La propaganda degli estremisti islamici e di Al-Qaeda in queste settimane è scatenata: il morbo «colpisce l’Occidente», «annienta la sua economia», «indebolisce i suoi eserciti». E costringe le donne, finalmente, a coprirsi il volto

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«Abbiamo completamente perso il controllo e l’epidemia ci sta distruggendo...».

Queste parole (totalmente false, come ovvio) sono state attribuite al presidente del consiglio italiano, Giuseppe Conte dal settimanale Ebaa, organo di propaganda del gruppo jihadista Organizzazione per la liberazione del Levante, una sigla dell’affollato fronte del conflitto in Siria, dove controlla parte del governatorato di Idlib, nordovest del Paese.

In questi giorni di Covid la propaganda salafita-jihadista è scatenata: riviste on-line, siti di informazione, newsletter e canali social celebrano una vittoria epocale. Il coronavirus, dicono, segna la sconfitta di tutto l’Occidente miscredente e oppressore. E in particolare del “nemico lontano”, gli Stati Uniti. L’occasione è storica. L’opportunità, unica.

L’Isis è stato tra i primi gruppi ad aver calibrato il tiro della comunicazione, come spiega il ricercatore Aymenn Jawad Al-Tamimi, che da anni studia il jihad. Prima ci sono state le “Direttive della Sharia per affrontare l’epidemia”, l’11 marzo, sulla newsletter settimanale in arabo al-Naba: non entrare nei territori contagiati; per i malati, evitare di uscirne; pulirsi bene le mani, etc. Indicazioni pratiche, di contenimento, ma associate agli “hadith”, i detti del profeta Maometto. Perché la malattia «non colpisce di per sé», ma dipende «dagli ordini e dalla capacità di Allah».

Ecco quindi l’epidemia come punizione o ammonizione divina: un’idea dalla storia millenaria, presentata con grafica accattivante e impastata di teologia in un successivo editoriale su al-Naba, “L’incubo dei Crociati”. Il coronavirus è «un tormento mandato da Allah» che colpisce le «nazioni idolatre». I crociati sono sull’orlo di una catastrofe economica, con le risorse ridotte e i militari in uno stato di paralisi. «Sono deboli e hanno paura, vorrebbero che stessimo calmi, ma non c’è pietà per i miscredenti e gli apostati». Lo Stato islamico esorta a liberare i detenuti «incarcerati ingiustamente» e a rischio contagio, e a condurre attentati come a Bruxelles, Parigi, Londra. Il jihad è «la migliore garanzia per proteggersi dall’epidemia».

La cupola del gruppo concorrente per l’egemonia sui barbuti, al-Qaeda, ha impiegato qualche giorno in più per trovare la rotta. Le 6 pagine di “consigli sul coronavirus” sono arrivate soltanto il 31 marzo, dopo il beneplacito di Ayman al-Zawahiri, il medico egiziano 69enne, islamista rivoluzionario dall’età di 15 anni, che ha sostituito Osama bin Laden alla guida dell’organizzazione. «È tempo di chiamare la gente al jihad nella strada verso Allah e di rivoltarci contro gli oppressori», ha detto. Al-Qaeda si appella alla lotta, ma si preoccupa anche di «confortare i fratelli e le sorelle musulmane», invocare l’unità e la fede della ummah islamica, per poi affondare il colpo contro il nemico vicino, «i despoti del mondo islamico che si sono macchiati delle peggiori torture contro gli studiosi e i mujahedin», e contro gli Stati Uniti.

Per l’economia Usa «sarà uno tsunami», una «recessione di lungo termine» e i trilioni di dollari iniettati nel sistema «equivalgono a quelli persi nelle due guerre contro la ummah islamica negli ultimi due decenni», in Afghanistan e Iraq. Per al-Qaeda insomma l’America è debole, moralmente e militarmente. La causa oggi è l’epidemia, ma la matrice un’altra: la «forza materiale è vulnerabile, globalizzazione e successo tecnologico si rivoltano contro l’uomo».

La debolezza del nemico è poi occasione di reclutamento. Anche degli infedeli, a cui non rimane che abbracciare l’Islam. «Governi ed eserciti sono inutili», assicurano gli uomini di al-Zawahiri. «Punizione per ingiustizia e oppressione contro i musulmani e contro tutta l’umanità», il virus è «un’opportunità d’oro» per le masse occidentali. Alle quali viene rivolta «una chiamata generale ad abbracciare l’Islam, religione orientata sull’igiene», mentre l’Occidente si fonda su un’«economia da usura», «l’ateismo e il materialismo», «il metodo scientifico di Bacone», «i progressi tecnici e la dissoluzione morale», «la ribellione alla sovranità divina».

Il mondo è colpevole e diviso in due, ripete la propaganda jihadista dal Medio Oriente al Sahel, dal sud-est asiatico all’Asia centrale: per gli infedeli e gli apostati, la pandemia è un castigo; per i veri musulmani, una prova. Che permette inoltre di distinguere gli autentici fedeli, devoti alla causa, dagli ipocriti. I puri e dagli impuri.

Per il potente politico e clerico saudita Abdullah bin Muhammad al-Muhaissyni, uno tra coloro che hanno tentato di mediare tra al-Qaeda e lo Stato islamico quando i figli impazienti si rivoltavano contro i padri inconcludenti, chiudere le moschee è un errore, frutto del materialismo occidentale. «Nella nostra religione c’è una soluzione per ogni problema: la preghiera, la preghiera e poi la preghiera». Le moschee chiuse rimandano - secondo questa propaganda - a quelle «confiscate, sigillate, occupate in passato, in Andalusia, in Palestina, nel Turkestan», cioè la provincia cinese occidentale del Xinjiang.

Proprio il partito islamico del Turkestan ha reso noto che «il virus è una punizione di Allah contro l’oppressione statale della minoranza uigura: che l’epidemia distrugga lo Stato ateista cinese» e che salvi invece fedeli. Sul canale Telegram dell’agenzia di stampa Thabat News, di area qaedista, l’egiziano Khalid al-Sibai, vecchio compare di al-Zawahiri, reclutatore e predicatore a Londra, scrive che il coronavirus per gli oppressori è distruzione, per i credenti un «martirio». I musulmani devono proteggersi dal virus, ma chi viene contagiato e muore «sarà un martire per volere di Dio».

D’altro canto, fin dall’inizio del jihad, si sosteneva che «il cadavere di un martire profuma di muschio, resta miracolosamente preservato e i suoi resti, sacri, sono bastioni del paradiso in terra». Lo scriveva l’ideologo Abdallah Azzam sulla rivista Al-Jihad, stampata in Pakistan. Al-Jihad è stata per anni la più letta tra le testate dei mujahedin, arrivando fino a 50 mila copie vendute in 50 Paesi diversi. Erano gli anni in cui a Peshawar arrivano combattenti dai Paesi arabi, “gli arabo-afghani”, ma anche da California, Australia, Sudafrica, Norvegia, Venezuela.

Questo Abdallah Azzam è un personaggio fondamentale nella storia della propaganda jihafista. Nato in Palestina, rifugiato in Giordania, dottorato in Egitto, prediche in Arabia saudita, nell’estate 1984 decise di fondare a Peshawar il Maktab al-Khidamat, il “centro servizi” per i combattenti arabi, volontari. Il nucleo originario della «carovana del jihad», «il movimento di ribellione transnazionale più longevo della storia», spiega il ricercatore Thomas Hegghammer in una monumentale biografia di Abdallah Azzam uscita pochi giorni fa (The Caravan: Abdallah Azzam and the Rise of Global Jihad, Cambridge University Press).

Dal 1983 al 1987 Azzam organizzava la causa dei mujahedin afghani, i “guerrieri santi” anti-sovietici, stimolando così la martirologia jihadista, insieme alla comunicazione organizzata dei “barbuti”, oggi passata al digitale. Azzam è stato per anni conferenziere globetrotter, dai Paesi del Golfo agli Stati Uniti, un motore della globalizzazione del jihad. È morto nel 1989 in un attentato in Pakistan, ma prima ha incontrato e forgiato tra gli altri anche il giordano Abu Muhammad al-Maqdisi, oggi 61 anni, padrino di Abu Musab al-Zarqawi, l’uomo a cui si deve lo stampo ideologico-militare del futuro Stato islamico.

Tra i più autorevoli ideologi del jihad, oggi al-Maqdisi usa i canali social per dettare la linea anche sul coronavirus. Su Telegram il 23 marzo ha presentato il Covid come «un dono sotto forma di avversità». Sembra deleterio, ma è benefico, sostiene, perché dimostra l’inferiorità dell’Occidente, colpito nella sua arroganza, «fa finalmente coprire il viso alle donne, chiude bar e luoghi di corruzione, mette a tacere gli imam ipocriti, idolatri». Mentre «chi teme Allah è salvo dal virus», assicura al-Maqdisi.

I salafiti-jihadisti come lui celebrano quindi una vittoria, pronti a sfruttare caos, incertezza e divisioni, governi ed eserciti indeboliti, a occupare gli spazi concessi da un ordine mondiale saltato. Lo Stato islamico invoca nuovi attentati. Al-Qaeda punta al reclutamento. Sui canali social, il virus diventa «un soldato di Allah».

Ma i militanti sono vulnerabili come tutti. Il “soldato di Allah” potrebbe colpire presto anche loro. E interrompere la fase di globalizzazione jihadista inaugurata negli anni Ottanta a Peshawar dagli arabo-afghani, transitata poi per Bosnia, Cecenia, Algeria e arrivata fino in Iraq e Siria. In Siria i jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham ripetono che l’Occidente oggi è sconfitto, ma sono preoccupati. Il fronte civile del gruppo jihadista ha già organizzato campagne di prevenzione e informazione: disegni sui muri per i bambini, brochure e depliant agli sfollati di Afrin e delle aree rurali delle città di Idlib e Aleppo. Misure di contenimento in vigore da giorni: chiusi gli asili nido, le scuole, le università, i mercati. Chiuse anche le moschee, proprio come le chiese degli infedeli.