Quei bambini smarriti, rifugiati per sempre: «Per noi è come stare in prigione»
Nei campi profughi continuano gli arrivi. Mentre la guerra in Siria continua e si dimentica la speranza di tornare a casa
Marea ha nove anni ed è barricata in tre metri per due di plastica bianca. Fuori una distesa di vite incagliate in un mare di fango. Marea però non le vede. Chiude gli occhi e trema ogni volta che il vento scuote la tenda aprendo uno squarcio luce. È così da quando lo scorso ottobre nel suo giardino ha visto «il cielo piangere». Lo chiama così l’attacco turco che ha distrutto la sua casa a Qamishli in Siria. Da allora il suo mondo s’è chiuso in questa monade, d’unità assoluta e minimale. Settore D, n° 24 del campo rifugiati di Bardarash, nel nord est del Kurdistan iracheno. È qui insieme a 10mila persone, in una terra dove i profughi si stratificano. L’ondata di curdi siriani cacciati da Recep Tayyip Erdogan e abbandonati dagli americani, si aggiunge a quella dei compatrioti iracheni scampati dalla furia di Daesh. Solo in questa provincia i campi che ospitano il popolo in fuga sono una ventina. E ogni volta che la situazione sembra assestarsi, una nuova emergenza mette a dura prova il paese. A Bardarash avevano già iniziato a smontare, convinti che tutto fosse finito e invece si ricomincia e c’è persino chi come Ahmed vive un eterno ritorno: «Ho quindici anni ed è già la seconda volta che faccio avanti e indietro dalla Siria».
L’Organizzazione internazionale delle migrazioni nel 2008 parlava di un numero di sfollati interni “senza precedenti”. Erano oltre 2 milioni. Oggi è ancora peggio: si sono aggiunti altri 230mila rifugiati come Ahmed e Marea. Sovrapposti l’uno sull’altro, mutano l’essere e lo stare mentre niente attorno sembra cambiare. Si muovono a tentoni cercando di inventare una quotidianità. C’è chi vende banane e sigarette portando le ceste di plastica al collo e chi come Ibrahim difende i libri dalla pioggia. «Avevo appena superato il test per accedere alla scuola di inglese. Mi ero impegnato tanto, invece ora non potrò inscrivermi», spiega.
Una donna gira tra le pozzanghere con una cartellina piena di fogli. «Non riesco a fargli usare altri colori. Solo il rosso e il nero. Questi bambini hanno paura delle luci e dei rumori perché pensano ai bombardamenti, vivono un senso di smarrimento». Anna Pelamatti è una psicologa e lavora per l’ong italiana Aispo, legata all’ospedale San Raffaele di Milano che qui gestisce un centro di salute mentale e sostegno per minori. Fu’ad urla e se la prende con tutti: a sei anni disegna sempre la stessa casa con dentro un uomo. Gli cadono i fulmini in testa. È suo padre, rimasto in Siria per difendere le poche cose rimaste. Haia invece colora di nero una guerriera che difende i bambini. In realtà è sua zia Sena. Ha quarant’anni e l’ha adottata. Sena cerca il cherosene che è già finito e guarda sempre in basso «perché ho vergogna di stare qui».
Arriva da Afrin, il cantone più a est del Rojava, il primo occupato dai turchi: «da lì siamo andate a Kobane, scappiamo da due anni. Da Daesh e da Erdogan che vuole terrorizzarci per far lasciare l’area libera così da ripopolarla. È un progetto di sostituzione etnica. Ma io voglio tornare per riprenderci la nostra vita». La mamma di Marea invece vuole tirare fuori dall’inferno sua madre e sua sorella. I trafficanti per portarle fino al confine chiedono 400 dollari. «Per scappare ho venduto gli orecchini d’oro, loro non li hanno». Altri pensano di scavare un buco sotto alla recinzione, vogliono raggiungere le case dei parenti. «Qui è come stare in prigione», dicono. Le forze di sicurezza pattugliano e concedono il permesso solo dopo accurati controlli, perché tra le tende potrebbero essere nascosti i terroristi del sedicente Stato Islamico, scappati dopo il collasso dei centri di detenzione siriani. La rete dell’Isis è già dispersa sui monti, nelle zone contese tra Baghdad ed il Kurdistan, e ha dimostrato di saper sopravvivere alle peggiori disfatte, adattandosi in fretta alle nuove condizioni sul campo per mettere a segno altri massacri.
Fuori dalla cinta del campo un signore cammina stretto nel suo completo blu. È elegantissimo, le scarpe lucide. Si chiama Samman el Daniel e ha un bel negozio di tende. È uno sfollato da Mosul, scappato proprio da quel Califfato «che non è un’organizzazione terroristica ma un’ideologia: se non viene combattuta su questo piano non verrà mai cancellata». È qui da tre anni. Guarda dentro Samman e si augura che «escano da lì e si rimettano in piedi».
Ritrovare la normalità e dover accettare che la normalità siano cimiteri e cemento spezzato di case distrutte in ondate di battaglie combattute fino alla morte. Ferite sempre aperte e tentativi di cancellare un mosaico di identità diverse per imporre un’unica etnia e una sola religione.
È la «terra adorata separata da un tratto sottile chiamato confine» evocata dal poeta Hemin Mukriyani. Oggi il Kurdistan iracheno è una regione indipendente e abbastanza stabile, ma segnata da anni di crisi finanziaria, stipendi del personale pubblico in ritardo e poche possibilità di lavoro. Una sessantina di chilometri a sud-ovest di Arbil, il campo di Makhmour ospita ancora 12mila curdi turchi fuggiti nel 1994 durante l’offensiva contro con il Pkk, il partito dei lavoratori di Ocalan considerato da alcuni paesi un’organizzazione terroristica. Meno di duecento chilometri più a sud, a Barika, i rifugiati curdi scappati dall’Iran in un paio di decenni hanno trasformato una situazione precaria in permanente e hanno di fatto costruito una città. Accanto altri curdi fuggiti dalla guerra iniziata in Siria nel 2012. E poi arabi e yazidi iracheni: ad Asthi sono oltre 10mila. Rasha Ahmed è arrivata qui nel 2015, ha ventisei anni ed è separata. Era un’estetista prima che le bandiere nere negassero ogni possibilità di bellezza femminile. E allora si è data da fare. In una tenda ha aperto il salone di cosmetica dove accorrono decine di donne. «Si chiacchiera e ci si trucca. Bastano due euro, vanno per la maggiore sopracciglia folte e mèche bionde. Ma per le grandi occasioni il make-up richiede ore». Accanto, tra bandoni di latta e insegne di organizzazioni umanitarie che nel tempo sono passate qui, si apre la magia. Una tenda atelier dove sono esposti abiti da sposa. Rasha compra stoffe in conto vendita e le confeziona. Prezzo medio 300 euro. «Perché qui ci si sposa, si fa anche festa ed è un diritto di tutte noi farci belle per vivere».
In fila ci sono una ragazza araba e una yazida. «Abitiamo insieme, ci stiamo riuscendo anche se Daesh ce lo voleva impedire, nonostante tutto non gliel’abbiamo permesso», spiega Murad Salih. Arriva dal Sinjar ed è un sopravvissuto, la gente è stata sterminata. Anche Murad si è inventato un lavoro perché «tutti vorrebbero tornare a casa, ma non possiamo. È pericoloso, i terroristi di Daesh stanno attaccando di nuovo, c’è il rischio che risorgano. E allora ho pensato di mettermi a disposizione, di aiutare a salvare esseri umani». Murad ogni mattina apre le porte della clinica che fornisce assistenza medica, ginecologica e vaccinazioni di Emergency. È il loro logista: accoglie i pazienti, controlla il generatore di corrente, la presenza dell’acqua, ripara i piccoli e grandi problemi. Qui vicino a Sulimani, città verso il confine della frontiera iraniana, Gino Strada ha aperto anche un centro di riabilitazione. Era il 1998. I pazienti vengono sottoposti a trattamenti di fisioterapia, all’applicazione di protesi e possono frequentare corsi di formazione professionale per imparare un lavoro compatibile con la disabilità. Uno dei primi a ricevere aiuto è stato Muhamed Saied Dilashad, colpito da un razzo iraniano a inizio degli anni Ottanta. Da allora non ha più il braccio sinistro. Se ne sta seduto accanto a un ragazzino che indossa con orgoglio la maglietta del Napoli. «Ciao, italiano?», gli sorride. Nulla da fare, tiene la testa bassa e trema. Muhamed lo consola: «Vedrai che potrai giocare a pallone». Daud è arrivato stamattina da un villaggio vicino a Mosul. Era in giro a portare le pecore ed ha appoggiato un piede su una mina. Ha perso la gamba sinistra e la mano. A quattordici anni. In questo centro di Emergency artigiani modellano sogni, fogli materici che diventano arti. Sono ortopedici come Shadman Murad-khan Shakaram. Quando aveva diciassette anni viveva ad Halabja, non lontano da qui. «Era guerra da giorni, ma quando abbiamo visto gli aerei sembrava bello, perché non c’è stato un rumore forte. Abbiamo pensato “siamo fortunati, le bombe non sono esplose“. E invece erano armi chimiche di Saddam Hussein. Ci siamo salvati solo perché eravamo poveri, vivevamo in periferia e il vento si è messo a soffiare dall’altra parte». Un’uccisione pianificata, nei villaggi sparsi tra le montagne al confine con Iran gli abitanti portano ancora i segni.
Shadman aiuta tutti perché si sente fortunato. E non importa che entrino anche iracheni che in quegli anni facevano parte dell’esercito oppressore. Qui si realizzano gratuitamente protesi per arti per riprendere la vita. Daud a fine giornata sorride. Il padre gli ha portato un pallone e lui tira un calcio forte contro il muro. Oltre duecento chilometri più in su Marea stringe con una mano la mamma e con l’altra la dottoressa Pelamatti. Un passo alla volta affonda nelle pozzanghere anche se fuori piove ancora.