
Fared Alhor è un attivista, cerca con i pochi mezzi che possiede di raccontare al mondo il nono anno della tragedia siriana. «Queste parole che non posso smettere di ripetere perché non ne ho altre: tragedia, catastrofe, dramma, ormai sono parole vuote, nessuno ci ascolta», dice.
Come se la disgrazia del popolo siriano fosse diventato un lamento di sottofondo, una storia già sentita.
Le madri, racconta Fared, parlano del freddo e della fame. Gli attacchi aerei russi e del regime di Assad uccidono certo, ma i bambini a Idlib muoiono anche di fame e di freddo e le madri muoiono di parto e perdono figli perché, come raccontano i pochi medici rimasti nell’area, lo choc provocato dalle bombe ha fatto aumentare il numero di parti prematuri e aborti.
Secondo le Nazioni Unite, solo a febbraio sono stati uccisi più di 130 civili, tra cui almeno 44 bambini e decine di ospedali e scuole sono stati colpiti dai bombardamenti.
Le parole di Fared sono l’inizio di una catena geografica che parte dal Nord della Siria e arriva al confine greco-turco, ma sono anche l’anello di una catena temporale che parte dall’inizio della guerra siriana, nove anni fa, attraversa una tappa intermedia cruciale che è il 2016, l’anno degli accordi tra Europa e Turchia. E arriva fino a oggi.
Facciamo il primo passo indietro: nelle ultime settimane le truppe del regime di Bashar al Assad, sostenute dall’aeronautica russa, hanno riconquistato vaste zone della provincia di Idlib. La Turchia, che negli ultimi anni ha creato nelle medesime zone – ultimo bastione dei ribelli nel paese - un protettorato sostenendo i ribelli siriani, ha intensificato la sua partecipazione al conflitto con mezzi e uomini.
A fine febbraio la Turchia ha subito una perdita militare importante: trentasei soldati turchi sono rimasti uccisi e decine feriti da un attacco aereo e di artiglieria russo e siriano, evento che ha portato il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, a promettere ritorsioni e chiedere sostegno della Nato.
Dopo la morte dei soldati turchi, il ministro della Difesa di Ankara, Hulusi Akar, ha dichiarato che un’offensiva militare turca sarebbe servita a porre fine alla guerra e proteggere i civili presenti nell’area dal pericolo di un massacro, dal rischio di quella che le organizzazioni internazionali definiscono la «peggiore crisi umanitaria dall’inizio del conflitto siriano».
Da dicembre un milione di persone – la metà bambini – è stato costretto a lasciare case e villaggi. Ora i profughi si trovano affollati in una terra di nessuno, stretti tra l’avanzata delle forze di Assad e il muro che divide la Siria dalla Turchia. «Nowhere to go». Intrappolati.
Il questo scenario, per esercitare una pressione politica sulla Nato e sui governi europei, la Turchia di Erdogan, che già ospita tre milioni di rifugiati siriani (si tratta del Paese che ne accoglie di più al mondo) non solo ha annunciato che avrebbe invitato i profughi già presenti in Turchia verso il confine con la Grecia, ma ha di fatto organizzato bus per i trasferimenti. In risposta la Grecia, con una decisione senza precedenti, ha annunciato di voler sospendere le richieste d’asilo per un mese.
Domenica scorsa il portavoce del governo di Atene, Stelios Persas, ha dichiarato: «Nelle condizioni attuali la situazione rappresenta una minaccia attiva, grave e asimmetrica alla sicurezza del Paese». La minaccia sono le migliaia di rifugiati radunati nella “buffer zone” tra Turchia e Grecia. Premono sull’Europa, chiedono di essere accolti, protetti ma vengono respinti a colpi di lacrimogeni. Uomini, donne e bambini, come hanno mostrato le impressionanti immagini degli ultimi giorni. «Esseri umani usati come mezzo di pressione politica. È inaccettabile», hanno tuonato i governi europei. Ed è vero, certo, che la Turchia stia utilizzando esseri umani per ottenere sostegno politico.
Chi glielo ha consentito? È la prima domanda da porsi.
Facciamo un altro passo indietro, perché è la nona volta in pochi anni che Erdogan minaccia di lasciare libere migliaia di persone di raggiungere i confini europei, di non trattenerle insomma, con toni che ricordano il quasi sconfitto Gheddafi, che nel 2011 minacciava di far «diventare nera» quella stessa Europa facendo partire barconi e gommoni dalle coste nordafricane. Il principio, la leva di quella capacità ricattatoria era la stessa di oggi: allora come oggi l’Europa aveva garantito soldi e mezzi in cambio di controllo dei confini.
È il 2016: il presidente del Consiglio italiano è Matteo Renzi, a gennaio è in visita a Berlino per un vertice bilaterale con il cancelliere tedesco Angela Merkel. Al centro dell’incontro migranti, flessibilità. Il vecchio continente è di fronte a una crisi, un milione di siriani si stanno riversando sulla rotta balcanica, servono soluzioni urgenti, serve un accordo con la Turchia. Merkel e Renzi sono d’accordo. «Non abbiamo nessun problema sul finanziamento dei tre miliardi alla Turchia. L’Italia è da sempre disponibile».
E l’accordo si fa: la Turchia si impegna a contrastare il passaggio di migranti verso la Grecia in cambio un finanziamento per un valore di sei miliardi e 600 milioni di euro per aiutare i rifugiati in Turchia. Missione compiuta.
A marzo dello stesso anno a Bruxelles per un vertice sui migranti Renzi aggiunge, deciso: «L’Unione europea non può permettersi di non fare un accordo, ma deve essere un accordo che rispetti i valori costitutivi dell’Unione e che faccia da precedente». L’intesa viene siglata e l’anno seguente l’identica strategia - soldi in cambio di respingimenti per procura - viene applicata anche con la Libia. Anche di quell’intesa oggi stiamo raccogliendo macerie.
La seconda domanda da porre di fronte a famiglie, bambini, ammassati al freddo al confine europeo è: «Quali sono le condizioni che generano questi epocali spostamenti di esseri umani?». Domanda che oggi, come quattro anni fa, è rimasta coperta dalla coltre dell’emergenza.
E si sa le emergenze si fronteggiano e combattono con misure severe e urgenti. I fenomeni, invece, giacché destinati a ripetersi se non risolti, andrebbero gestiti con lungimiranza e visione. Nel settembre del 2015, di fronte alla crisi della rotta balcanica, l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, in un comunicato enunciava le ragioni che stavano spingendo un milione di persone a chiedere protezione all’Europa: perdita della speranza, cioè il conflitto non sembra destinato a risolversi, mancato accesso al lavoro, all’assistenza sanitaria anche per malattie croniche e alla scolarizzazione dei bambini, costretti o a lavorare per aiutare le famiglie o a non frequentare la scuola per mancanza di posti.
Nel 2015 erano 200 mila i bambini siriani solo in Libano esclusi dal sistema scolastico. E poi il cibo, le capacità di sostentamento. Che significa tagli ai buoni alimentari, cioè non riuscire a mettere insieme un pasto al giorno. Nel solo 2015, a causa dei mancati finanziamenti delle organizzazioni internazionali, i fondi per gli aiuti alimentari vennero tagliati del 60 per cento. Tradotto: il sostegno per mangiare era pari a 50 centesimi al giorno. E oggi? La stima di aiuti necessari per la crisi siriana da parte dell’Unhcr è di 624 milioni di dollari. Ne sono stati raccolti dai donatori, cioè i governi, solo 189 milioni. Il 30 per cento. È quindi certamente vero che Erdogan stia sfruttando la disperazione dei rifugiati siriani per giocare a braccio di ferro con l’Europa. Come è altrettanto vero che l’Europa sorda agli insegnamenti di questi anni continui a rispondere con la stessa politica fallimentare, con la stessa grammatica emergenziale.
All’inizio della settimana Ursula von der Leyen e David Sassoli, rispettivamente presidente della Commissione Europea e presidente del Parlamento Europeo, hanno raggiunto la frontiera greco-turca per mostrare solidarietà alla Grecia, definendola lo “scudo” sui migranti. Lo scudo, la protezione, il confine, la gabbia d’Europa. Nonostante la decisione di sospendere per un mese la registrazione delle richieste d’asilo violi la Convenzione Internazionale di Ginevra e la legislazione greca stessa. Nonostante si stiano sdoganando nei fatti i respingimenti alle frontiere. Nonostante la Grecia minacci sistematiche misure detentive dei richiedenti asilo di fatto già detenuti dal blocco dei trasferimenti. Nonostante le autorità greche stiano violando i principi fondanti delle istituzioni europee. Contro esseri umani che raggiungendo la Grecia stanno raggiungendo l’Europa, e quell’Europa che Von der Leyen e Sassoli rappresentano dovrebbe farsene carico. Difendere i diritti umani e non lo “scudo”.
La terza domanda, infine, da porre di fronte alle crisi epocali è: Come sono stati gestiti i soldi (tanti) spesi finora? Secondo la Corte dei Conti europea male. Alla fine dello scorso anno, analizzando i bilanci delle 43 agenzie dell’Unione europea, l’unica agenzia bocciata è stata la Easo, la European Asylum Support Office, cioè quella deputata a sviluppare un sistema comune per la distribuzione dei migranti. Per intenderci, l’organo che ha concepito e gestito gli hotspot in Italia e Grecia (che stanno scoppiando).
Il report della Corte dei Conti europea parla di «gestione opaca, appalti senza controllo e rendicontazione e gestione personalistiche delle assunzioni in gare mai controllate». Significa che con le misure di emergenza i problemi non si risolvono, si creano anzi le condizioni ottimali per far emergere quelli futuri. E si legittima la cattiva gestione del denaro pubblico. Non sappiamo ancora se Erdogan farà precipitare la situazione al confine con la Grecia, sappiamo però che l’Europa ha la possibilità di riscattare gli errori di questi anni. Leggere gli eventi in chiave storica e non elettorale. Rispettare i patti di ricollocamento, studiare dei piani di evacuazione dagli hotspot delle isole greche. Scongiurare il rischio che le tensioni di queste settimane alimentino - una volta ancora - movimenti razzisti e xenofobi.