
Il campo di Vucjak è stato allestito nell’estate del 2019, ed è stato chiuso lo scorso 10 dicembre a seguito di numeruse denunce. A Vucjiak vivevano tra le settecento e le mille persone, per lo più provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan, avendo a disposizione poca acqua e poco cibo, a temperature molto rigide.
Parte delle persone che vivevano nel campo ha deciso di ritentare il “game”, di raggiungere cioè la Croazia attraversando monti e valli, nonostante il timore di essere respinti e picchiati dalla polizia del paese. Parte di loro vive in campi nei pressi di Sarajevo. Il flusso di persone che transitano in Bosnia non si ferma, secondo i dati delle Nazioni Unite gli arrivi sono stati di 24mila nel 2018 e 24.629 nel 2019, tuttavia le condizioni di accoglienza sono inadeguate nonostante nel 2019 l’Ue abbia stanziato per il paese dieci milioni di euro al fine di creare nuovi centri di accoglienza e migliorare quelli esistenti.
Il campo di Vucjak sorgeva in terreni che furono teatro della guerra negli anni Novanta, vi sono ancora mine anti-uomo, chi vive in queste valli ha conosciuto la fame e l’assedio. Questo racconto accompagna le foto di Alessio Romenzi dal campo di Vucjak, realizzate pochi giorni prima dello sgombero a inizio dicembre 2019.
L’idea di assumere cioè la voce del fiume Una, della natura che parla come testimone degli eventi, nasce dal tentativo di unire i punti di due storie: la memoria della guerra nei Balcani e le ferite vive delle guerre che danno origine alla fuga e al cammino delle persone che attraversano la Bosnia per tentare di arrivare in Europa.