le persone Lgbt. Specie perché la maggioranza dei russi ritiene di non aver mai incontrato gay o lesbiche».
Donald Trump

Come in Polonia: quasi non abbiamo i musulmani, ma c’è animosità e paura dell’Islam. In Russia la campagna omofoba ha prodotto una tragedia: dei ragazzi hanno ammazzato un amico perché gay.
«È stato un invito alla violenza, per quanto non penso che l’idea del Cremlino fosse «uccidi tutti i gay in un modo orribile». Gli assassini sono stati condannati. Il ricorso alla violenza politica è tipico di un regime. Il totalitarismo aveva le milizie, il post-totalitarismo manda segnali. Si vede in molti Paesi. Rodrigo Duterte nelle Filippine chiama alla violenza apertamente. Trump non direttamente, ma negli stati dove si svolgono i suoi comizi cresce il numero dei crimini d’odio. Perché mai il presidente degli USA incita alla violenza? In parte perché lui stesso è brutale, ma anche perché è più facile tenere sotto controllo una società in una situazione di violenza permanente».

Lei aveva la cittadinanza americana, che le dava una certa sicurezza. Ma la propaganda anti-Lgbt ha toccato anche lei?
«In modo diretto. Io avevo il passaporto americano, ma la mia partner era cittadina russa, come il nostro bambino più piccolo. E il mio figlio maggiore è adottato. Il giornale “Komsomolskaja Pravda” ha scritto che gli americani vogliono adottare gli orfani russi e farli crescere in famiglie depravate, come Masha Gessen. E poi, appositamente per me, nel giugno 2013 è stata emanata una legge che vieta l’adozione dei bambini alle coppie dello stesso sesso e ai single dei Paesi in cui i matrimoni omosessuali sono legali. La senatrice Elena Mizulina ha annunciato che alle coppie di persone dello stesso sesso verranno tolti i figli biologici. Ho tre bambini, siamo dovuti partire».

Questa legge si chiama ufficiosamente “legge Gessen”?
«Sì, ufficiosamente sì».

Timothy Snyder scrive in “La paura e la ragione” che secondo la propaganda russa l’Occidente è debole, effeminato e depravato e allo stesso tempo forte e minaccioso. Come funziona?
«È propaganda standard. Ogni minoranza demonizzata viene presentata così. Da una parte i gay in Russia sono ritenuti quasi animali, e dall’altra sono considerati individui dotati di un’enorme forza pericolosa. Un mostro è, insieme, meno di un uomo e un superuomo. Gli americani percepivano allo stesso modo i musulmani: primitivi, inferiori dal punto di vista della civilizzazione, e allo stesso tempo abbastanza forti da bucare un edificio con l’aereo».

Per Snyder Putin sarebbe l’onnipotente padrone di marionette i cui fili tira non solo in Russia. Lei non è fan di questa teoria.
«Deriva dal medesimo bisogno di attribuire ai terroristi una capacità d’azione eccessiva. Preferiamo che Al-Qaeda sia una struttura possente perché il pensiero che si tratta di pochi sfigati in tuta da ginnastica è molto più spaventoso. Lo stesso vale per Putin. Questo cosiddetto “attacco alla democrazia” è solo un’accozzaglia di imbroglioni non organizzati e non troppo competenti che hanno riportato un successo spettacolare perché hanno saputo moltiplicare la loro influenza grazie alla mancanza di competenze della parte opposta. Ma è molto più piacevole pensare che si è trattato di una strategia minuziosamente pianificata e di una campagna organizzata alla perfezione, piuttosto che siamo stati noi stessi a cacciarci in questo guaio».

Ha chiamato Putin “stupido”. Ma come ha fatto questo tizio non troppo carismatico, non eccezionalmente intelligente a diventare autocrate sovrano della Russia?
«È divertente che la mia biografia di Putin sia stata accolta bene, ma che in ogni recensione si riscontri la stessa osservazione: Gessen scrive che lui è stupido, ma gli stupidi non diventano così potenti. Che dire, gli americani sanno ormai che anche l’uomo più potente del mondo può avere problemi con l’ortografia, può non saper assimilare un testo senza illustrazioni o concentrarsi su qualcosa per più di tre secondi. Non ho una spiegazione intelligente per tale fenomeno, ma abbiamo stabilito empiricamente che è possibile che un idiota conquisti un potere enorme».

Vede nella Russia di oggi qualche finestrella che le permetta di respirare?
«La mia amica Masha Stepanova, grande poetessa, perfino quando dopo l’annessione della Crimea la popolarità di Putin era alle stelle, mi rimproverava: Perché continui a parlare solo di quell’86 per cento di sostenitori del presidente? Il rimanente 14 per cento è fatto di milioni di persone che in questo clima hanno osato essere contro».

© Gazeta Wyborcza, traduzione Ewa Joanna Kaczynska

Masha Gessen sarà presto in Italia, in occasione della XVI edizione del Festival della Mente di Sarzana (dal 30 agosto al primo settembre). In un incontro che prende il titolo dal suo ultimo libro, “Il futuro è storia”, la giornalista e scrittrice russa dialogherà con Wlodek Goldkorn venerdì 30 agosto (alle 19, al Teatro degli Impavidi). La rassegna, col suo ricco programma di conferenze, workshop e spettacoli, è su www.festivaldellamente.it