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Quel pomeriggio Mirna aveva appena finito di studiare quando si è resa conto di aver finito il latte per il suo bambino, Christian, di un anno e mezzo. L’ha sistemato sul seggiolino della macchina e si è diretta alla farmacia di Mar Mikael, poco distante da casa sua. «Ero al centro della strada quando ho guardato alla mia destra e ho visto l’esplosione. Ho pensato: è una bomba».
Dei minuti successivi ricorda solo che suo figlio era coperto di sangue e vetri, come lei e che temeva sarebbero morti. Quando è uscita dall’auto ha camminato su corpi senza vita, intorno a lei sangue, fumo e vetri. L’onda d’urto aveva spostato il veicolo di cinquanta metri.
«Sentivo solo una pressione addosso e i vetri che mi tagliavano le mani e gli occhi».
Poi la corsa all’ospedale, le preghiere per Chris e un’infermiera che le dice: «Si copra il volto, così spaventa le persone».
Mirna non capiva, e non ha capito finché non si è guardata allo specchio. I vetri le avevano tagliato a metà l’occhio destro.
Di lì a pochi giorni avrebbe perso la vista, per sempre «ora, se guardo a destra, è tutto solo bianco».
Trent’anni fa, quando era una bambina anche suo padre, che era un soldato, perse l’occhio destro. Erano gli anni Ottanta, il Libano era in piena guerra civile. Suo padre lavorava in una sede del ministero della Difesa che fu colpita da un missile. I suoi colleghi morirono, lui rimase cieco da un occhio.
«Sembra che sia un destino di pena che ci segue. Dopo la guerra non c’è stato niente di buono. Ogni anno succede qualcosa che peggiora le cose, le guerre, le invasioni, l’economia che collassa, ora l’esplosione».
Nel 1990, gli accordi di Ta'if misero fine alla guerra civile, almeno a quella militare. Ma inaugurarono un conflitto con altri mezzi. Gli accordi stabilivano infatti che i posti ai vertici delle istituzioni fossero spartiti su base confessionale. Il presidente deve essere un cristiano maronita, il primo ministro musulmano sunnita e il presidente del parlamento un musulmano sciita. Quella che nasceva come una soluzione per mettere fine a una guerra animata da divisioni religiose garantiva di fatto a tutti gli esponenti politici - molti dei quali signori della guerra all’epoca del conflitto civile, amnistiati, e rimasti a occupare posizioni di potere – la possibilità di usare la loro influenza per servire gli interessi di cerchie ristrette.
La gestione del potere così spartito, anziché accompagnare il Paese a una svolta non settaria, è diventato l’alibi per ogni gruppo di accaparrarsi denaro, fondi e dunque consenso.
«Sono trent’anni che funziona così», dice Mirna, nel salotto di casa sua che ancora manda odore di intonaco fresco – trent’anni che ci rubano il presente e il futuro. Portano via i soldi sui loro conti esteri e lasciano noi, qui, a raccogliere macerie. Il porto era il regno delle loro ruberie».
Il Libano importa quasi tutto ciò di cui ha bisogno. E quasi tutto entrava dal porto di Beirut, dagli alimenti ai beni di lusso, per un valore di quindici miliardi di dollari l’anno, che per una sinistra coincidenza è anche l’ammontare dei danni materiali dell’esplosione di agosto.
Controllare il porto significa dunque controllare affari e corruzione. Guadagnare sui dazi, ma anche sui traffici illeciti, sui posti di lavoro, sulle tangenti, sulle prebende. E rispecchia la divisione settaria del potere politico libanese.
In molti si dividono la torta, chi non divide non ostacola gli abusi, in sintesi in molti guadagnano, in pochi si assumono responsabilità. Così, nella catena di corruzione e abusi, un carico di tonnellate di nitrato d’ammonio è rimasto stoccato nell’hangar 12 del porto, insieme a taniche di petrolio, cherosene, acido cloridrico e 15 tonnellate di fuochi d’artificio.
Una bomba a orologeria, che infatti è scoppiata.
Nonostante, come ha rivelato una recente inchiesta del NY Times, il governo, le autorità doganali, tre ministeri, il comandante dell’esercito libanese, due giudici, fossero stati più volte avvertiti della pericolosità della situazione
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«Tutti i principali partiti avevano interesse nel porto. Eppure nessuno ha preso provvedimenti per proteggerlo», dice Mirna, mentre sfoglia sul suo telefono le immagini di casa sua, il giorno dopo l’esplosione. Non c’era un solo vetro intatto.
In quattro mesi e mezzo lei e sua madre hanno rimesso in piedi quasi tutto, aiutati dalle organizzazioni umanitarie. I politici a Karantina, dicono, non si sono fatti vedere.
«Il problema non è la volontà di rimboccarsi le maniche, il problema è che i pochi soldi che ci sono rimasti, oggi non valgono più niente», parole pronunciate davanti a una finestra che - spiega Mirna – solo un anno fa sarebbe costata 80 dollari che al cambio valevano circa 120 mila lire libanesi.
Oggi, con l’inflazione alle stelle e il mercato nero del denaro contante, per pagare quegli ottanta dollari servono 600 mila lire libanesi. Sette volte tanto.
Il primo dicembre il World Bank Group, la banca di sviluppo più grande e conosciuta al mondo, osservatore presso il Gruppo per lo sviluppo delle Nazioni Unite, ha pubblicato un nuovo report in cui parla di «deliberata depressione economica del Paese», criticando aspramente l’inerzia delle autorità in un Paese bloccato ormai da un anno dalla crisi economica e finanziaria «la crisi rischia di avere conseguenze senza precedenti per il capitale umano del Paese, la sua stabilità e prosperità», si legge.
Recentemente, il Fondo monetario internazionale (FMI) ha riferito che il PIL nominale del Libano scenderà a 18,7 miliardi di dollari rispetto 52,5 miliardi di dollari dello scorso anno. Ogni indicatore conferma le peggiori prospettive, negli ultimi dieci mesi la lira libanese ha perso circa l’80% del suo valore. In un Paese che non produce quasi niente, in cui le importazioni sono pagate in dollari e tre quarti dei depositi nelle banche sono sempre in dollari, la svalutazione della moneta ha avuto, e continua ad avere, conseguenze disastrose.
Un anno fa Mirna era in piazza, la piazza delle proteste, della rivoluzione dell’ottobre di Beirut, perché la crisi economica che ha colpito la classe media facendole perdere potere d’acquisto, inducendo chi poteva a lasciare il Paese, bloccando i risparmi e svalutando la moneta, è iniziata ben prima dell’esplosione.
Metà dei libanesi vivevano già sotto la soglia della povertà.
Per questo in migliaia sono scesi in piazza, gridando la rabbia contro la corruzione e contro un sistema che ha cristallizzato il paese, lasciando i politici rei di corruzione e sfruttamento di fatto impuniti, e i cittadini sempre più poveri. La causa scatenante della rabbia, lo scorso anno, fu l’approvazione di misure di austerità che prevedevano una tassa di venti centesimi di dollaro sulle applicazioni di messaggistica istantanea sui telefoni.
Il governo, dopo le prime proteste, cancellò la norma ma la contromisura non bastò ad arginare una rivolta che ormai era già in atto.
I libanesi non ne potevano più dello sperpero di fronte a infrastrutture fatiscenti, i tagli dell’elettricità, i rifornimenti idrici limitati, la disoccupazione al 25%, in un Paese che ha un rapporto deficit /PIL del 152%, numeri che lo rendono il terzo paese più indebitato al mondo dopo Giappone e Grecia.
«Devono andarsene tutti», gridavano i manifestanti, «perché sono tutti complici».
A poco più di un anno di distanza Saad Hariri, che fu costretto a dimettersi, è stato di nuovo investito del ruolo di Primo Ministro.
«Le proteste, però, hanno almeno rotto l’ipocrisia», dice Mirna. L’ipocrisia è una frode, gli economisti la definiscono lo Schema Ponzi, l’origine dei mali finanziari del Libano.
Nel 1997 la lira libanese fu ancorata al dollaro a un tasso di cambio bloccato di 1,5. Questo ha garantito ai cittadini di godere di una valuta stabile e un alto potere d’acquisto. Il sistema si è sostenuto attirando capitali esteri, depositi in dollari cui il sistema bancario libanese garantiva tassi di interesse di oltre il 10% l’anno.
Peccato però che un tasso così alto nascondesse una truffa gigantesca. Perché i tassi venivano ripagati attirando altri capitali. Le banche incoraggiavano le persone a depositare denaro sapendo che non avrebbero potuto mantenere, cioè ripagare, quei tassi.
In una frode di questo tipo se un pezzo del meccanismo si inceppa, come si è inceppato, il castello di carta crolla. E la moneta locale non vale più nulla.
Lo schema ha cominciato a vacillare nel 2011 dopo l’inizio della guerra siriana, gli investitori preoccupati di mettere soldi così vicini a un conflitto, hanno iniziato a ritirare i fondi. La coperta è diventata sempre più corta, finché nel 2017 Saad Hariri è stato di fatto rapito per dieci giorni in Arabia Saudita. Il suo volto in diretta tv mentre annunciava le sue dimissioni da Riad era l’inizio del definitivo crollo del Paese. Vulnerabile, ormai troppo, e per questo esposto a interferenze esterne. L’Iran da una parte, l’Arabia saudita dall’altra.
Lo scorso autunno le banche hanno prima messo un limite all’accesso ai conti dei correntisti libanesi, limitando i prelievi, poi, durante le proteste, hanno chiuso per due settimane. Alla riapertura il re era nudo, e il cambio bloccato a 1.5 completamente saltato.
A marzo del 2020, Hassan Diab, allora primo ministro. annuncia al Paese che il Libano aveva deciso di sospendere il pagamento delle obbligazioni emesse in valuta estera per un valore di 1,2 miliardi di dollari. Era la prima volta nella storia del Paese. «Le riserve in valuta estera hanno raggiunto un livello critico e pericoloso» disse, aggiungendo che quelle rimanenti erano appena sufficienti per pagare le importazioni vitali. La Banca Centrale Libanese non aveva più fondi per pagare gli altissimi tassi di interesse, il Paese era al collasso.
L’epidemia ha fatto il resto.
Melissa ha 25 anni. Lavora in una società di web marketing. Suo padre vive in Arabia Saudita, è uno dei quattordici milioni di libanesi della diaspora. Di quelli, cioè, che con le rimesse contribuivano a quasi un quinto del PIL libanese, una fonte vitale di depositi che le banche utilizzavano per finanziare il debito. La sua è una famiglia della classe media. O meglio lo era, perché la crisi sta disintegrando quello che restava della classe media libanese. Prima della crisi guadagnava 1200 dollari, 1800 lire libanesi. Oggi il suo stipendio è sempre 1800 lire libanesi, che però valgono 170 dollari.
I prezzi nei negozi però aumentano ogni giorno, e alla fine del mese c’è sempre il generatore di corrente da pagare, perché non c’è elettricità. Casa sua è a seicento metri dal porto. Il giorno dell’esplosione l’onda d’urto l’ha scaraventata addosso alla parete del soggiorno. Le restano il trauma e 64 punti tra la schiena, le braccia e le gambe.
«Pensavamo che la crisi economica sarebbe finita e tutto sarebbe tornato alla normalità, ora penso che niente tornerà piu’ come prima». Anche Melissa era in piazza, «dal primo giorno», sottolinea. «Eravamo finalmente un solo Paese. Non c’erano bandiere di partito, né bandiere religiose, solo quella libanese. In quella piazza eravamo tutti simili, chiedevamo tutti le stesse cose: basta corruzione, andate via tutti».
Poi l’entusiasmo ha lasciato il posto alla stanchezza, alla delusione. Il primo ministro di oggi è lo stesso di allora.
L’esplosione le ha dato il colpo di grazia.
«Nonostante tutto non cambia nulla. Se penso al mio passato mi sembra tutto una menzogna» dice, sistemando i cartoni ancora pieni di detriti, e vetri. In lontananza si vedono i silos distrutti del porto. Un vetro della finestra è ancora distrutto.
«Un operaio mi ha detto: Melissa perché lo cambi? Tanto è solo questione di tempo, succederà ancora qualcosa, è inevitabile».