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1 aprile, 2020Cosa accade se il Coronavirus arriva in un paese in guerra? Cosa accadrebbe in caso di contagio in un campo profughi? Abbiamo chiesto alle persone che in questi anni hanno accompagnato i racconti de L'Espresso nelle zone di crisi del Mediterraneo, Medio Oriente e Nord Africa, di raccontarci in prima persona cosa significhi in un paese in conflitto la prospettiva di una epidemia. Queste le loro parole (A cura di Francesca Mannocchi)
«Da Erbil soffro per voi ma non chiamatela guerra: i vostri ospedali sono ancora in piedi»
«Caro Espresso, vi scrivo dalla mia casa a Erbil, con mia moglie Judi e mio figlio Baran accanto a me.
Anche noi viviamo in isolamento, siamo chiusi in casa e possiamo uscire solo per acquistare beni essenziali. Pensiamo a come trascorrere il nostro tempo. Principalmente però pensiamo a come riuscire a parlare con i nostri cari nel nord della Siria.
Siamo rifugiati qui, in Kurdistan iracheno, ma le nostre famiglie sono ancora in Rojava, e non riescono a raggiungerci. Le preoccupazioni di ieri, oggi sono raddoppiate.
Vi scriviamo da un appartamento. Siamo rifugiati, ma fortunati. Io sono un medico, Judi lavora come traduttrice. Abbiamo abbandonato le nostre case e le nostre famiglie dopo l’invasione turca del nord della Siria, e nonostante il dolore della separazione siamo consapevoli di essere fortunati. Fosse solo perché vi scriviamo avendo un tetto sulla testa, e non una tenda.
Penso a come occupare il tempo, in isolamento. Ma non smetto di pensare ai siriani nei campi profughi, all’impossibilità per loro di seguire le misure precauzionali per evitare il contagio. Penso a cosa fare con Judi e Baran, nelle ore di blocco di ogni attività, eppure so di non dovermi preoccupare di come dar loro da mangiare. Questo fa di me un padre di famiglia fortunato. Ho più risparmi di altri. Posso dormire, ancora per un po’, senza preoccupazioni. Ma non smetto di pensare ai siriani che lavorano a giornata, che fino a ieri avevano la sola pena di uscire di casa sperando di trovare un ingaggio per una giornata da manovale e oggi, che non possono uscire di casa, non sanno come comprare il latte per i propri figli.
Guardo Baran che muove i suoi primi passi sul tappeto e so di non avere bisogno degli aiuti delle organizzazioni non governative, o delle Nazioni Unite, per i suoi pannolini, per il latte in polvere, per un antibiotico se sta male.
Questo fa di noi i fortunati tra i disperati.
Oggi che le attività di ONG e Nazioni Unite sono limitate, chi prima aveva da mangiare, oggi semplicemente non sa cosa fare né a chi chiedere supporto.
Sentiamo le notizie dal mondo e viviamo la doppia preoccupazione del contagio che si sta diffondendo e delle nostre famiglie lontane.
Nel nord della Siria non ci sono ospedali a sufficienza, né sufficiente cibo. E’ una catastrofe di oggi, raddoppiata in paese in cui il presente è drammatico, ed è impossibile prevedere gli sviluppi di quello che sarà.
Pensavo ieri con mia moglie che gli intellettuali dovrebbero farsi strumento di comprensione di questa pandemia. Da un lato certo gli scienziati, e noi medici che dobbiamo spiegare alle persone come tutelare la loro salute e quella degli altri. Ma gli intellettuali, gli scrittori, chi immagina il mondo che verrà, dovrebbe trovare le parole giuste per descrivere questa minaccia sconosciuta che ci ha costretti all’isolamento. Abbiamo bisogno di persone colte che spieghino la difficoltà di contrastare qualcosa che non ha ancora definizioni e criteri di contenimento sul lungo periodo.
Il virus costa vite come una guerra, dicono tutti.
Ma sono tante, così tante le differenze con le guerre.
In guerra, è banale sapete?, se pure volessi curarti, non ci sono ospedali. Non ci sono fisicamente gli edifici, restano le fondamenta nel migliore dei casi.
Non è un problema di accesso alle cure. Di disponibilità di ossigeno e respiratori.
Non ci sono le infrastrutture, e questo è tutto.
Guardo a voi, soffro per i numeri delle persone che avete perso e state perdendo. Sono numeri che fanno male. Ma, ricordate, avete gli ospedali. Con limitazioni, dolore, fatica, certo. Ma c’è un edificio, con su scritto ospedale e una porta di ingresso. Potete entrare, provare a guarire, proteggere voi e i vostri cari.
In un paese in guerra no, e non dipende da te. In un paese in guerra la salute è al di là del controllo del singolo. E’, per così dire, un problema secondario.
L’altra grande differenza, vedete, è che quando tutto questo sarà finito, i vostri figli potranno tornare a scuola e a giocare nei vostri cortili.
I vostri figli, che come il mio ora sono costretti in casa, spesso ore di fronte a uno schermo, spesso nervosi per impossibilità di una passeggiata all’aria aperta, un giorno – può trattarsi di settimane nella migliore delle ipotesi, o mesi nella peggiore – torneranno a indossare uno zaino pieno di libri, quaderni e colori. Gli asili e le università riapriranno.
I professori potranno tornare dietro le cattedre e i bambini a occupare di nuovo i banchi e riempire sussidiari, in guerra no.
In guerra le scuole sono distrutte, come gli ospedali.
Molti paesi cominciano a pensare che non abbiamo bisogno di un mondo globalizzato, che il mondo globalizzato abbia generato questo problema.
Ma, sapete, visto da qui questa crisi è l’essenza del mondo globalizzato.
Perché è vero che il virus colpisce tutti, sono un medico, lo so bene.
Come è vero però che non tutti possono curarsi allo stesso modo.
Questo fa la differenza nell’inevitabilità di un contagio.
Il virus arriva, come dappertutto. Possiamo curare tutti?
Da questa parte del mondo, purtroppo, la risposta è no.
Ogni essere umano deve pensare agli esseri umani che ha intorno e ogni stato deve pensare agli stati che ha intorno, sia proteggendoli dal contagio con l’esempio, sia nel reciproco aiuto.
Da siriano, da medico, da rifugiato, credo che dobbiamo imparare. Usare questo tempo per studiare il virus come una lezione di comportamento.
Pensavo ieri con Judi, ricordando le reazioni tutte uguali e tutte in ritardo, dei governi negli ultimi due mesi, che tutti guardando a cosa stesse accadendo in Cina, a Wuhan, hanno pensato che fosse un problema minore.
Che, comunque, non fosse un loro problema.
E ho pensato che è come per la guerra in Siria. Fino a che un milione di persone nel 2015 non ha provato a raggiungere l’Europa, in quella che voi avete descritto ‘la crisi dei rifugiati’ anche la guerra siriana sembrava una cosa locale, solo nostra, e comunque – per voi – minore.
E invece eccoci qui, questo credo sia l’insegnamento di questa catastrofe.
Ricordare che tutti viviamo abbracciati negli stessi eventi, anche quando ci sembrano lontanissimi».
Rodi Hesen, medico siriano
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