La ministra Lamorgese aveva parlato di «rivedere i patti». Ma di migliorie dei diritti umani non c'è traccia. E domenica il documento sarà rinnovato, nella forma e nella sostanza

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Lo scorso sei novembre, riferendo alla Camera sul rinnovo del Memorandum Italia-Libia firmato dal Governo Gentiloni con il governo di Tripoli di Fayez al Sarraj nel 2017, la Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese affermando l’intenzione di confermare l’accordo, parlò anche della volontà bilaterale di rivedere alcuni aspetti del patto.
La Ministra affermò la necessità di proporre iniziative volte a «risolvere le criticità proprio ad iniziare dall'urgente questione dei centri […] promuovendo un maggior ruolo di coordinamento e di intervento delle agenzie delle Nazioni Unite.»
Ai sensi dell’art. 3 e dell’art. 7 del Memorandum,  il governo italiano chiedeva di riunire la commissione congiunta italo-libica e modificare l’intesa sul contrasto all’immigrazione clandestina.
Ancora Lamorgese alla Camera: «Perno di questo rinnovato impegno nella cooperazione italo-libica sarà una rinvigorita attività della commissione paritetica volta a migliorare le attuali intese attraverso la condivisione di un piano operativo-umanitario con una serie di interventi che brevemente vado a illustrare».
Tre mesi dopo di quella commissione e delle procedure atte al miglioramento del Memorandum non vi è traccia e domenica prossima, il 2 Febbraio, il documento sarò pertanto rinnovato nella forma e nella sostanza.
A cambiare, tragicamente e in peggio, però, sono state le condizioni a terra in Libia. Ormai in guerra da dieci mesi.

Il tavolo
Il sei novembre, dopo le relazioni alla Camera il governo italiano manifestò anche con Tripoli l’intenzione di negoziare. Il mezzo, una commissione presieduta per l’Italia da Di Maio e Lamorgese, il fine superare quelle che i ministri degli Esteri e dell’Interno hanno definito "criticità" e che numerose inchieste giornalistiche, report delle Nazioni Unite e testimonianze raccolte da ONG internazionali che lavorano sul campo, considerano abusi, violenze e torture nei centri di detenzione per migranti, sia quelli ufficialmente gestiti dal governo, sia quelli (impossibile sapere quanti) controllati dalle milizie.

L’obiettivo del tavolo bilaterale avrebbe dovuto essere "migliorare il fronte dei diritti umani", ma già a novembre la risposta libica sembrò tiepida: «Non abbiamo ancora ricevuto alcuna nuova bozza, decideremo quando avremo modo di visionarle» disse Hassan al Honi, membro del GNA governo di accordo nazionale di al Sarraj.

I punti espressi dalla Lamorgese però sembravano precisi: chiudere gradualmente i centri di detenzione, aprire nuove struttre gestite dalle Nazioni Unite, in particolare da UNHCR e IOM, intensificare i corridoi umanitari per evacuare il maggior numero di persone possibili, rafforzare i confini di terra nella parte meridionale della Libia, sostenere progetti di supporto locale, attrezzature mediche per gli ospedali, scuole.
Quello che mancava e manca, è capire chi siano gli interlocutori del nostro governo in un Paese in cui le alleanze e la capacità di controllo del territorio cambiano di ora in ora come dimostrano gli scontri armati delle ultime settimane (la battaglia di Sirte, prima sotto il controllo di Sarraj oggi sotto il controllo di Haftar e i blocchi ai pozzi petroliferi da parte delle milizie legate all’esercito del Generale della Cirenaica).

I riferimenti alla guerra nella relazione della Lamorgese si riducevano a una sola frase: “conflitto tra diverse fazioni”. Eppure a novembre la guerra era già in atto da sette mesi, i morti si contavano a centinaia e un centro di detenzione, quello di Tajoura, era già stato colpito da due bombardamenti del generale Haftar (armi emiratine) uccidendo decine di persone. La situazione a novembre era già d’emergenza, talmente d’emergenza che le Nazioni Unite spesso evocate in questi anni come la cartina al tornasole di un possibile lavoro umanitario sul campo, da mesi ripetono con forza, e in ogni occasione che la Libia non può in alcun modo essere considerata un porto sicuro e denunciano l’impossibilità di lavorare in libertà nei centri di detenzione.

La relazione dell'UNHCR
L’otto gennaio scorso Jean Paul Cavalieri, capo missione UNHCR in Libia, durante una seduta della Commissione Esteri alla Camera, pur ringraziando l’Italia per la generosità dimostrata con i voli umanitari, ha descritto in dettaglio la crisi umanitaria libica: “le condizioni di sicurezza nel Paese continuano ad esporre a rischi di protezione, violazioni dei diritti umani, sfruttamento e abusi centinaia di migliaia di migranti che rimangono intrappolati nei centri”
Il Governo di Tripoli non è in grado di garantire cibo e un trattamento dignitoso dei migranti e alcuni centri, come ripetutamente denunciato, sono controllati da milizie che li usano per ricattare e estorcere denaro alle persone in detenzione o come deposito di armi, esponendo centinaia di migranti al rischio che l’edificio venga colpito dalle truppe di Haftar, come è accaduto, appunto, nel centro di detenzione di Tajoura la scorsa estate.
Alle persone migranti detenute nei centri gestiti dal DCIM (dipartimento anti-immigrazione clandestina) sotto la responsabilità del Ministero dell’Interno del governo Sarraj, si aggiungono – continua la relazione di Cavalieri – gli sfollati interni libici che a oggi hanno raggiunto le duecentomila persone.
Meno di una settimana fa l’ultima dichiarazione dell’UNHCR dalla Libia registrava “una profonda preoccupazione per la sicurezza dei rifugiati e richiedenti asilo presso il GDF (Gathering and Departure Facility) a Tripoli dopo che un edificio adiacente era stato colpito da tre colpi di mortaio.
Il GDF era stato istituito per ospitare i rifugiati che avrebbero dovuto essere evacuati e trasferiti fuori dalla Libia. Pensato per poche centinaia di persone oggi ne ospita più di mille, di cui novecento entrate spontaneamente da Luglio e, per ammissione delle Nazioni Unite, non funziona più come centro di transito ma è ormai di fatto un altro centro di detenzione.
Cavalieri è stato chiaro, e ha rotto l’inganno di credere che in Libia possa esistere un solo interlocutore per risolvere fenomeni così lucrativi come il business delle partenze e quello delle detenzioni.
Usa parole dure, limpide: “le milizie sono, di fatto, i nostri interlocutori”.
La catena che descrive il capo missione UNHCR è chiara: i responsabili dei centri sono funzionari del governo ma sono anche miliziani. Per entrare e lavorare è con loro che bisogna negoziare. E’ sotto gli occhi di tutti. E’ la norma, in Libia.
E il conflitto non ha fatto che aggravare questa situazione. Praticamente impossibile conoscere i numeri certi delle persone riportate a terra dalla Guardia Costiera libica, al punto da far ritenere alle Nazioni Unite che circa il 30-35 per cento delle persone riportate a terra siano abbandonate al loro destino. Che in Libia significa esporre uomini donne e bambini ad abusi e violenze.

[[ge:espresso:plus:articoli:1.343344:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/01/23/news/il-fallimento-di-berlino-1.343344]]Le domande senza risposta
Sono passati tre mesi dalla proposta di una negoziazione del testo del Memorandum. Nel frattempo il governo Sarraj, cofirmatario dell’accordo ha stretto un patto militare con la Turchia di Erdogan, gli Emirati sono nell’ultima settimana avrebbero effettuato decine di voli militari per sostenere Haftar, il processo negoziale di Berlino è fallito al punto che gli appuntamenti previsti a Ginevra sono slittati a data da destinarsi e l’UNHCR in quella stessa Camera dove D Maio e Lamorgese hanno annunciato un percorso atto a tutelare il rispetto dei diritti umani nei centri libici, ha affermato la impraticabilità all’azione umanitaria a Tripoli.

L’ultima notizia arriva stamattina dalle coste libiche: ieri navi dell’esercito turco avrebbero aiutato la Guardia Costiera Libica (sì, proprio quella finanziata e addestrata dall’Italia) a riportare a terra, a Tripoli, un’imbarcazione con decine di migranti.

Chi sono oggi i nostri interlocutori in Libia? E’ esistito e esiste un tavolo di negoziazione per modificare il Memorandum? Una volta ancora, aspettiamo risposte.