La lotta infinita degli Shoshone del Nevada contro le scorie nucleari
Ronald Reagan decise di seppellire i resti atomici nella loro montagna. E i nativi dal 1987 a oggi sono riusciti a fermare tutto. Ora la battaglia ricomincia con Trump. Ma al loro fianco ci sono i casinò di Las Vegas
Lottare per difendere il territorio, i nativi americani della tribù Western Shoshone, ce l’hanno nel Dna fin dal massacro di Bear River, quando nel 1863 furono uccise più di 246 persone dalle forze del colonnello Patrick Conner. Da allora, di anni, ne sono passati più di centocinquanta. E ne sono trascorsi 32 da quando è iniziata la nuova resistenza: quella contro le scorie nucleari.
A circa due ore di macchina da Las Vegas, guidando verso nord-ovest nella Contea di Nye, in Nevada, c’è una sagoma ingombrante che costituisce questa trincea, per la tribù: il deposito di rifiuti atomici Yucca Mountain. Una struttura grigia che potrebbe ospitare fino a 135 mila tonnellate di scorie radioattive ma che non è mai stata completata, grazie alla lotta degli Shoshone. Una grande opera che spaventa le persone che abitano lì da sempre e reclamano i loro diritti su una terra considerata ancestrale, di proprietà degli antenati. «Perché noi abbiamo lottato molto, ma le nostre persone spesso sono rimaste sole».
A dirlo è Johnnie Bobb, a capo del Western Shoshone National Council. Ha 67 anni ed è nativo americano della tribù Shoshone, circa 12 mila in tutti gli Usa, che hanno conservato le loro lingue e la loro identità. Nella sua vita Johnnie Bobb ne ha viste tante e la sua gente, proprio nel territorio su cui una parte del deposito è già stata realizzata, è morta di cancro durante i test nucleari degli anni ’50 e ’60. Li chiamavano i “downwinders”, quelli che vivevano sotto le correnti del vento e delle contaminazioni radioattive provenienti dal sito nel deserto dove si conducevano i test. Secondo un report del National Cancer Institute Usa del 1997, l’alto livello di Iodio131 radioattivo provocò un aumento tra i 10 mila e i 75 mila casi di tumore alla tiroide, in America. «Scoprirono troppo tardi che non era sicuro», dice Bobb. «Oggi invece sappiamo già che Yucca Mountain è un posto pericoloso per aprire un deposito di rifiuti nucleari».
Per raccontare i fatti legati a questa infrastruttura si deve tornare molto indietro. Il presidente era Jimmy Carter, nel 1978, quando il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (Doe) iniziò gli studi sulla Yucca Mountain. Alla guida del Paese c’era invece Ronald Reagan, nel 1987, quando venne scelto questo sito. Da allora, le cause legali dello Stato e delle contee del Nevada contrarie all’opera si intrecciarono con la difesa del progetto da parte delle agenzie federali. E con le numerose votazioni del Congresso, che mai stralciò il progetto: i repubblicani spesso a favore, i democratici sempre contro. I lavori, bloccati e poi ripresi nel 2000, furono di nuovo fermati dalla sentenza della Corte d’Appello a Washington nel 2004, quando questa stabilì che per usare Yucca Mountain come discarica si dovesse provare che il sito fosse capace di contenere i rifiuti nucleari in sicurezza «per centinaia di migliaia di anni» e non solo «per 10 mila anni».
Una risposta arrivò nel 2014, con il report redatto dalla Commissione indipendente sul nucleare, la Nuclear Regulatory Commission (Nrc), che definì la discarica di Yucca sicura. Ma cinque presidenti dopo, nessuno ha saputo o voluto mettere la parola fine sulla vicenda, né in un verso né nell’altro. Per bloccare definitivamente tutto serve che il Congresso si pronunci contro, a maggioranza. E molti hanno paura di farlo, per un’opera costata già più di 6 miliardi di dollari pubblici solo in spese legali.
«Il problema è che le agenzie federali diedero per scontato che questo fosse il sito più adeguato», spiega Patrick Donnelly, direttore esecutivo del Center for Biological Diversity del Nevada. Nel 1986 il Dipartimento dell’Energia propose al Congresso tre siti tra cui scegliere: Hanford nello Stato di Washington, la Deaf County nel Texas e Yucca Mountain. Secondo Donnelly, però, le idee erano chiare: «Si sono solo chiesti “come” poter realizzare l’opera, non “se”». La priorità del centro che lui dirige «è di proteggere l’ambiente» e lui è in prima linea a difesa della fauna locale. «La regione comprende dozzine di specie in via d’estinzione: l’eventuale riscaldamento o contaminazione della falda acquifera dovuta a questa opera potrebbe causare la loro scomparsa», dice.
A preoccupare sono anche le modalità di trasporto delle scorie. A regime, si parla infatti di tre treni o di due camion a settimana carichi di rifiuti nucleari, provenienti ogni settimana per 50 anni da 76 siti diversi sparsi per tutta America. Yucca Mountain diventerebbe l’unico deposito per l’intera nazione. «E gli episodi sfortunati succedono. I camion possono ribaltarsi. I treni possono deragliare», riflette Donnelly. Molti dei percorsi seguiti dai mezzi, poi, dovrebbero passare per i centri abitati. «Un incidente è quasi una certezza, in quelle condizioni».
Se il tema ambientale è centrale, quello politico ha avuto un peso specifico maggiore. E sono stati gli ultimi due presidenti ad averne influenzato i destini: Barack Obama e Donald Trump. Il primo impugnò un report, redatto dalla Nuclear Regulatory Commission (Nrc) nel 2015, nel quale si definiva il Dipartimento dell’Energia «in grado di rispettare tutti i prerequisiti per il proseguimento dei lavori, eccetto due»: il diritto di recesso sulla terra e i diritti idrici, per la costruzione e il funzionamento del deposito. Due punti senza i quali proseguire con i cantieri è, di fatto, impossibile. Ma le scelte di Obama, fermamente contrario all’opera, hanno avuto un costo per i contribuenti americani, proprio perché secondo quanto dice la legge non è il presidente a poter ordinare alle agenzie federali indipendenti di fermare la licenza di costruire il deposito di Yucca Mountain. Deve essere il Congresso a doverlo fare. E forzare la mano significa essere soggetti a ricorsi giudiziari.
Con l’arrivo di Trump, le danze sono ricominciate. Nel 2018 il Dipartimento dell’Energia ha chiesto al Congresso 120 milioni per far ripartire il progetto, la Nuclear Regulatory Commission 30. Fondi negati, ma richiesti di nuovo nel budget 2019. «Ma non ha capito, Trump, che gli Usa non possono provare la loro ownership sulla Yucca Mountain: è inutile che chiedano ancora i soldi al Congresso», dice Ian Zabarte, agguerrito attivista a difesa della Western Shoshone Tribe. Il deposito di Yucca Mountain è il suo nemico e oggi è segretario e membro del board della Native Community Action Council. Crede che la questione dei diritti di proprietà del terreno su cui la discarica sorge sia centrale. «Obama lo aveva capito, è il motivo per cui alla prima occasione utile tentò di archiviare il progetto».
Quando si parla di diritti di proprietà tra nativi e governo, tuttavia, si entra sempre in un’area grigia, mai completamente chiarita. Le agenzie federali sostengono che il terreno su cui sorge l’infrastruttura di Yucca Mountain è pubblico e quindi lo Stato ha tutti i diritti per costruire. Ma il Treaty of Ruby Valley, firmato nel 1863 dalla Western Shoshone Tribe con il governo federale, non conferma questo punto. Con il trattato, infatti, i nativi americani non hanno ceduto il terreno ma solo accettato di concedere alle amministrazioni il «diritto di attraversare l’area, di mantenere le linee telegrafiche, di costruire una ferrovia e di impegnarsi in specifiche attività economiche». E l’area grigia sta proprio qui. «Washington non ha mai formalmente acquisito il titolo su queste terre, quindi è in violazione del trattato che ha firmato, è questo il punto», sostiene Patrick Donnelly dal Center for Biological Diversity.
La scelta di Trump di chiedere nuovo budget per far ripartire il progetto ha avuto un effetto particolare: ha ricompattato quasi tutti, in Nevada. In primis i nativi americani. Perché tra il capo della Western Shoshone National Council Johnnie Bobb e l’attivista Ian Zabarte non scorre buon sangue e le scaramucce politiche ci sono ovunque, anche tra i nativi. Ma sul tema dei rifiuti nucleari hanno messo da parte gli screzi e in occasione della “Sacred walk”, la passeggiata sacra svoltasi lo scorso maggio sul sito, hanno marciato assieme. E anche da parte dei politici locali bianchi, democratici o repubblicani che siano, i congressmen e le congresswomen e le due senatrici del Nevada hanno espresso la loro contrarietà all’opera, tanto è vero che i fondi richiesti nel 2018 non sono mai stati sbloccati.
Una fonte vicina all’ufficio della senatrice democratica Jacky Rosen, prima firmataria di un disegno di legge bipartisan che pone l’obiettivo di obbligare il Dipartimento dell’Energia a fermare l’opera, ha spiegato all’Espresso che «la senatrice è contraria a Yucca Mountain perché è un progetto costoso e pericoloso: si tratta di difendere gli abitanti del Nevada, non il proprio seggio», dice. E ancora: «Yucca Mountain è in cima a una falda acquifera ed è sismicamente attivo». Giusto in queste settimane, due scosse con epicentro in California hanno fatto tremare anche la Nye County: «La senatrice sta dando voce alla sua preoccupazione su come l’acqua contaminata possa essere una minaccia per le comunità che vivono qui».
Per quanto riguarda la posizione personale del presidente Donald Trump, questa è (come spesso gli capita) in contraddizione con se stessa. Trump era rimasto neutrale sul tema durante la campagna elettorale 2016, ma a inizio 2018 il Dipartimento dell’Energia della sua amministrazione ha chiesto di sbloccare i fondi. Poi però il presidente Usa, lo scorso ottobre, si è schierato dalla parte opposta: «Penso che si debbano fare le cose dove le persone vogliano che vengano fatte, quindi tenderei a essere contrario all’opera», ha detto a un comizio in Nevada durante la campagna elettorale di Midterm. «Sono quindi d’accordo con le persone qui», aveva aggiunto. Salvo poi inserire la richiesta di nuovi fondi per concludere il progetto anche nel budget 2019. Per questo voltafaccia oggi è Trump il nuovo nemico, 32 anni dopo Reagan.
Tra chi sta con i nativi c’è Alicia Briançon, dell’organizzazione Plan di Las Vegas, una no-profit che dal 1994 lotta a difesa dei diritti umani in Nevada e sta supportando la Western Shoshone Tribe sul fronte Yucca Mountain. «Queste persone sono soggette ad abusi dei diritti umani», spiega. «Sono come calpestati, è un qualcosa che non possiamo accettare». Durante la Passeggiata sacra di maggio, Plan ha marciato al fianco dei leader dei nativi. E secondo Briançon «le persone stanno capendo la pericolosità del progetto».
Persone comuni, ma anche imprenditori. È il caso dei proprietari dei principali casinò di Las Vegas, che si sono di recente pronunciati «in modo veemente» contro il progetto di Yucca Mountain. In una lettera rivolta al Dipartimento dell’Energia e al Congresso, infatti, firmata dal miliardario e donatore repubblicano Sheldon Adelson, i Ceo dei casinò hanno detto che l’obiettivo dovrà essere quello di «lasciare il progetto alle spalle». I rifiuti nucleari, hanno aggiunto, «non dovranno mai essere portati in alcuna località vicina alla capitale mondiale del divertimento».
Ma nonostante tutti questi no, il futuro per Yucca Mountain e i nativi rimane incerto. Il Congresso non decide, le agenzie federali continuano il loro lavoro. E le persone? «Le persone non sanno che cosa accadrà», dice il capo del Western Shoshone National Council Johnnie Bobb. È da anni che i nativi lottano contro questa opera e per la loro autonomia. «Ora siamo sfiniti». Ma una cosa è certa: «Abbiamo una terra sancita da un trattato e siamo noi stessi questa terra: non smetteremo mai di difenderla».