Minacciati. Diffamati. Incarcerati. Il regime brasiliano ha una nuova strategia: distruggere gli attivisti delle Ong ecologiste e pro Indios. Mentre il numero degli incendi dolosi sale vorticosamente

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L’agricoltura è pop. È questo il messaggio che l’élite bianca e agroalimentare del Brasile fa passare ogni giorno sul più grande canale televisivo del paese. L’agro è pop, bisogna coltivare, estendere i campi, allevare più bestime. Un messaggio in piena sintonia con le politiche del presidente Jair Bolsonaro (che a quell’élite appartiene) e del suo ministro dell’ambiente Ricardo Salles. Anche se la verità è che l’agro non è affatto pop, l’agro distrugge la foresta e - oltre a rappresentare una minaccia ai popoli della foresta - mette a rischio il futuro dell’Amazzonia e del pianeta intero.

Quando era ancora in corsa elettorale per la presidenza della Repubblica, Bolsonaro diceva che se avesse vinto lui in Brasile non ci sarebbero state più demarcazioni della terra indigena. Promessa mantenuta, purtroppo: il presidente non solo ha eliminato i confini di protezione di quelle aree ma ha anche iniziato a mettere in pratica la sua politica di annientamento delle associazioni e degli enti di appoggio ai popoli tribali, come l’Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili (Ibama) e la Fondazione nazionale dell’Indio (Funai). E ha istigato di fatto la violenza nelle campagne e nella foresta promulgando una legge fatta a pennello per gli agricoltori che autorizza l’uso di armi nell’intera estensione delle proprietà non solo nella propria casa. 
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La sua idea di sviluppo è lo sfruttamento insostenibile dell’Amazzonia, aprendo spazi all’agricoltura intensiva e allo sfruttamento delle miniere. Recentemente il sito The Intercept Brasil diretto dal premio pulitzer Glenn Greenwald, ha rivelato il piano «paranoico» del presidente per lo sviluppo dell’Amazzonia: prevede lavori infrastrutturali come dighe e centrali idroelettriche. Ma anche incentivi per grandi lavori pubblici che attraggano popolazioni non indigene di altre regioni del Paese, perché si stabiliscano in Amazzonia e «aumentino il contributo del Nord del paese al pil nazionale».

L’Amazzonia oggi è un campo di battaglia. Da una parte c’è questa élite bianca, molto eccitata al pensiero di poter sfruttare economicamente cinque milioni di chilometri quadrati. Dall’altra ci sono i popoli delle foreste, le Ong e gli attivisti che combattono per i diritti umani e per la tutela ecologica. Ma è una battaglia impari: i primi sono miliardari e siedono al governo; ai secondi viene riservata la persecuzione e spesso il carcere, anche senza avere commesso alcun reato.
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È quello che è capitato ad esempio ai quattro ragazzi volontari dell’Ong Projeto Saude e Alegria, che opera a Alter de Chão, nella regione del Pará. Arrestati dalla polizia senza alcuna formale motivazione, hanno trascorso tre giorni in prigione. Qui hanno rasato i loro capelli come se fossero già stati condannati. Poi li hanno accusati senza prove di aver dato fuoco alla foresta per raccogliere più donazioni a favore della loro Ong. È passato del tempo prima che la magistratura accertasse che l’imputazione era del tutto falsa. Intanto però Bolsonaro li ha abbondantemente diffamati con un video sui social network sostenendo che giravano le foto dei quattro volontari, che lui le aveva viste. E poi: «Quei ragazzi vivono nel lusso. Come fanno ad avere i soldi? Dando fuoco nell’Amazzonia!», ha detto sui social il presidente. Era tutto falso e costruito ad arte.
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Intanto l’ultimo report dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (Inpe) mostra che dal 1 al 30 novembre scorso la distruzione della foresta  ha raggiunto 563,03 km², un incremento del 104 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Sempre secondo l’Inpe, questo tasso di sitruzione è il più alto mai registrato nel mese di novembre dal 2015, quando sono iniziate queste misurazioni satellitari.

Di fronte a questi dati il governo di Brasilia fa spallucce e insinua che si tratta di fake news. Non è strano: il ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, grande amico dell’agrobusiness e in piena sintonia con Bolsonaro, non ha mai messo i piedi in Amazzonia e in un un programma tivù ha sostenuto che Chico Mendes «era solo uno approfittatore che usava i raccoglitori di caucciù». Chico Mendes, il sindacalista e ambientalista che lottava contro il disboscamento della foresta amazzonica e contro l’arroganza dei “rancheros”, da cui fu infine assassinato nel dicembre del 1988.

Il ministro Salles sostiene anche che il cambiamento climatico «è un tema accademico» e «una preoccupazione che si potrà avere tra 500 anni». Naturalmente difende le piantagioni transgeniche di soia e vuole una la riduzione sui controlli dei pesticidi. Alla conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite - la Cop25, di Madrid, dal 2 al 15 dicembre - Salles è andato a chiedere soldi per finanziare un fondo per l’Amazzonia, senza però presentare alcun progetto. La situazione è stata così assurda che il Brasile ha ricevuto il “Premio Fossile”, una provocazione degli ambientalisti ai paesi considerati più dannosi per l’ambiente. Del resto l’incontro sul clima avrebbe dovuto svolgersi proprio in Brasile, ma poco dopo la sua elezione Bolsonaro ha detto che che lo avrebbe cancellato e per qusto è stato spostato in Spagna. Il giorno dopo la chiusura del vertice, il presidente ha puntato tutto sulla retorica sovranista: «Vogliono dare fastidio solo al Brasile!».
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Nonostante le continue bugie del governo, i popoli autoctoni - assieme ad attivisti, giornalisti e ricercatori - combattono e talvolta danno anche la vita in difesa della foresta. Grazie al loro impegno non può più essere nascosta la verità: la deforestazione è in aumento ed è crescente lo scontro tra i disboscatori e indigeni. Non ci sono solo le fotografie dei satelliti. Secondo il Conselho Indigenista Missionário (Cimi), da gennaio a settembre di quest’anno sono state registrate 160 intrusioni dei taglialegna illegali, con un aumento del 44 per cento rispetto al totale del 2018.
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La Commissione Pastorale della Terra, un organismo collegato alla Conferenza episcopale brasiliana, ha rivelato che dal 2008 questo è stato l’anno più violento contro le comunità indigene. Solo nell’ultimo mese sono stati uccisi quattro indigeni dell’etnia Guajajara. L’ultima vittima è un 15enne, Erisvan Soares Guajajara, ucciso a coltellate. La leader indigena Sonia Guajajara ha twittato: «Tutti coloro ai quali noi non piacciamo oggi si sentono autorizzati a ucciderci anche perché sanno che non saranno puniti». Per il suo disprezzo verso le popolazioni indigene, Bolsonaro è stato perfino denunciato al Tribunale dell’Aia per crimini contro l’umanità.
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Un mese fa ad Altamira, nello Stato del Pará, si è svolto l’evento “Amazzonia Centro del Mondo” e qui, per giorni, si è discusso, si sono fatte proposte e hanno parlato i testimoni diretti di chi nella foresta ci vive. Una fazione filo-Bolsonaro ha cercato di bloccare il meeting e di interrompere le attività.

Altamira, con la costruzione della centrale idroelettrica di Belo Monte, è diventata una delle città più violente del paese. L’idroelettrica è un mostro di cemento del valore di circa 40 miliardi di reais (9 miliardi di euro circa). La città ha visto crescere la popolazione senza che i servizi pubblici, compresa la sicurezza, ne accompagnassero il cambiamento. Voluta da allora presidente Lula e realizzata dal successore Dilma Rousseff, l’opera è sempre stata messa in discussione per quanto riguarda l’impatto ambientale e il problema del basso livello dell’acqua nel fiume Xingu. Ora Norte Energia, società proprietaria dell’impianto, vuole anche l’autorizzazione alla costruzione di strutture termoelettriche per compensare i cinque mesi all’anno in cui la diga principale, che rappresenta oltre il 98 per cento della capacità di generazione, viene chiusa a causa della scarsità d’acqua Biviany Rojas, avvocato dell’Istituto Socioambientale (ISA), ha dichiarato al quotidiano O Estado de S. Paulo che «la richiesta per la costruzione dell’impianto, conferma che Belo Monte è un danno socio-ambientale e anche un crimine. Se doveva produrre energia termoelettrica, non c’era bisogno di bloccare il fiume Xingu».
Altamira è oggi lo specchio di quello che può diventare tutta l’Amazzonia domani. Eliane Brum, una delle giornaliste più impegnate nella difesa dell’Amazzonia. nel suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas - Um Olhar Sobre o País, de Lula a Bolsonaro” ha messo in chiaro cosa ci aspetta nel futuro prossimo: «Dovremo affrontare i conflitti anche quando sappiamo che perderemo. O combattere anche quando si è già perso. Fare, come un imperativo morale».