La lotta violenta tra i partiti impedisce al paese di affrontare la pandemia, soffoca la ripresa economica e mette in crisi un sistema già fragile. Il calo del Pil sarà il peggiore d’Europa. Mentre il governo non riesce a fare la legge di bilancio
Bastava scorrere Twitter il 12 ottobre, giorno della festa nazionale, per capire la profonda frattura politica che sta lacerando la Spagna, le sue istituzioni e i suoi cittadini a poco più di 40 anni dall’uscita della dittatura. «Una Spagna solidale, aperta, plurale, che avanza senza lasciare indietro nessuno», twittava il primo ministro progressista Pedro Sánchez. «Una Spagna universale, la nazione di tutti gli spagnoli di entrambi gli emisferi, uniti nei secoli dalla storia e dai valori», twittava invece Isabel Diaz Ayuso, presidentessa conservatrice di Madrid e seconda carica più importante del Paese: «Madrid è la Capitale, è libertà e monarchia».
Ed è proprio nella capitale, snodo del potere, che lo scontro politico tra socialisti e conservatori ha potuto nutrirsi della seconda ondata del Covid e raggiungere intensità inedite. Benché sia la città più malata d’Europa, con 10 mila morti registrati e 267 mila contagiati, una media di cinque mila al giorno, Ayuso non vuole saperne di limitare circolazione e commerci, non solo per cercare di evitare un tracollo economico ma soprattutto per opporsi a qualsiasi idea del governo, e assurgere a paladina della linea radicale dei conservatori. La pandemia come arma di lotta anziché occasione di cooperazione nell’interesse pubblico. «Madrid è assediata dalle stesse forze che negli ultimi dieci anni hanno distrutto molte possibilità e molte vite in America Iberica» ha rivendicato in un’intervista al quotidiano ABC, accusando Sánchez e il suo alleato di governo, Pablo Iglesias, di volere trasformare il Paese in un luogo in cui una sola forma di pensiero è autorizzata.
Madrid è sineddoche della Spagna intera: centro nevralgico di quella lotta che ha le radici nella guerra civile ma che da dieci anni - con la fine del bipartitismo, la crisi di una monarchia infangata dalla corruzione dell’ex re Juan Carlos, i tonfi dell’economia e le pulsioni indipendentiste della Catalogna - ha preso a radicalizzare gli animi e a paralizzare il funzionamento del Paese, impedendo la ricerca di un compromesso indispensabile al vivere comune nazionale.
«Il nostro Paese è più diviso dai conflitti del passato che altri Paesi con traumi molto più recenti», spiegano in un rapporto recente finanziato dalla Commissione europea Irene Martin, Marta Paradés e Ricardo Dacosta. A stare ai dati raccolti, quasi metà dei votanti di destra non sono ancora sicuri di volere una riconciliazione nazionale, a differenza di un dieci-venti per cento della sinistra. Questa reticenza ad abbracciare il pluralismo democratico si esprime in una lotta senza quartiere: «Sono disposti a a sabotare ciò che beneficia la maggioranza pur di fare danno agli avversari», scrive nel quotidiano progressista “El Pais” lo scrittore Antonio Muñoz Molina, a costringere il Paese a un susseguirsi di elezioni pur di non concedere nulla al nemico, di non scendere mai a patti, di trascinare davanti al tribunale supremo qualsiasi questione, rendendo il governo e le sue azioni continuamente ostaggio della magistratura. «Il potere giudiziario, la Corona e la Costituzione del 1978 sono gli unici tre elementi che si interpongono in questo attacco a Madrid», dice fiera Ayuso in un’intervista al quotidiano conservatore “El Mundo”, riferendosi al ricorso allo stato di emergenza da parte del governo per imporre misure sanitarie nella capitale.
Il Tribunale supremo è dai tempi di José María Aznar, primo ministro tra il 1996 e il 2004, che ha una maggioranza di destra tra i suoi 21 giudici, nonostante un ventennio di alternanza di governi di destra e di sinistra. «I popolari quando vincono rinnovano i giudici, che avrebbero un mandato di cinque anni, ma quando perdono, per mantenere il potere giudiziario, bloccano l’elezione dei loro successori», spiega Nachos Escolar, direttore del “Diario”: «Quello attuale è il terzo blocco dopo quello del 1995 e del 2006 ai tempi del (premier) Zapatero». Lo possono fare perché l’elezione dei giudici è possibile solo con una maggioranza dei tre quinti sia nel Congresso sia nel Senato, e nessun partito può ottenere da solo quella maggioranza. I giudici attuali sono in carica da sette anni, due anni oltre la scadenza, proprio a causa della riluttanza dei popolari di consentire al governo di sinistra la scelta dei nuovi giudici. A rischio sarebbe il monopolio sull’ultima parola di ogni causa, dalle decisioni della giunta catalana a quelle del governo sulle misure anti-Covid. «Con grave ritardo la sinistra ha capito l’importanza del Tribunale supremo e si sta attivando», continua Escolar. Il 13 ottobre Sánchez ha proposto la riforma della legge sulla nomina dei giudici: se non verrà raggiunta in aula la maggioranza qualificata, in futuro basterà la maggioranza semplice.
Non sarà l’unica riforma giudiziaria a cui il partito socialista intende mettere mano prima di Natale per non perdere la guida del Paese. A fine settembre il Tribunale supremo aveva inabilitato il presidente catalano Quim Torra per essersi rifiutato due anni fa, in piena campagna elettorale, di togliere uno striscione che diceva “Liberate i prigionieri politici e gli esuli”. Si riferiva alle sentenze comminate dalla magistratura ai leader indipendentisti che avevano orchestrato illegalmente il referendum sull’indipendenza catalana il primo ottobre 2017. In carcere erano finiti in otto, tra cui l’ex vice presidente Oriol Junqueras, condannato a 13 anni, mentre l’ex presidente della regione, Carlos Puigdemont, era fuggito in esilio in Belgio. Giudicata illegale dalla Corte di giustizia europea, in quanto l’elezione di Junqueras all’Europarlamento nel 2018 gli avrebbe dovuto garantire l’immunità, la carcerazione per sedizione ha scatenato profonde polemiche in tutto il Paese, non solo tra indipendentisti e nazionalisti ma anche tra monarchici - secondo gli ultimi sondaggi in minoranza nel Paese - e repubblicani. Non aveva aiutato la dura presa di posizione del re Felipe VI contro i leader indipendentisti, al posto di una mediazione, particolare che ha scatenato le ire di Iglesias, forte oppositore della monarchia.
Per uscire da una situazione scomoda a livello europeo - la detenzione di prigionieri politici non rientra nei canoni della Ue - Sánchez ha considerato l’indulto. Ma siccome dovrebbe passare per le forche caudine del Tribunale supremo che, ancora a guida conservatrice, non lo permetterebbe mai, e non è visto di buon occhio da due terzi dei cittadini, si sta orientando per un cambio del codice penale, un’operazione che richiederebbe solo l’approvazione del Congresso tramite maggioranza, assicurata, in questo caso, dai partiti indipendentisti. Con la giustificazione di dover portare il codice penale in linea con quello degli altri Paesi europei, le pene per sedizione potrebbero scendere da 13 a due o tre anni, così che i prigionieri politici sarebbero automaticamente scarcerati senza causare ulteriori lacerazioni sociali e senza mettere a rischio l’approvazione del bilancio annuale.
In questa Spagna in bianco e nero, in cui nessuno prova a tingersi di grigio, perfino il bilancio dello Stato è oggetto di veti, ritorsioni e rifiuti, e da due anni non è aggiornato. La grande manovra super partes, in questo momento difficile per l’economia europea più colpita dal virus, non sembra essere un’opzione. Se i socialisti aprissero ai popolari perderebbero l’appoggio sia dell’alleato di governo Podemos, con cui hanno un’intesa ideologicamente fragile, sia degli indipendentisti catalani, che però usano il budget come arma di ricatto per ottenere la scarcerazione dei prigionieri politici. Anche i popolari non hanno intenzione di dare una mano per il bene comune: l’economia è diventata la testa d’ariete della loro opposizione. «Stiamo assistendo al discredito dei partiti che stanno compromettendo la qualità della futura ripresa economica», dice Emilio Ontiveras, fondatore di Analistas financieros internacionales: «L’opposizione non dovrebbe sprecare questa opportunità del Recovery fund europeo per modernizzare l’economia. Anzi dovrebbe usarla per sedurre la Catalogna, che si ritroverebbe ad essere motore di un’economia nuova. Questo non vuol dire rinunciare al turismo ma renderlo di maggiore qualità, investendo e digitalizzando».
Negli ultimi giorni si sta delineando una via di uscita. Da una parte la riforma del Codice penale garantirebbe al governo la fedeltà degli indipendentisti sui piani di ripresa economica, dall’altra anche i liberali di Ciudadanos, guidati da Inés Arrimadas, potrebbero decidere di appoggiare il governo, rompendo con lo schieramento di destra dei popolari e di Vox. «È un budget facile, keynesiano, senza misure di austerità», nota Ontiveras: «Non dovrebbero esserci obiezioni da parte di nessuno, nemmeno di Podemos». Tanto più che Ciudadanos, il partito creato da Albert Rivera con l’ambizione (frustrata nelle urne) di sostituirsi al partito popolare, sta ora esplorando, con l’eventuale appoggio alla manovra, un tentativo di alleanza con la sinistra. «Potrebbe essere la scelta del futuro, visto che, a conti fatti, nel breve termine sarà difficile che il partito popolare torni al governo», nota Escolar: una buona parte dei suoi voti sono stati sottratti da Vox, partito di estrema destra, nostalgico della dittatura, con cui nessuno vuole avere niente a che spartire.
La parola d’ordine è ormai fare in fretta. L’arrivo dell’inverno aggrava la crisi sanitaria e, con essa, quelle economica e sociale. Il Fondo monetario internazionale ha previsto un calo del Pil del 12,8 per cento, il peggiore d’Europa, con un tasso di disoccupazione che sfiora il 17 per cento. La guerra politica combattuta sulle macerie di una sanità traballante rischia di annullare i progressi di mezzo secolo di democrazia.