Israele torna alle urne. tra scandali e nazionalismi. Ma la soluzione del lungo conflitto è un unico stato con i palestinesi. Parla il grande scrittore Abraham Yehoshua

Abraham Yehoshua
Il 17 settembre in Israele si vota, per il rinnovo della Knesset, il parlamento. Le forze in campo sono le stesse che si misurarono nelle consultazioni svolte nell’aprile scorso. Da un lato il Likud di Benjamin Netanyahu che promette la continuità: buona gestione dell’economia e niente concessioni ai palestinesi. Dall’altro lo schieramento avversario, capitanato dall’ex generale Beni Gantz e che ha come idea guida porre fine al lungo potere di Bibi (nomignolo dell’attuale premier).

Ma occorre inventarsi un’altra idea di Israele, un ritorno all’ethos dei fondatori da un lato e la presa di coscienza che il futuro di pace significa uno Stato binazionale fra israeliani e palestinesi. Lo dice in questa conversazione Abraham Yehoshua, scrittore fra i massimi del mondo, grande intellettuale e che spesso viene in Italia. Questa volta, oltre che per partecipare al Festival di letteratura di Mantova, è atteso al Salina Doc Fest e all’Università di Palermo.

Dopo cinque mesi dalle precedenti consultazioni politiche Israele torna a votare. Perché?
«Una situazione del genere non si è mai verificata durante i settant’anni dell’esistenza del nostro Stato. Comunque gli italiani non dovrebbero stupirsi, visto che nel vostro Paese le crisi di governo sono frequenti e con ogni probabilità lo saranno anche in futuro. E perfino in Gran Bretagna, con il suo sistema elettorale solido, c’è il caos in Parlamento. La ragione delle elezioni attuali è da cercare nei procedimenti giudiziari (per sospetti casi di corruzione e abuso di potere, per ora si tratta di una specie di avviso di garanzia emesso dalla procura a cui gli avvocati degli indagati devono rispondere e non di un atto formale di incriminazione, ndr) a carico di Netanyahu. Il nostro premier sperava di trovare una maggioranza parlamentare che gli assicurasse l’immunità, ma quella maggioranza non c’era, soprattutto perché il leader del partito Israel Beiteinu, (la formazione politica degli immigrati russi, per lo più laici), Avigdor Lieberman, si era stufato di fare concessioni ai partiti religiosi alleati nello schieramento di destra. Così Netanyahu aveva deciso di sciogliere la Knesset. D’altronde non c’era neanche una maggioranza di centro sinistra, contraria a Bibi».

Chi è veramente Netanyahu?
«Non lo conosco personalmente e quindi il mio giudizio è basato sulle impressioni e sulle sue gesta e parole pubbliche. Netanyahu è un uomo razionale e laico e il suo rapporto con la fede e con i religiosi è di tipo funzionale. Non riesco a intravvedere in lui alcun aspetto mistico. È un ideologo, determinato a non dividere la Terra d’Israele in due Stati. Vuole lasciare tutto il territorio della Palestina storica nelle mani d’Israele non solo per motivi di sicurezza ma perché la sua è una visione del mondo nazionalista. Questo è lo scopo che si era prefissato e che persegue con coerenza da sempre. Come primo ministro ha dimostrato molta abilità nella gestione dell’economia, nei rapporti internazionali e una grande capacità di muoversi nei meandri dell’Amministrazione americana. Mi sembra un uomo che sa controllare le proprie emozioni e non è mai in preda al panico, come lo era invece uno dei suoi predecessori del Likud, Menahem Begin, il premier che fece coinvolgere Israele nel 1982 nella guerra del Libano. Netanyahu ha la capacità di gestire più materie e in un certo periodo era titolare di ben cinque portafogli ministeriali. È anche un bravo tattico e ha il pieno controllo dei suoi colleghi di partito. E per tornare ai suoi problemi giudiziari. Nel passato, un ex presidente della Repubblica, un ex premier e alcuni ministri sono finiti in carcere. E lui ha paura. Va detto che non è un uomo che ha il denaro in cima ai propri pensieri, ma talvolta pecca di troppa fiducia nella propria onnipotenza».

In Israele il sistema giudiziario non guarda in faccia ai potenti. Ma come spiega la grande popolarità e il consenso di cui Netanyahu gode?
«Il popolo è di destra ed è nazionalista e del resto siamo di fronte a un’ondata montante di nazionalismo in Europa e negli Stati Uniti. Però da noi l’origine del fenomeno è doppia. Prima di tutto, a causa della religione. Nella religione ebraica ci sono forti elementi di nazionalismo. Durante i duemila anni della Diaspora, il carburante che dava l’energia al nostro popolo era la religione, e non un territorio né le istituzioni. Così la fede è diventata l’essenza del nostro essere nazione. E poi, il nazionalismo si nutre pure della debolezza degli arabi e anche dell’esperienza assai negativa e amara del nostro ritiro da Gaza».

Voluto dall’allora premier Ariel Sharon, nell’anno 2005. Fu un ritiro unilaterale.
«In realtà Israele ha subito una sconfitta per mano di Hamas e il nostro esercito ha dovuto ritirarsi senza alcun accordo e perfino gli insediamenti sono stati smantellati. Ma anziché festeggiare la vittoria e cominciare a costruire a Gaza una mini Palestina, usufruendo dell’offerta degli aiuti dei Paesi del Golfo, Hamas ha iniziato a sparare razzi su Israele, a costruire tunnel per attaccarci e a mobilitare i giovani a manifestare sul confine con la richiesta di tornare nelle loro case a Tel Aviv e Giaffa, come se Gaza non fosse già, appunto un pezzo di Palestina. Tutto questo ha annientato l’illusione che ci si potesse ritirare anche dalla Cisgiordania, senza traumi. La nascita di uno Stato palestinese a fianco di Israele e lo smantellamento degli insediamenti di stampo nazionalista religioso in mezzo al territorio palestinese, non sembrano oggi possibili. Non è possibile neanche la divisione di Gerusalemme né dall’altro lato è ipotizzabile che i palestinesi fondino il loro Stato senza Gerusalemme Est come capitale. In parole povere: ci sono due possibilità. La prima: apartheid nei Territori. La seconda: dare ai palestinesi della Cisgiordania i diritti di residenti per poi diventare cittadini a pieno titolo come è già la prassi, con i palestinesi israeliani nei confini di prima della guerra del 1967».

Crede che una simile soluzione potrebbe funzionare?
«Sì. Anche se gradualmente e con difficoltà. Cosa vogliono oggi i palestinesi in Cisgiordania? Vogliono l’uguaglianza con gli israeliani. Mi sembra una richiesta naturale. Del resto, l’esperienza dei palestinesi israeliani in questi settant’anni dell’esistenza dello Stato è positiva, nonostante tutto. Non dimentichiamoci che i palestinesi non sono degli immigrati ma originari di questo Paese da generazioni, parlano l’ebraico e conoscono bene i codici semantici di Israele. Nel mio ultimo romanzo “Il tunnel” racconto quanto profondi sono i rapporti, per esempio nel settore della sanità, fra ebrei israeliani e palestinesi israeliani, e quanta cura hanno gli uni per gli altri».

Ci sono tanti infermieri, medici, ma anche avvocati arabi in Israele. Eppure i cittadini palestinesi disertano le urne in una proporzione maggiore rispetto agli ebrei. Come se non si sentissero a casa loro.
«Ed è il loro più grosso errore. Gli arabi costituiscono il 20 per cento della popolazione di Israele, però la loro rappresentanza in Parlamento è inferiore a questa percentuale. Per me è questa la grande sfida delle elezioni del 17 settembre. Se gli arabi riuscissero a inserirsi davvero nello schieramento di centro sinistra e se gli ebrei rendessero più facile il loro inserimento, avremmo più possibilità di contrastare una destra sempre più estremista e sempre più fondamentalista».

Cambiamo argomento. Ha paura dell’Iran?
«Sì. La storia ci insegna a prendere sul serio le minacce e la storia degli ebrei in particolare è la prova che le minacce spesso vengono trasformate in azioni. È successo quando gli ebrei furono massacrati dai crociati, è successo quando vennero cacciati dalla Spagna e poi con i pogrom in Ucraina e in Russia, per non parlare della Shoah. E anche le minacce dei Paesi arabi di annientare Israele erano vere e serie. Le minacce dell’Iran, Paese con cui non abbiamo un confine e con il quale abbiamo avuto per decenni degli ottimi rapporti, mi spaventano. Mi fanno paura perché hanno un fondamento religioso, del tutto irrazionale. Una sola bomba atomica caduta su Tel Aviv significherebbe, per me, la fine della storia ebraica. Io non andrò in Diaspora a pregare “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Io a Gerusalemme ci sono nato e a Gerusalemme ho vissuto. Non ho alcun interesse a proseguire la vita ebraica in Diaspora come già stanno facendo molti israeliani».

Lei infatti da sempre insiste sull’idea che la vita ebraica ha senso compiuto solo in Israele. Nel romanzo che ha appena citato, il protagonista, un ingegnere in pensione va nel deserto del Negev, per aiutare un giovane collega a progettare una strada. E mentre è lì, visita la tomba di David Ben Gurion, ai margini di un kibbutz. Un’ambientazione simbolica?
«Sì. Ho ambientato una parte del libro nel Negev, perché è un pezzo di Israele, quasi la metà del territorio dello Stato di cui nessuno si cura. E questa mancanza di cura la trovo assurda, se non tragica. Nel Negev si potrebbero fare tante cose, senza ledere i diritti altrui e senza ingerenze nei modi di vita degli altri. Ben Gurion, il mitico fondatore di Israele diceva: “È nel Negev che si gioca il destino del popolo ebraico”, e lui stesso è andato a vivere a Sde Boker, un kibbutz nel deserto ed è lì che c’è la tomba sua e di sua moglie Pola con una magnifica vista su Nahal Zin, un canyon profondo un centinaio di metri. Una visita lì insegna quanto fosse pionieristico e spartano l’inizio dell’impresa sionista e quanto da questo spirito iniziale ci siamo allontanati».

È impressionante vedere la modestia della baracca, perché in una baracca viveva Ben Gurion, una cucina minuscola, stanza da letto di dimensioni ridotte, due poltroncine modestissime nel soggiorno e tanti libri. Israele, lei lo ricorda spesso, oltre ad avere la metà del territorio nel deserto è un Paese del Mediterraneo. Ora, a Palermo, lei riceve un dottorato honoris causa (non il primo in Italia, per non parlare del premio dell’Accademia dei Lincei). Se le chiedo se c’è un rapporto fra Sicilia e Israele, mi risponde che è una domanda assurda?
«Non è assurda. A mio avviso, l’affermazione di un’identità mediterranea è un modo per facilitare l’integrazione di Israele nel Medio Oriente. La metà degli ebrei israeliani è discendente di persone arrivate dai Paesi del Mediterraneo. L’identità mediterranea è anche uno strumento importante per l’Italia, la Grecia, la Turchia, oltre che per i Paesi dell’Africa del Nord. Sono anni che cerco di convincere gli italiani a trasformare Palermo in una Bruxelles del Mediterraneo. In Sicilia c’è una stratificazione delle culture: quella romana, la greca, la musulmana, l’ebraica, e per questo motivo si tratta di un possibile modello di civiltà democratica, aperta, meno fondamentalista. Un modello da seguire da parte di Paesi come l’Algeria, il Marocco, la Tunisia, la Libia, addirittura. Sto parlando di un modello che potrebbe funzionare da freno alla globalizzazione di stampo americano-cinese, quella che poggia sulla convinzione che il denaro è il movente di tutto. La mia proposta darebbe agli italiani un’opzione aggiuntiva a quella europea. Di più: si potrebbe ipotizzare una comunità assieme alla Grecia, Spagna, ovviamente Turchia e Egitto, in cui ci sarebbe spazio per Israele, specie quando Israele, per forza delle cose diventerà uno Stato binazionale».

Ultima domanda. Ne “Il tunnel” l’anziano protagonista perde gradualmente la memoria. Per lui è una liberazione. E lei spesso parla di eccesso di memoria.
«Il mio protagonista soffre di demenza senile. E anche qui si tratta di una dimensione simbolica. Viviamo in un mondo molto complesso dove i cambiamenti sono rapidi e drammatici. La tecnologia muta radicalmente le nostre abitudini e i modi di pensare. La nostra identità intima e quella nazionale sono sempre più mescolate fra di loro. I nuovi miti rimpiazzano quelli vecchi. Una memoria troppo pesante e troppo carica di ricordi porta alla paralisi e a compiere azioni errate. Gli israeliani e gli ebrei devono liberarsi un po’ dalla memoria della Shoah e sicuramente dalle memorie dei luoghi di stampo biblico che portano a non riflettere sul male subito ogni giorno dai palestinesi. Da parte loro, i palestinesi dovrebbero liberarsi dalla memoria della Nakba (la distruzione) del 1948, una memoria che li porta a continuare a marcire nei campi profughi a Gaza e in Cisgiordania, anziché provare a risanare il Paese. L’eccesso di memoria fa sì che le tragedie del passato diventino la benzina che incendia il conflitto del presente.