Nessuno come la Cancelliera ha rappresentato l’opposto di Trump. E mai, dal Dopoguerra ad oggi, i rapporti tra Stati Uniti e Germania erano stati così conflittuali. Ma ora tutto cambia

Angela Merkel
Angela Merkel è la maestra dei silenzi. Eppure parla per quattro minuti, dal podio, per comunicare al mondo che Donald Trump è il passato: ma lo fa senza nominare, neanche una volta, l’uomo ancora asserragliato nella Casa Bianca. In compenso la Cancelliera trasuda entusiasmo per l’elezione di Joe Biden, «che conosce bene la Germania e l’Europa, ricordo con piacere le nostre ottime conversazioni». Non manca di aggiungere - nel videomessaggio diffuso significativamente il 9 novembre, anniversario della caduta del Muro di Berlino - che «non vede l’ora» di incontrare Kamala Harris, la cui ascesa alla vicepresidenza «è un’ispirazione per molte donne».

Difficile trovare a Berlino qualcuno che la pensi diversamente: non ha vinto solo Joe, ha vinto anche Merkel. Le parole del Presidente eletto sul clima, sulla “pacificazione” dell’America, sull’inizio di un nuovo dialogo con il resto del mondo, sono balsamo per le tormentate anime tedesche.

Non è solo una questione politica: è antropologica, psicologica, culturale. Il fatto è che sin dal primo incontro ufficiale con l’ex tycoon, nel marzo 2017 - quello in cui lui si rifiutò di stringerle la mano, mentre faceva il giro del mondo la foto dello sguardo sconcertato di lei - nessuno come la Cancelliera ha rappresentato l’opposto di Donald Trump. Nonché a tutto il corollario di machismo, negazionismo pandemico, narcisismo e bullismo istituzionale che il trumpismo e il sovranismo europeo si sono portati dietro. E mai, dal Dopoguerra ad oggi, i rapporti tra Stati Uniti e Germania erano stati così conflittuali, neanche ai tempi del dissidio sulla guerra in Iraq, con Bush padre. Praticamente un “corpo a corpo” transatlantico senza cedimenti su tutti i principali dossier, puntellato da una sequenza infinita di schiaffi istituzionali e politici che l’amministrazione Trump e il governo Merkel si sono tirati a vicenda. Culminati, a inizio estate, con il rifiuto della Cancelliera di partecipare ad un vertice G7 da tenere in pompa magna a Washington. L’idea di Trump era quella di un vertice “in presenza”, come segno di normalizzazione di fronte alla pandemia. Merkel la considerò propaganda pura e rispose picche. In rapida sequenza arrivarono i rifiuti degli altri leader mondiali, Emmanuel Macron in testa. Per capirsi: all’epoca “Politico” riferì di un «Trump furioso», citando anche «un alto funzionario Usa» che a condizione di anonimato rivelò che il capo della Casa Bianca e la Cancelliera avevano avuto «accesi contrasti» nel corso di un raro colloquio telefonico. Com’è come non è: non molto tempo dopo il njet merkeliano, arriva l’annuncio del ritiro di 12 mila soldati americani dalle basi Nato in Germania. Ripicca, ma non solo: per gli Usa di Trump il ruolo della Germania è troppo ingombrante. Su troppi dossier Berlino mette bocca, dai rapporti con Mosca al nucleare iraniano, dal rispetto dei contrappesi internazionali alle relazioni con Pechino.

Nel loro primo incontro, quello del 2017 - al quale lei si preparò, puntigliosa com’è, leggendo perfino un vecchio Playboy del 1990 con un’intervista a Trump - «per ben 11 volte», così scrive il “Times”, la Cancelliera aveva dovuto spiegare al presidente che è impossibile fare un accordo commerciale esclusivo con Berlino: «Ogni volta Merkel gli ha dovuto rappresentare che non può realizzare un’intesa con la Germania, ma solo con l’Unione europea». Ai suoi stessi ministri la Cancelliera avrebbe poi raccontato che a Trump «mancano i fondamentali» per quello che concerne il libero scambio e il funzionamento della Ue. Più recentemente, l’oramai ex ambasciatore Usa Richard Grenell - ultrà trumpiano oggi in prima fila a dimostrare la tesi delle frodi elettorali - arrivò a minacciare la fine ad ogni collaborazione dei servizi segreti Usa con quelli tedeschi se Berlino non avesse escluso la cinese Huawei dalla realizzazione della rete 5G. «Li definiamo da soli i nostri standard di sicurezza», sibilò glaciale la cancelliera.

La “Frankfurter Allgemeine”, quotidiano della borghesia tedesca, riassume così il passato trumpiano: «Lei prende molto sul serio la pandemia, lui la minimizza. Il riscaldamento terrestre comporta obblighi, Trump si ritira dall’accordo di Parigi. E per quanto riguarda il terrorismo internazionale, mentre il presidente Usa punta sulle forze di polizia e sui muri, Merkel affronta il problema con la cooperazione». Si può aggiungere, agevolmente, che sulla migrazione lei è quella della “politica delle porte aperte”, lui quello del Muro con il Messico, e che i sovranisti di ogni latitudine si sono fatti sospingere dal trumpismo, mentre il merkelismo nutrito di cifre e appelli al principio fondante di responsabilità ne è stato uno dei principali antidoti.

Ora a Berlino si scommette sulla svolta. Un fedelissimo della cancelliera come il ministro all’Economia Peter Altmaier diffonde una pioggia di tweet per dire che l’elezione di Biden «ha scatenato enorme sollievo e gioia negli Usa, in Germania e intorno al globo», mentre il responsabile degli Esteri Heiko Maas vagheggia una versione 4.0 del New Deal rooseveltiano, ossia una nuova «alleanza del multilateralismo». Merkel - che con Biden si trova dinnanzi il quarto presidente Usa da quando lei è al governo - celebra la sua vendetta tendendo la mano come forse non aveva mai fatto. Tra le lotte da condurre insieme agli Usa - dice la Cancelliera nel discorso che qualcuno ha scherzosamente definito di “investitura” a Biden - vi sono quelle «per un’economia mondiale aperta e il libero scambio». Traduzione: la cancelliera apre sul commercio, persino sulle spese militari in seno alla Nato, citando quasi dispettosamente quelli che erano dei tormentoni dell’amministrazione Trump. Da notare che parla anche a nome dell’Europa: per l’Ue e gli Usa le «sfide gigantesche» del presente vanno combattute «fianco a fianco», a cominciare da quelle sul clima.

Qualcuno rievoca i bei vecchi tempi di Obama: non solo la cancelliera fu onorata con la “Medal of Freedom”, ma soprattutto si narra che fu lui a convincerla a ricandidarsi nel 2017, chiedendole di fare da argine all’uragano trumpiano che in quel momento viaggiava all’unisono all’ascesa dei sovranismi europei, dall’Afd in Germania all’Fpö austriaca di Heinz-Christian Strache, passando dalla sempiterna Marine Le Pen in Francia fino all’Ungheria di Orban. Oggi il panorama è cambiato, e giornali tedeschi amplificano la convinzione che Washington guarderà più all’Europa che alla Gran Bretagna lacerata dalla Brexit. Uno scenario che vede d’accordo l’ex premier britannico John Major: secondo il quale, dopo il voto «improvvisamente non siamo più il ponte insostituibile tra l’Europa e l’America». Sottinteso: ormai è un ruolo che spetta alla Germania. Parafrasando la celebre frase di Henry Kissinger, se c’è un numero che Biden comporrà per parlare con l’Europa, il telefono squillerà nel grande ufficio dalle ampie vetrate del Kanzleramt di Berlino. Almeno fino all’anno prossimo, quando si voterà anche in Germania e Merkel - in teoria - si ritirerà a vita privata. A quel punto si giocherà tutta un’altra partita. Sulla quale la Cancelliera, guarda un po’, continua a tacere. Rumorosamente.