I ricorsi di Donald Trump, un partito e una base sociale per niente uniti, la sinistra radicale che vuole contare di più. Dopo quattro anni di populismo al potere il nuovo inquilino della Casa Bianca deve affrontare sfide ardue

Joe Biden
Quando il prossimo 20 gennaio giurerà sulla Bibbia davanti al Campidoglio di Washington il nuovo presidente si troverà di fronte un’America ancora più divisa di prima. L’unico messaggio veramente chiaro uscito dall’Election Night del 3 novembre e dai complicati giorni successivi - quelli che hanno visto Donald Trump alla testa di un’armata di avvocati nel tentativo di bloccare la scelta del popolo americano - è che il solco che si è creato tra l’America blu (il colore dei democratici) e quella rossa (repubblicana) è più profondo che mai. Il responso del voto popolare, che assegna a Joe “Sleepy” Biden (il copyright sul candidato “dormiglione” è del presidente uscente) oltre tre milioni in più del suo avversario nella sfida che ha portato alle urne 160 milioni di americani (un record assoluto nella storia degli States), non lascia dubbi: l’America del partito di Roosevelt, Kennedy, Clinton e Obama è maggioritaria per la settima volta nelle ultime otto elezioni presidenziali, sequenza che nessun partito era mai riuscito ad ottenere da quando (era il 1828) la vita politica degli Stati Uniti si fonda su un sistema di due grandi partiti-coalizione.

Quando dodici anni fa Joe Biden entrò alla Casa Bianca come primo vassallo di Barack Obama, fu grazie ad un elettorato che - spinto da quello che sarebbe diventato il primo presidente afro-americano - era marcato, oltre che dall’entusiasmo per la “Hope” del senatore di Chicago, da una netta divisione razziale e generazionale. Allora furono i giovani dei college e gli afro-americani a fare da traino - prima nelle primarie contro Hillary Clinton, poi nella sfida finale contro il senatore repubblicano John McCain (diventato ai tempi di The Donald emblema del conservatorismo moderato ed onesto) - a un elettorato dove gli operai bianchi della Rust Belt erano ancora saldamente ancorati agli ideali del “New Deal”, oggi, a soli dodici anni di distanza, tutto appare mutato.

Analisi
"Joe Biden è presidente, ma i democratici hanno comunque perso di nuovo"
6/11/2020
Nel 2016 il terremoto The Donald, che nessuno (forse neanche lui) aveva previsto, ha cambiato tutte le carte in tavola
. Quello che restava di una classe operaia, un tempo elitaria e quattro anni fa penalizzata dalla crisi economica, cambiò all’improvviso di campo, creando le premesse per una delle più grandi sorprese elettorali della storia americana. In queste anomale e complicate elezioni del 2020, anno che negli Stati Uniti è stato segnato oltre che dalla pandemia (240mila morti e quasi dieci milioni di contagiati) da un movimento anti-razzista mai così vasto dalle grandi marce degli anni Sessanta, la “Constituency”, l’alleanza eterogenea che ha spinto Biden alle soglie della Casa Bianca è ancora diversa.

I risultati elettorali ci danno alcune indicazioni di fondo. Donald Trump ha guadagnato terreno (cosa che i sondaggi non avevano rilevato) nell’elettorato afro-americano e soprattutto in quello ispanico. Non solo la Florida, dove ha potuto contare sulla comunità cubano-americana impaurita dall’arrivo del “socialismo” anche negli Stati Uniti (in questo la narrazione di The Donald che ha messo Biden sullo stesso piano di Sanders o della pasionaria del Bronx Alexandria Ocasio-Cortez ha colpito il segno), ma anche in alcuni Stati di frontiera dove i penultimi arrivati (tra i latinos), non vogliono gli ultimi. Biden ha invece guadagnato tra gli elettori bianchi non laureati (cosa che gli ha permesso di riconquistare gli Stati operai della Rust Belt, tra le donne dei sobborghi della middle class benestante e tra i giovani. Giovani, occorre sottolineare, di ogni ceto sociale e di ogni razza, a dimostrazione del fatto che il grande movimento anti-razzista della primavera e dell’estate ha avuto anche un ruolo elettorale.
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Se Trump nel 2016 aveva vinto grazie a circa 80mila voti divisi tra Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, Biden li ha conquistati con poca differenza di più. Un elemento che il partito democratico non deve sottovalutare, in previsione del prossimo appuntamento elettorale (le elezioni di Mid Term del 2022) e dell’inevitabile scontro che si avrà all’interno del partito democratico tra i moderati e l’ala radicale - quella capeggiata da Sanders, Elizabeth Warren e dalle giovani deputate al Congresso della cosiddetta “Squad”. Della coalizione di Obama, quella che aveva messo i giovani, i neri, le varie minoranze sociali e culturali insieme alla classe operaia bianca e che aveva permesso al primo presidente afro-americano di conquistare l’intero Midwest del nord compresi Stati come l’Iowa, l’Indiana e l’Ohio (oggi tutti trumpisti) Joe Biden e Kamala Harris non trovano quasi più niente. I quattro anni di The Donald hanno rivoluzionato la società americana molto più a fondo di quanto i vertici democratici avevano pensato. Il populismo diffuso, il rifiuto delle regole - anche quelle più basilari della democrazia - e le aperte rivendicazioni (anche violente) del suprematismo bianco sono oggi un dato di fatto che non sarà possibile cancellare con un tratto di penna.

Quella del 3 novembre è una vittoria dimezzata che offre adesso il fianco alla sinistra radicale, che vuole contare sempre di più sia nei vertici di partito (in primo luogo al Congresso) sia nel dettare l’agenda su temi come quello del cambiamento climatico, della riforma delle forze di polizia, della diffusione di armi da guerra e soprattutto della diseguaglianza economica. Dipenderà molto dal modo in cui Biden, se le battaglie legali in corso lo confermeranno come nuovo presidente, seglierà le donne e gli uomini della nuova amministrazione.

L’ala “radical” preme per avere un posto di rilievo per Elizabeth Warren, possibilmente al ministero del Tesoro, richiesta che per i “liberal” più moderati è ritenuta inaccettabile. Alcuni dati ci possono aiutare a capire meglio la nuova coalizione su cui Biden può fare affidamento. Prima di tutto quello di genere. Nel 2008 Obama ha guadagnato tra le donne e si è diviso l’elettorato maschile con McCain (49 a 48 per cento). Nella rielezione per il secondo mandato (2012) il divario ha iniziato ad aumentare, con Obama che ha ottenuto un +11 nell’elettorato femminile e il repubblicano Mitt Romney che tra quello maschile ha ottenuto un +7. Nel 2016 Hillary Clinton ha aumentato ancora i consensi tra le donne (+13 per cento) e Trump tra gli uomini (+11). In questi quattro anni il divario ha continuato a crescere, tanto che nel 2018 (Mid Term) le donne che hanno votato democratico erano arrivate a un +19 per cento.

Usa
La metamorfosi di Joe Biden
26/10/2020
A pochi giorni da un voto contestato e che vede ancora in campo centinaia di avvocati i dati sul voto per genere, razza, strati sociali e di età è ancora piuttosto incompleto, ma le tendenze sono abbastanza chiare. Il partito democratico è sempre più forte nelle aree urbane e sempre più debole in quelle rurali. Aumenta i consensi tra le donne e i giovani, ma perde ancora tra gli uomini, non solo bianchi ma anche neri e latinos. Se tra le donne ispaniche ha un 37 per cento in più, tra gli uomini questo vantaggio si riduce al 7 per cento. Se Obama aveva vinto il 95 per cento dei voti afro-americani, Biden si è fermato al 78 per cento. E solo il 36 per cento degli uomini ha detto che nominare una donna nera come vice-presidente è stata una buona idea, cifra che sale al 64 per cento nell’elettorato femminile. La vera sorpresa quest’anno è stata quella degli elettori più anziani, che nel 2016 erano stati fondamentali per la vittoria di Trump ma che adesso - probabilmente complice la cattiva gestione della pandemia da parte del presidente uscente - hanno dato molti consensi al candidato democratico. Tanto che secondo uno studio della Brookings Institution sarebbero stati determinanti per fare vincere Biden.

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Usa 2020, i nuovi eletti al Congresso sono il simbolo di un Paese mai così diviso
6/11/2020
Biden e con lui Kamala Harris dovranno anche fare i conti con i deludenti risultati ottenuti dai democratici alla Camera e al Senato. Nonostante una raccolta di fondi record, candidati democratici come Jaime Harrison nella South Carolina, Theresa Greenfield nell’Iowa e Steve Bullock nel Montana sono stati sconfitti nettamente. Susan Collins, veterana repubblicana del Maine che secondo gli strateghi democratici avrebbe pagato il prezzo di aver votato troppo spesso a favore di Trump, ha invece rivinto comodamente il seggio di uno Stato a maggioranza democratica. La delusione al Senato porta come prima conseguenza l’impossibilità per i democratici di influire o cambiare la composizione di una Corte Suprema che grazie ai tre giudici nominati da Trump nel suo primo mandato ha ora una maggioranza conservatrice inattaccabile. Con questa Corte Biden e i democratici dovranno fare i conti su temi come quello della riforma sanitaria e dell’aborto che il partito non è evidentemente riuscito a rendere argomenti elettorali vincenti.

Altro elemento da tenere presente, perché rappresenta una modifica importante rispetto alle tradizioni cui ci ha abituato la politica americana è quello della radicalizzazione degli schieramenti per cui - fatte salve pochissime eccezioni - chi vota per il candidato alla Casa Bianca del proprio partito poi vota in sequenza anche i senatori, i Governatori, i deputati. Qualche commentatore ha azzardato l’ipotesi che attraverso le elezioni il sistema politico americano stia diventando quasi-parlamentare, con i partiti che contano più dei singoli uomini (o donne) dividendo l’America in due mondi praticamente inconciliabili.