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Sembra passato un secolo da quando i conosciuti versi di Tom Jobim, il maestro che ha descritto la città di Rio de Janeiro come un paradiso tropicale, hanno perso il loro significato. Questo perché, a pochi chilometri dall’aeroporto internazionale della città, c’è un conglomerato che riunisce 16 favelas dove si vive in stato di guerra.
È lì, nel Complesso della Maré, il luogo in cui circa 130 mila persone abitano in balia di una politica di morte. Uomini, donne, giovani e bambini non solo sono costretti a vivere in quel pezzo di mondo dimenticato da tutti, ma sono obbligati ad assistere inermi al conflitto costante tra polizia e trafficanti che si fronteggiano ogni giorno a colpi di mitra. Lì nemmeno il cielo è libero. Il volo dei passeri è stato sostituito da quello degli elicotteri. Le forze dell’ordine sorvolano i tetti delle case e delle scuole in cerca del bersaglio da colpire. In questa guerra ci sono madri che seppelliscono i propri figli e figli che rimangono orfani.
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Come ogni mattina, Bruna si preparava per andare al lavoro. Ma quella non era una mattina qualunque. Alle ore 9 è stata avvisata da un vicino che suo figlio era stato colpito. Il suo angelo custode, come lo chiamava lei, non era un ragazzo del “traffico”, non apparteneva alla criminalità organizzata, era soltanto uno studente che adorava la matematica e, come tanti ragazzi, voleva fare il calciatore. «Che colpa abbiamo? Questa guerra non è nostra, ma qui nella favela, noi subiamo un massacro», dice.
Bruna ha vissuto tutta la sua vita nel Complesso della Maré. Questa donna dai capelli lunghi ondulati e gli occhi castani porta con sé lo sguardo di chi chiede giustizia. È il simbolo della tragedia quotidiana, che toglie il diritto alla vita a chi ha avuto la sfortuna di nascere povero e con la pelle nera. In Brasile, i numeri degli omicidi della popolazione nera uccisa per mano della polizia è del 76,2%, secondo Istituto di Ricerca Economica Applicata (Ipea).
Marcos Vinicius frequentava il settimo anno - equivalente alla seconda media italiana - nella scuola Vicente Mariano. La maglietta della scuola e lo zaino zeppo di libri non sono serviti per salvargli la vita. È morto indossando la divisa scolastica durante un’operazione della polizia chiamata “Vendetta”, motivata dalla morte di un ufficiale che è stato ucciso ad Acari, un’altra favela di Rio. «Mio figlio stava andando a scuola, quando è stato colpito nella parte bassa della schiena da una pallottola di un agente di polizia del Core (coordinamento delle risorse speciali di operazioni della polizia civile). Secondo i testimoni, poco prima che lo uccidessero, avevano già messo all’angolo e ucciso altre cinque persone. Hanno concluso l’operazione “vendetta” togliendolo alla vita», racconta Bruna.
Alla tragedia della morte di suo figlio si aggiunge un altro dolore: proprio lei, che ha sempre detto ai suoi piccoli che nella vita lo studio è l’unica a salvezza, ha visto sgretolarsi la sua idea. Hanno tolto a Marcos il diritto di studiare, sognare e vivere. «Non c’è da meravigliarsi che sia stato un grande studente, che ha ottenuto buoni voti in tutte le materie. Anche durante la sua sepoltura gli insegnanti sono venuti a portare le loro condoglianze e a confermare ciò che già sapevo: che lui era un ragazzo buono, attento e studioso», spiega Bruna.
Marcos sapeva come comportarsi nei giorni delle operazioni militari. Così come ogni bambino che cresce nelle favelas ha dovuto imparare le strategie di sopravvivenza. Lui non era da solo nel giorno in cui è stato fucilato. Era con un amico. Hanno visto volare sopra le loro teste l’elicottero della polizia che sparava dei colpi verso le baracche. Prontamente hanno deciso di aspettare finché la situazione non si fosse calmata. «Quando sono usciti, mio figlio ha visto i veicoli blindati ma non i poliziotti che salivano a piedi», riferisce Bruna.
«Lo Stato ha ucciso mio figlio due volte. La prima quando gli ha sparato, la seconda quando ha trascurato le cure mediche presso l’Unità di pronto soccorso (Marcos Vinicius ha dovuto aspettare più di un’ora prima di essere trasferito in un altro ospedale con più risorse, ndr)». Mentre il ragazzino aspettava il trasferimento, ha chiesto alla madre che cosa avesse fatto alla polizia per avergli sparato. «Loro non hanno visto che portavo la divisa scolastica?». Racconta la madre: «Disperatamente ho cercato di calmarlo. Ricordo che mi chiese dell’acqua, ma non gliela diedi perché temevo potesse fargli male. Questo è il peggior ricordo che ho», racconta Bruna commossa, con gli occhi pieni di lacrime.
Marcos Vinicius ha ricevuto quattro sacche di sangue ed è stato sottoposto a un intervento chirurgico per fermare l’emorragia, ma non ha resistito. Gli hanno sparato alle 9 del mattino ed è morto alle 18 e 35. Non ci sono parole per descrivere il sentimento di una madre che seppellisce il proprio figlio vittima dello Stato. Ora Bruna ha messo le cose di Marcos in un cassetto che nessuno apre, nemmeno lei. «Un giorno, forse, quando la ferita sarà guarita, lo aprirò».
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Dopo la morte del figlio, Bruna ha deciso di lottare per una vita più dignitosa per la gioventù della sua favela. Si è avvicinata al collettivo Redes da Maré dove è diventata attivista nell’area della pubblica sicurezza. «Vogliamo difendere il diritto dei bambini ad avere pace, a poter studiare e condurre una vita normale, senza violenza, senza dover correre sotto le pallottole. Vogliamo pari diritti per tutti, il diritto alla vita. Il governatore Witzel pensa che nella favela non ci siano buoni cittadini. Ma ci sono. Siamo brave persone. Non vogliamo e non dobbiamo morire», dice la brasiliana.
TRASFORMANDO IL LUTTO IN LOTTA
Ancora scossa, prova a mascherare la voce soffocata dalle lacrime. La giovane madre di 37 anni racconta che, nonostante l’incommensurabile dolore causato dalla morte di Marcos Vinicius, ha dovuto alzare la testa e andare avanti per proteggere la sua seconda figlia Maria Vitória, di 13 anni. «Da quando mio figlio è stato assassinato, lei segue la mia quotidianità per trasformare il lutto in lotta», racconta Bruna. Nello scorso agosto il collettivo al quale partecipa ha inviato 1.500 lettere scritte dai bambini alle autorità dello Stato di Rio. C’erano diverse richieste di pace e disegni per la disperazione che provano mentre devono correre per proteggersi durante le operazioni. «Non mi piace l’elicottero», ha scritto uno di loro, su un disegno di uomini armati che sparano contro la loro comunità.
Anche Maria Vitória ha inviato la sua letterina. «Sulla carta bianca ha scritto che la sua più grande paura è essere uccisa mentre va a scuola e, per questo, lasciare sua madre sola al mondo senza figli. Ho pianto. Perché una ragazza invece di preoccuparsi di sé o delle cose normali di un’adolescente deve preoccuparsi di me? In fondo capisce che se ciò accade sarà la fine per me in questa vita», racconta Bruna.
I traumi psicologici di chi vive una vita nel terrore colpiscono più che mai i bambini, consapevoli di poter essere il prossimo bersaglio. Maria Vitória quando sente il rumore di un elicottero si butta per terra, copre con le mani le orecchie e chiude gli occhi. Non vuole sentire, non vuole vedere. Vuole solo proteggersi e sopravvivere a un’altra operazione della polizia. Il governatore Wilson Witzel di fronte ai messaggi impauriti dei bambini è arrivato ad affermare che non erano loro a scrivere, che erano stati manipolati dagli adulti. Ma non è vero. Secondo Bruna, «basta trascorrere una giornata con la famiglia nella favela per capirlo. L’amara realtà dei bambini della Maré è che hanno perso il diritto di sognare».
Grazie alla sua mobilitazione in difesa dei diritti umani, Bruna è stata in grado di portare l’agenda politica degli abitanti delle favelas al presidente della Camera dei Deputati. È stata discussa una serie di progetti di legge denominati “pacchetto anti-crimine” proposto da Sergio Moro, l’attuale ministro della Giustizia brasiliano, Bruna ha messo in discussione alcuni punti del disegno di legge, come «l’esclusione di illegalità», che autorizza la polizia a uccidere per autodifesa e a non essere punita per questo. Inoltre ha sottolineato il caso di suo figlio e ha spiegato la terrificante vita quotidiana degli abitanti della Maré.
«Molte persone spesso non capiscono come funzionano le cose nella favela. Per esempio dicono di non sapere perché al momento dell’operazione i residenti siano ancora in strada. E dico sempre che in questi momenti non abbiamo nemmeno una casa. Quando iniziano le operazioni, la maggior parte dei residenti è già in piedi alle porte delle loro case in attesa della polizia, che di solito entra senza autorizzazione per cercare sospetti. Attendiamo alla porta per impedire loro di irrompere violentemente nelle nostre case. Entrano senza mandato, senza niente. Semplicemente invadono. Se abbiamo il coraggio di porre alcune domande prendiamo una sberla in faccia. I nostri diritti umani vengono violati giorno e notte».
IL GOVERNATORE MIRA ALLA TESTA
Nei luoghi dei senza diritti, in cui la violenza e la morte sfondano ogni giorno una porta, sognare è quasi un privilegio e vivere un atto di resistenza. Il regime del terrore fisico e psicologico a cui gli abitanti delle favelas sono sottoposti ogni santo giorno non è una novità. La differenza è che se la brutalità della polizia è stata sempre tollerata nelle politiche di pubblica sicurezza, ora è addirittura incoraggiata pubblicamente, diventando più frequente e più letale. Mai nella storia la polizia carioca ha ucciso tante persone. Secondo i dati dell’Istituto di pubblica sicurezza (Isp) solo quest’anno le forze dell’ordine hanno ammazzato 5 bambini e ne hanno feriti 12. Ci sono piccoli ancora non nati colpiti nel ventre della madre. Sono loro, i bimbi, le principali vittime di questo sterminio di gente povera e nera.
I numeri sono un riflesso della politica «dell’abbattiment o » del governatore Witzel. Lui ha vinto le elezioni del 2018 promettendo di «mirare alla testa» dei criminali armati e di abbatterli. Seguendo la promessa fatta in campagna elettorale, ha messo carri armati a disposizione dei poliziotti e introdotto i cecchini che sparano da postazioni nascoste fra le baracche o dall’elicottero in movimento.
L’ultima vittima della necropolitica - così il filosofo camerunese Achille Mbembe definisce le politiche di morte per controllare la popolazione - è stata la piccola Ágatha Vitória Felix, otto anni. Le hanno sparato alla schiena con un fucile. Era con la famiglia all’interno di un furgone nella favela Complexo Alemão. Alla bimba, che aveva il buchetto sul sorriso dell’incisivo caduto, i capelli neri e ricci piegati su un lato, piaceva vestirsi come Wonder Woman e credeva che i vestiti le dessero dei superpoteri. Nonostante le braccia incrociate davanti al suo corpo, come faceva la sua eroina, Á gatha non è riuscita a difendersi.
«Mia nipote non era una bandita, né una figlia di banditi. Mia nipote era una bambina educata, diligente, studiosa, parlava inglese, frequentava le lezioni di balletto, non viveva per strada. Non era figlia del governatore o di un poliziotto, no, era la figlia di un lavoratore. Ora lo sbirro si avvicina e spara a chiunque passi per strada. Ha colpito mia nipote. L’ho persa. Non dovevamo perdere né lei né nessuno», ha detto Aílton Felix, il nonno della piccola Wonder Woman.
La notizia della tragica morte di Ágatha ha girato il mondo, e ha suscitato grande indignazione tra le fasce più povere della popolazione di Rio de Janeiro e tra gli attivisti per i diritti umani, sempre più preoccupati della disinvoltura e della violenza con cui la polizia cerca di catturare i criminali senza curarsi del rischio di fare vittime innocenti.
In una dichiarazione la polizia militare ha riferito che verificherà le circostanze del fatto. Il sindacato degli agenti ha dichiarato che i poliziotti avevano reagito agli spari partiti dai criminali contro le forze dell’ordine. Però secondo i testimoni presenti sulla scena, non vi è stato alcun conflitto tra polizia e banditi. Era un venerdì tranquillo, senza operazione. Ma Ágatha è morta. L’hanno strappata la vita. Chi sarà il prossimo?