L’invasione sovietica nel 1979. Quella americana nel 2001. E il conflitto civile, i mujaheddin, i talebani. Lo strazio del Paese raccontato dai memoriali, ma anche dai suoi monumenti e dalla sua arte (Foto di Alessio Mamo)

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In un inverno rigido come tanti altri l’Afghanistan si sveglia con una notizia incredibile. I carri armati e altri veicoli corazzati dell’Armata Rossa sono ai confini del paese. Le basi militari vengono velocemente occupate. Le truppe e i convogli procedono verso la capitale Kabul. In poche ore, le stazioni radio del paese annunciano ai quindici milioni di abitanti l’invasione da parte dell’Unione Sovietica dell’Afghanistan.

Era il dicembre del 1979. Da quel giorno sono passati oltre 40 anni e la guerra non si è più fermata. Oggi il paese ha più del doppio dei suoi abitanti, trentatré milioni, ma le due generazioni da allora ad oggi sono passate da un conflitto all’altro: “generazione di guerra”, si autodefiniscono molti cittadini afgani. A prova di ciò, i carri armati e gli aerei militari russi di allora sono ancora nel paese. Non ai confini, ma in un museo. Così come le lettere dei prigionieri e gli oggetti di quegli anni che non sono andate perdute.

I musei di Kabul, consigliati anche dai siti di Lonely Planet, Trip Advisor e da molti blog di viaggiatori, testimoniano oggi questa storia dolorosa. Da un lato, un museo denominato Museo delle Mine, dall’altro il Museo delle Vittime di Guerra. Oltre al Museo Nazionale dell’Afghanistan, dove dietro la ricchissima storia archeologica del paese, c’è la testimonianza dei restauratori passati dai Sovietici ai Talebani agli Americani all’attuale governo afghano. Accanto a una preziosa parte del patrimonio culturale, quello che si è perso per sempre sono le tracce di migliaia di persone fatte sparire di cui non si è avuta più notizia, dagli anni Ottanta agli anni più recenti.

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Quel dicembre di quarant’anni fa il paese, per secoli crocevia di diverse culture, religioni e lingue sulla Via della Seta, è stato il principio di questa violenza e crimini contro l’umanità. A partire dal 1973, il giovane regime repubblicano afghano viveva anni di instabilità, culminati nel colpo di stato del Partito Democratico Popolare Afghano (Pdpa), di ispirazione comunista, nel 1978. Ma l’anno dopo, un regolamento di conti interno al partito porta al potere Hafizullah Amin, inviso all’Unione Sovietica.

Scatta l’invasione e, poco dopo, la resistenza: la guerriglia dei combattenti afghani contro l’invasore e la dura repressione del regime sovietico verso i dissidenti. Questi eventi hanno cambiato per sempre la storia del Medio Oriente e del mondo musulmano e, in seguito, del mondo intero. Dopo i dieci anni sovietici, la scena politica afghana sarà dominata dai mujaheddin e da una guerra civile, fino al regime dei Talebani. E al 2001, all’11 settembre, all’invasione americana in Afghanistan. La guerra coi talebani non è mai finita e i fronti si sono moltiplicati con i gruppi appartenenti all’Isis presenti nel paese. I negoziati di pace tra Stati Uniti e Talebani sono in corso, mentre gli attentati terroristici contro la popolazione non si sono mai fermati.

È questo tutto il drammatico percorso cronologico, visuale, didattico che porta i visitatori, pochi per la verità, tra le stanze, o talvolta tra i carri armati, dei musei di Kabul. Ahmad Tarakel ha 46 anni ed è originario di Jalalabad. Non ha mai imparato a leggere e scrivere e dai primi anni Duemila lavora con Omar, nome dell’organizzazione che si occupa dello sminamento e riabilitazione in Afghanistan (il suo acronimo Omar deriva dal nome in inglese). Prima di lavorare come guida per i visitatori e gli studenti al Museo delle Mine di Kabul, ha passato ben quattro anni a lavorare sul campo, nelle province di Herat, Logar, Kandahar, a sminare il terreno. Oggi quelle mine se le trova tutte di fronte agli occhi, di tutte le dimensioni, così come le bombe, con un marchio chiaro in evidenza: Ffe, Free from Explosion - esente da esplosione. Accompagnando i visitatori tra le armi, ne sottolinea la provenienza, su molte indicata, con un velo di gelida tristezza: «Dalla Cina, dall’Italia, dal Belgio, dagli Stati Uniti… fornendo armi, tutto il mondo ha partecipato alle nostre guerre».

Nel 1997 l’organizzazione Omar, come membro della Campagna internazionale per la proibizione delle mine anti-uomo, ha vinto il Premio Nobel per la Pace, ma le mine sono rimaste. «Molte non sono progettate per uccidere, ma per ferire», racconta Ahmad che nel frattempo mostra anche gli strumenti, esposti al Museo, per sminare il terreno. «Gli incidenti e morti durante il nostro lavoro sono frequenti: questa è una scarpa di una persona morta durante una campagna di sminamento», indica Ahmad.

Nell’ampio spazio esterno del Museo, ci sono invece gli aerei. Uno di loro, di età sovietica, è adibito ad aula, con i computer per potersi connettere ad Internet e poter seguire le formazioni che Omar organizza. Tante classi di scuola primaria vengono fatte sedere ed istruite sulle mine perché i bambini sono spesso vittime di mine inesplose, che non riconoscono; l’organizzazione Omar invece vuole insegnar loro che le mine non sono solo sottoterra ma anche in superficie: e possono sembrare delle farfalle, da cui il nome mine-farfalle. «Ma il lavoro di sminamento oggi procede a rilento» dichiara Fazul Rahim, manager operativo delle attività di Omar, «molte zone sono occupate dai talebani, dall’Isis, sono inaccessibili e pericolose, per esempio nella provincia di Logar. Cerchiamo sempre delle zone sicure dove poter continuare».

Dalle strade adiacenti al Museo, al di là delle mura che lo chiudono e proteggono dagli attentati, si sente il motivetto della canzone “Happy Birthday” dai carrelli che girano per vendere gelati. Nonostante le misure di sicurezza, anche il Museo è stato indirettamente colpito da un attentato. Indirettamente perché il target erano degli edifici militari governativi vicini nel quartiere di Wazir Akbar Khan, ma le schegge e le onde d’urto di quell’enorme esplosione - quella del primo luglio 2019 che ha ucciso 45 persone - sono arrivate fin là. Nello stesso complesso del Museo delle Mine si trova anche una tv locale, Shamshad Tv. Dietro il tremare dei vetri dell’edificio, un giornalista è morto e altri sono rimasti feriti. La storia del passato si mescola continuamente con la storia del presente e giustizia ancora non è stata fatta per le migliaia di vittime, da quel 1979 in poi.

È quello a cui lavora l’associazione Ahrdo, associazione afghana per i diritti umani e la democrazia. Hadi Marifat, direttore esecutivo dell’associazione, vive tra Kabul e l’Aia. Nell’aprile 2019 la Corte Penale Internazionale dell’Aia ha rifiutato di aprire un’indagine per investigare sui crimini di guerra compiuti in Afghanistan dall’esercito e dall’intelligence statunitense, dal governo afgano e dai Talebani dopo il 2001. A dicembre è stato fatto appello alla decisione della Corte che aveva giustificato il rifiuto perché i presunti colpevoli - in testa gli Stati Uniti- non avrebbero cooperato. L’indagine potrebbe portare per la prima volta l’Aia a mettere sotto stato di accusa gli Americani e porre fine all’impunità diffusa per i crimini commessi in Afghanistan. Gli Stati Uniti, se anche l’appello dovesse portare avanti l’indagine, non sono un paese membro della Corte e rifiutano di collaborare. Quanto ai crimini dell’Unione Sovietica, non è mai iniziato un processo di giustizia transizionale.

Per Hadi questo è pane quotidiano da dieci anni. «E forse ce ne vorranno altri dieci per avere una risposta da parte della Corte dell’Aia», ammette amareggiato. L’unico lavoro che possono fare è raccogliere materiale, prove, non solo per le indagini criminali, ma per la Memoria. «Il Museo della Memoria delle Vittime di guerra in Afghanistan è un museo innanzitutto per il popolo afgano lacerato da 40 anni di violenza», dice Hadi. In questo museo si trovano foto di vittime, lettere dalle prigioni sovietiche, oggetti ed effetti personali raccolti dal 1978 ad oggi, per esempio gli oggetti trovati attorno agli attacchi suicidi, specie nei mercati, che lasciano attorno solo distruzione. La strategia dell’associazione tramite il Museo è di avere un luogo fisico di memoria e poterlo trasformare un giorno in un museo nazionale.

Ma molti dei responsabili dei crimini di guerra e contro l’umanità di tutte le epoche sono oggi membri del parlamento o ministri anche a causa di una legge di amnistia approvata nel 2007. Il cammino è lungo. Nel frattempo, accanto al Museo, l’associazione promuove attività di Teatro dell’Oppresso per le famiglie delle vittime degli ultimi decenni che non hanno mai ricevuto attenzione o risposte dai vari governi che si sono succeduti. «Lavoriamo molto tramite il Teatro per la risoluzione dei conflitti con diversi gruppi etnici del paese e cerchiamo anche di favorire l’incontro e il dialogo tra i mullah e le donne», dice Hadi, ora meno buio in volto. «Le cicatrici della guerra sono sempre presenti e siamo costantemente traumatizzati due volte dall’assenza di giustizia e dagli attentati. Il popolo afgano desidera vivere in pace».
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Infine, non può mancare la visita al Museo Nazionale dell’Afghanistan dove, come negli altri due, vengono regolarmente organizzate gite scolastiche per far conoscere ai giovani afgani, alle generazioni del futuro, la storia del Paese, attraversata per secoli dal Buddhismo prima dell’avvento dell’Islam. Ed è proprio il passato buddista che è stato l’obiettivo principale dei Talebani, come i maestosi Buddha di Bamiyan, scolpiti nella roccia e fatti esplodere nel marzo 2001.

Hakim Zawad lavora nel Museo dell’Afghanistan dal 1988 ed ha visto nel 1989 il regime comunista trasformare il Museo nella sede del Ministero della Difesa. I reperti erano stati trasferiti altrove ma il Museo aveva subito comunque dei danni. Sarà col regime dei Talebani nel 1996 che Hakim insieme ai suoi colleghi dovrà rischiare la vita: «Ogni sera, pazientemente, di nascosto, tornavamo al museo per conservare i cocci delle statuette buddhiste che venivano distrutte di giorno dai Talebani», racconta. Oggi un team di restauratori afgani e internazionali sta lavorando alla ricostruzione delle statuette buddhiste conservate in bauli nei magazzini da persone come Hakim. E tutti questi musei hanno lo stesso, forte significato per il paese: rimettere insieme i pezzi della Storia dilaniata dell’Afghanistan degli ultimi 40 anni.

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