Il 13 marzo la ragazza è stata uccisa da un poliziotto. Non accusato di omicidio, ma di negligenza. Le proteste infiammano la città di Louisville da allora. Tra coprifuoco e proiettili al peperoncino. Ce lo racconta un’infermiera che le vive ogni giorno

Le assi di legno sbarrano molte finestre nel centro di Louisville. Le vetrine dei negozi non vedono la luce da settimane. I commercianti temono che gli scontri con la polizia possano distruggere gli sforzi di una vita intera. Jenni è un’infermiera, ha 30 anni e vive in quella che è la città più grande del Kentucky e la 29esima più popolosa degli Stati Uniti d’America.

Anche Breonna viveva qui, finché il 13 marzo la polizia non l’ha uccisa durante una retata antidroga. Anche lei faceva l’infermiera. «Ero a New York quando le hanno sparato - racconta Jenni, che lavora nel reparto di terapia intensiva in un ospedale di Louisville. Durante l’emergenza sanitaria ha viaggiato molto per dare una mano in altre cliniche: «Ho vissuto a New York per 4 mesi, poi sono stata in Texas per tre settimane». La morte di Breonna l’ha scioccata: «Avrei potuto essere io. O chiunque dei miei colleghi. Abitava in un quartiere tranquillo nel sud della città, non molto distante da casa mia». E aveva solo 26 anni. «All’inizio i poliziotti la stavano facendo passare come una retata finita male, nulla di diverso dalla solita routine».

Quella sera tre agenti in borghese cercavano l’ex fidanzato di Breonna, Jamarcus Glover. Lui, spacciatore, utilizzava ancora il suo vecchio indirizzo per farsi arrivare la posta. L’avevano avvistato in quell’appartamento tra gennaio e febbraio, più di un mese prima del raid. Il primo problema di quella sera, come mi spiega Jenni e come riporta il giornale locale Courier, è che «Gli agenti hanno eseguito un mandato “no-knock”, cioè senza annunciarsi e senza preavviso. Hanno iniziato a bussare violentemente. Quando Breonna e il suo fidanzato Kenneth Walker hanno chiesto chi ci fosse dietro quei colpi alla porta, non hanno risposto». L’hanno buttata giù con un ariete e poi Kenneth ha sparato, non sapeva fossero poliziotti. Ha colpito l’agente Jonathan Mattingly a una coscia. E Brett Hankison ha iniziato a fare fuoco alla cieca, da fuori, uccidendo Breonna.

Le proteste a Louisville si sono infuocate quando una giuria del Kentucky ha deciso di incriminare solo lui per condotta negligente e pericolosa. E non per aver ucciso Breonna, ma per aver messo in pericolo il vicinato. Jenni spiega che «Qui la legge ti tutela se spari a qualcuno che si introduce in casa tua. Kenneth deteneva la pistola legalmente e ha esploso un colpo per legittima difesa».

Breonna, stesa a terra dopo aver ricevuto 5 colpi d’arma da fuoco, è morta da sola e senza giustizia. Kenneth, che stringeva il suo corpo ancora caldo nel corridoio perforato dai proiettili, ha solo avuto il tempo di telefonare al 911, mentre da fuori gli intimavano di uscire al grido di “Cop killer”. «L’altro problema di tutta questa vicenda è che gli agenti hanno chiamato un’ambulanza per Mattingly, ma non per Breonna. Il suo corpo è rimasto nell’appartamento fino al mattino dopo». Ma la sparatoria è avvenuta a mezzanotte e mezza. I soccorsi chiamati da Kenneth sono arrivati quando lei era già morta.

Grazie alle continue proteste in suo nome, l’11 giugno i funzionari di Louisville hanno reso illegale l'uso del no-knock warrant. «L’unico errore di Breonna è stato frequentare una persona sbagliata, ma questo non fa di lei una spacciatrice di droga. Gli americani che supportano questa tesi sono gli stessi che manifestano contro il movimento Black Lives Matter, difendono la polizia e non credono al coronavirus». Jenni aggiunge che sta diventando sempre più facile fare il poliziotto: «Non serve un diploma e neanche una laurea. Il periodo di formazione è molto breve e questo ti spinge a fidarti sempre meno del sistema». Secondo Cbs News, per diventare un agente di polizia negli Stati Uniti bastano da un minimo di 10 a un massimo di 36 settimane. «Qualche giorno fa, durante il coprifuoco varato dal sindaco Greg Fisher, stavo tornando a casa ed ero quasi oltre il limite concesso per stare fuori. Vedevo i poliziotti già appostati per strada e pronti a intervenire». L’obbligo è durato cinque giorni, dalle 9 di sera alle 6 e mezza di mattina, per evitare altri possibili scontri. Che a marzo, subito dopo la morte di Breonna, erano molto più violenti.

«Gli agenti usavano proiettili al peperoncino, i pepper bullets. I manifestanti si erano trasferiti con le tende a Jefferson Square, finché una sera un fotografo di 27 anni è stato ucciso da un civile che manifestava contro il Black Lives Matter». Jenni ha assistito alla sparatoria in una Facebook live: «Potevo vedere chiaramente quel ragazzo che sanguinava». Da lì in avanti hanno vietato gli accampamenti nella piazza, che nel frattempo è stata rinominata Justice Square. Quando si trovava a New York, in un ospedale di Brooklyn, Jenni ha preso parte ad una protesta pacifica: «Ci siamo inginocchiati per strada in onore di George Floyd. In silenzio, per 8 minuti e 46 secondi: come l’agente Derek Chauvin, quando l’ha soffocato. Poi quest’estate ho dato il mio supporto ad alcuni manifestanti qui a Louisville, portando provviste nel presidio medico sanitario».

In trent’anni a Louisville non aveva mai vissuto un periodo così turbolento. «Le statistiche dicono che gli afroamericani vengono fermati molto più spesso di noi bianchi, è un dato di fatto. L’America ora ha raggiunto il limite e pretende giustizia. La morte di Breonna è stata “the straw that broke the camel's back”». Da noi diciamo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.