Dal caotico scrutinio dell'Iowa emerge il giovane outsider, appena sopra il candidato socialista. Brutto risultato per l'ex vice di Obama, che al momento è quarto. E ora l'establishment del partito si chiede se deve ancora puntare su di lui o cambiare cavallo
La notizia forte che arriva dalle nevi dell’Iowa dopo i caucus più travagliati in tutta la storia delle primarie non è soltanto il
testa a testa tra Pete Buttigieg e Bernie Sanders quanto il primo vistoso inciampo dell’establishment che da sempre tiene in mano il partito democratico americano e che aveva finito per puntare le proprie carte su
Joe Biden.
A due terzi del grottesco scrutinio (che mescolava il vecchio sistema fisico dei caucus “fisici” con una app per comunicare e sommare i risultati locali) Biden risulta addirittura quarto, sopravanzato sia dalla coppia di testa Buttigieg-Sanders sia da Elizabeth Warren.
Dalla prima tornata stanno confermandosi quindi le debolezze - per la verità già emerse in campagna elettorale e nei confronti tivù - di un candidato che l’establishment moderato considera “affidabile” e che tuttavia
viene percepito (specie dai più giovani) come un vecchio arnese della politica di palazzo, un grigio politicante entrato in Senato addirittura nel 1972 e rimasto lì fino a quando Obama, 12 anni fa, lo chiamò come suo vice alla Casa Bianca proprio per rassicurare l’elettorato bianco e centrista più pauroso dei cambiamenti.
Dall’Iowa insomma, stato bianco e “mediano”, considerato spesso sineddoche degli umori del Paese, sembra emergere che
la corsa democratica sia stata presa in mano dai millennial, dagli under 30: che si dividono appunto tra il “nonno” socialista Bernie Sanders e
il giovane Buttigieg (ha solo 38 anni, dovesse arrivare alla Casa Bianca diventerebbe il più giovane presidente della storia degli Stati Uniti), il cui programma politico è più vago (attento ai diritti civili, tenenzialmente liberal in economia, molto amato nella Silicon Valley) ma il cui approccio cognitivo piace ai molti ragazzi costretti per il resto ad assistere a una corsa tra ultrasettantenni.
La principale domanda quindi, dopo la falsa partenza di Biden, è se i
vertici storici e moderati del partito continueranno ad appoggiare Biden o se sposteranno il loro peso (economico, politico, mediatico, relazionale…) proprio su Buttigieg, pur di fermare il “radicale” Sanders.
È naturalmente presto per dirlo, ma quello arrivato dall’Iowa in qusto senso è un segnale forte.
Il 22 febbraio sarà il turno del New Hampshire (dove Sanders fino a ieri era dato in testa, ma ora l’Iowa lancia la corsa di Buttigieg) a cui poi seguiranno stati dove la base democratica non ama tanto il candidato socialista, cioè Nevada e Carolina del Sud.
Saranno, questi, gli ultimi appuntamenti prima del supermartedì (3 marzo), quando a votare saranno 15 stati, compresa la California che elegge il maggior numero di delegati.
Con il supermartedì entrerà in campo anche il miliardario tycoon dei media
Michael Bloomberg, forte di molti milioni di dollari da spendere in spot, suoi e dei suoi amici di Wall Street (proprio ieri ha raddoppiato il suo budget per la campagna) ma attualmente sotto le due cifre nei sondaggi. È possibile che Bloomberg approfitti del passo falso di Biden per proporsi come vero alfiere dei moderati - puntando sull’inesperienza di Buttigieg - anche se
ai vertici del partito c’è addirittura chi pensa a rispolverare l’ex segretario di stato John Kerry, che tentò la scalata alla casa Bianca già 16 anni fa per finire sconfitto da George W. Bush.
In ogni caso - sia se Biden resta il candidato dei centristi, sia nel caso questi cambiassero cavallo - quelle che sono iniziate nel caos dell’Iowa rischiano ora di diventare primarie molto tese e altrettanto combattute, perché la corsa di Sanders viene vissuta dai moderati come un’Opa ostile, un’operazione di “entrismo” da parte di un politico che fino a pochi fa neppure era iscritto al partito (anzi, lo criticava aspramente) e che ne vorrebbe modificare il dna portandolo dalla sue posizioni classiche a una visione socialista e addirittura anticapitalista.
Per paradosso,
lo scenario è abbastanza speculare a quello che si è visto quattro anni fa nel campo opposto, quando era Donald Trump a essere considerato portatore di un’Opa ostile nei confronti dell’establishment repubblicano, i cui candidati (i vari Jeb Bush, Ted Cruz etc) si arresero uno dopo l’altro all’outsider populista.
Questa percezione di Sanders come alieno, come “barbaro”, tra i democratici potrebbe portare a diversi esiti durante e dopo le primarie: da un alto, una massiccia campagna di delegittimazione (già in parte iniziata prima dell’Iowa), d’altro lato un arrocco di tutti gli altri candidati proprio contro Bernie, con esiti imprevedibili alla Convention che inizierà il 13 luglio a Milwaukee. Quattro anni fa il senatore del Vermont accettò di non andare neppure alla conta (Hillary alla fine fu nominata per acclamazione), questa volta non solo si rischia di combattere all’ultimo delegato, ma
non è del tutto da escludere che alla fine esca un candidato o un ticket di partito basato su alleanze di corridoio e finalizzato proprio a fermare Sanders.
Sarebbe un incubo, per un partito già oggi diviso come mai era stato e appena uscito da una pessima figura organizzativa. E - nel caso si avverasse – sarebbe un altro gigantesco regalo a Donald Trump, dopo l’autogol del mancato impeachment.