Inquietudine, ansia, paura. In Germania si vive l’annunciata uscita di scena della "ragazza dell'Est" come un salto nel buio. E tanti vogliono che cambi idea

Angela Merkel
Angela Merkel è molto brava con i numeri, questo si sa. «Ho semplicemente elaborato un modello di calcolo. A luglio avevamo 300 nuovi contagi, ora ne abbiamo 2400. Questo significa che in tre mesi le infezioni sono raddoppiate tre volte: da 300 a 600, da 600 a 1200, da 1200 a 2400. E se continuasse così, nei prossimi tre mesi si passerebbe da 2400 a 4800, da 4800 a 9600, a 19.200. Con questo volevo semplicemente sottolineare l’urgenza dell’azione». Et voilà. Ecco di nuovo la cancelliera-scienziata, la mamma di tutti i tedeschi, che spiega senz’ombra di pathos la chiave ineluttabile della guerra contro il coronavirus.

Parole scandite con sovrana tranquillità, la giacchetta del tailleur questa volta è bianca, il video come sempre virale come quello di un’influencer. E poi, dopo il suo discorso al Bundestag in cui parla di “società aperta e libera”, subito è la Cdu - certo, il suo partito - a twittare con entusiasmo: «È un bene che in tempi come questi Merkel sia la nostra cancelliera». Il riferimento è alla pandemia, ma non solo: ci sono di mezzo la svolta europea del Recovery Fund, praticamente una sua creatura, l’antagonismo certo non dissimulato verso l’uragano Trump, la complicatissima partita con la Cina di Xi Jinping, la difesa delle manifestanti in bianco e rosso di Minsk e la sfida a Putin, resa incandescente dall’avvelenamento del sommo dissidente Aleksei Navalny (non a caso - è lui ad esprimersi così - salvato a Berlino).

Il fatto è che la Germania Anno Domini 2020 segue la sua cancelliera. È da mesi che, sull’onda della pandemia, la sua popolarità veleggia intorno a un abnorme 80% dei consensi, mentre il blocco Cdu/Csu di cui è espressione arriva a sfiorare il 40%, più o meno sette punti più del 32,9% del 2017. Nella classifica “Deutschlandtrend” dei politici più apprezzati Merkel stacca di dieci punti il secondo arrivato, ossia il ministro alla Sanità Jens Spahn, e di venti punti il candidato socialdemocratico alla cancelleria Olaf Scholz. Raramente una nazione si è identificata con tanto trasporto in chi lo guida: lo dicono i sondaggi, lo dicono le chiacchiere da bar, lo dice la politica. Numeri fantascientifici ad altre latitudini, con la Germania del “Merkel IV” che sembra aver trovato una centralità globale impensabile solo pochi anni fa, quando il Paese rimaneva inchiodato all’aggettivo “riluttante” immancabilmente associato all’espressione “egemone” utilizzata per definire il colosso al centro dell’Europa.

L’ultimo paradosso tedesco è tutto lì: la cancelliera più amata e più riverita nel mondo tra un anno se ne va, lascia alla fine della legislatura. E immaginarsi la Germania senza Merkel è un salto nell’ignoto. La cancelliera appare insostituibile, e la sua mano ferma nella gestione della pandemia ha rafforzato questa immagine una volta di più. Thomas Schmid, editorialista ed ex direttore della Welt, quotidiano di riferimento del mondo conservatore, ricorre ad un paragone storico: «Quando Adenauer si dimise dopo 14 anni da cancelliere, nel 1963, su un giornale tedesco apparve una caricatura che mostrava un uomo anziano, con un berretto da notte in testa, il quale, aprendo le tende della sua camera da letto, esclama: “Incredibile, siamo già da otto giorni senza Adenauer, eppure il sole continua ancora a sorgere”. Ebbene, molti tedeschi si sentiranno nello stesso modo quando Merkel non sarà più cancelliera».

Così, da tempo corre sottotraccia l’ipotesi di un inusitato quinto mandato targato Merkel, nonostante lei abbia ripetuto fino allo sfinimento che non si ricandiderà. La domanda che si ripete in tutta la Germania, anche in ambiti culturalmente lontanissimi dalla cancelleria, è sintetizzata in maniera piuttosto efficace da un tweet dell’autrice tedesca di origini turche Sibel Schick: «Non sono una fan di Merkel. Ho semplicemente paura di quello che viene dopo. Perché certamente non sarà meglio, ma molto peggio».

Poi ci si sono i numeri. Numeri che passano di mano in mano a Berlino, dove si è incerti se prenderli con gioia o con terrore, e che dicono che l’addio della cancelliera aprirà una voragine: fino al 48% degli elettori della Cdu potrebbe votare un altro partito se Merkel dovesse davvero andarsene. Dice, inoltre, il rilevamento dell’istituto Forsa, che il 30% di chi vota cristiano-democratico potrebbe rivolgersi ai Verdi, il 19% all’Spd, il 18% ai liberali dell’Fpd e solo il 3% all’ultradestra dell’Afd. «Potenzialmente un terremoto», si va sussurrando in casa Cdu. Dove si sa benissimo che Merkel è il convitato di pietra delle prossime elezioni: perché se non si candiderà si tratterà di riempire una voragine, mentre se rimanesse in pista, lei che è al governo ininterrottamente dal 2005, si creerà un precedente mai visto in una democrazia occidentale avanzata.

«Però è evidente è con la sua statura globale e la sua popolarità rappresenterebbe un asso formidabile alle elezioni dell’autunno 2021», ci dice a microfoni spenti un deputato. Tutti a Berlino ti ripetono che il terremoto di cui sopra si presta a scenari del tutto impensabili neanche un anno fa, quando la cancelliera era ancora un’“anatra zoppa”. Costretta alle dimissioni da leader di una Cdu alla frenetica ricerca dell’identità perduta sotto i colpi della post-ideologia merkeliana che tanto piace agli elettori di ambito progressista: la “politica delle porte aperte” nella crisi dei migranti del 2015, prima ancora l’uscita dal nucleare, poi il matrimonio tra persone dello stesso sesso e infine l’inaudito Recovery Fund da 750 miliardi di euro per i Paesi più colpiti dalla pandemia, giunto a ristabilire nuovi standard nell’Ue dopo anni passati a stragiurare che mai e poi mai Berlino avrebbe accondisceso alla condivisione del debito.

La prima a lanciare il sasso nello stagno è stata la Bild, poi è stato il ministro all’Interno Horst Seehofer a evocare la possibilità che Merkel decida di restare al suo posto. Lo Handelsblatt è stato più esplicito: «Si sta avvicinando il quinto mandato», scriveva tempo fa il principale quotidiano economico tedesco, puntando il dito soprattutto sulla debolezza dei possibili successori. In effetti, si guarda con malcelata ansia al congresso della Cdu di inizio dicembre. Non solo perché il partito che fu di Adenauer e di Kohl sotto la coperta del merkelismo oggi appare lacerato, ma anche e soprattutto perché i tre candidati “ufficiali” alla leadership - il capo della corrente di destra Friedrich Merz, il governatore del Nord-Reno Vestfalia Armin Laschet e il presidente della Commissione Esteri Norbert Roettgen - scontano la somma delle loro debolezze, tanto che c’è persino chi arriva a temere una scissione. È che nessuno dei tre sembra in grado di risolvere il rompicapo delle alleanze dopo il voto federale dell’autunno 2021: la Spd - attualmente al governo con la Cdu nella Grosse Koalition - non riesce a riemergere dagli abissi dei sondaggi, che la inchiodano al 15%, mentre i Verdi di Robert Habeck e Annalena Baerbock, stando agli istituti demoscopici, sono ormai la seconda forza politica della Germania. Tanto che i più danno per scontata la loro alleanza con i cristiano-democratici, che sarebbe una primizia assoluta nella storia politica tedesca. Una Germania solidamente “nero-verde” al centro dell’Unione europea.

Una prospettiva, tuttavia, impossibile se a vincere dovesse essere l’iper-liberista Merz, già presidente del consiglio di vigilanza di BlackRock Germany, comunque abbastanza stridula sia con Laschet che con Roettgen. Paradossalmente, quello con le maggiori chances sarebbe il ministro alla Sanità Spahn, che tuttavia ha il piccolo difetto di non essere candidato. A bordo campo si muove poi il governatore della Baviera, Markus Söder, leader dell’Unione cristiano-sociale, il partito “fratello” della Cdu: astuto e con lo sguardo lungo, Söder da tempo ha mostrato sensibilità per le tematiche ambientali, ma la caratura storicamente più conservatrice della Csu rende più complicato un abbraccio con i Verdi 2.0 di Habeck & Baerbock. «Infatti io credo che Söder resterà in Baviera», commenta il socialdemocratico Matthias Machnig, considerato lo stratega dell’ultima grande vittoria elettorale dell’Spd, quella delle elezioni europee del 2014. Secondo Machnig, è proprio l’alleanza “nero-verde” l’esito più plausibile dell’autunno 2021: «Tutt’e due i partiti vogliono questa coalizione. La disposizione d’animo a realizzarla va ben oltre le persone, anche se deve essere chiaro che si dovranno fare dei compromessi», mentre una riedizione della Grosse Koalition «non è più considerata un’opzione realistica». Impensabili accordi con l’Afd, dilaniata e schiacciata ai margini finanche dalla pandemia, o con la sinistra della Linke, esili le prospettive dei liberali, che con il loro 5% potrebbero persino rimanere esclusi dal Bundestag. In effetti, la garante perfetta per un’alleanza nero-verde porta il nome di Angela Merkel, la “Klimakanzlerin” che decise l’uscita dal nucleare, colei che non ci pensa due volte a ricevere Greta Thunberg quando l’icona svedese si trova a Berlino.

«Io escludo che si ricandiderà», ribatte invece Ralph Bollmann, giornalista del domenicale della Frankfurter Allgemeine nonché acclamato biografo dell’ex “ragazza dell’est” con il suo “La tedesca: Angela Merkel e noi”. «Già all’altro giro voleva smettere, poi è rimasta a causa dell’elezione di Trump, scelta di cui si è pentita mille volte prima del virus». A meno che, ammette lo stesso Bollmann, «una maggioranza chiara non ci sia e si riveli molto difficile la formazione di un nuovo governo: allora Merkel si troverebbe nelle condizioni di restare in Cancelleria, almeno fino a elezioni anticipate».

Il punto è che la figlia del pastore Kasner non solo ha abituato la Germania e il mondo a improvvise svolte inattese, ma anche mostrato spesso di avere la stoffa dell’araba fenice. Jeremy Cliffe, reporter del New Statesman e uno dei più acuti osservatori di cose tedesche, si è divertito a mettere insieme un po’ di vecchi titoli della stampa internazionale: “È in vista la fine dell’era Merkel”, sostiene il Financial Times nel 2015. “Arriva la fine dell’era Merkel”, echeggia il New York Times nel 2016. “La lunga e dolorosa fine di Angela”, è il verdetto di Politico nel 2018. Oggi la storia è tutta un’altra. «La tormentata Germania del 2005 sarebbe diventata la Germania più aperta e consapevole del 2020 senza di lei? Sospetto di no», sibila su Twitter Cliffe, secondo il quale la possibilità che Merkel si ricandidi «è del 10% se Trump dovesse vincere il voto americano». Ancora ipotesi da Sudoku globale, ancora una battaglia di numeri. Pane per i denti della scienziata di nome Angela.