Le grandi aziende della Silicon Valley come Amazon e Google stanno approfittando dell'emergenza per intrecciarsi con la politica e imporre un futuro a loro immagine e somiglianza. L'allarme della studiosa e attivista canadese

Eric Schmidt, già numero uno di Google e suo azionista, oggi presidente Nscai
Durante uno dei briefing sul coronavirus il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo per qualche fugace istante ha sostituito l’espressione triste che aveva da settimane con qualcosa che somigliava a un sorriso. «Siamo pronti e ci siamo con tutte le nostre forze», ha detto il governatore. «Siamo newyorkesi e siamo ambiziosi. Abbiamo capito che il cambiamento non è solo imminente, ma che può anche essere un’opportunità se realizzato nel modo giusto».

A ispirare queste parole insolitamente positive di Cuomo era stato un collegamento video con l’ex ad Google, Eric Schmidt, che si era unito al briefing del governatore per annunciare la sua nuova posizione nella commissione che dovrà reimmaginare la realtà dello Stato di New York post-Covid, con un’enfasi sull’integrazione permanente della tecnologia in ogni aspetto della vita civile. «Le nostre priorità», ha detto Schmidt, «sono focalizzate sulla sanità, sull’istruzione in remoto e sulla banda larga. (...) Dobbiamo individuare soluzioni già pronte che possano essere accelerate e che utilizzino la tecnologia per fare meglio». Per non lasciare dubbi su quanto siano solo benevoli gli obiettivi dell’ex top manager di Google, lo sfondo mostrava un paio di ali d’angelo dorate.

Proprio il giorno prima, Cuomo aveva annunciato una collaborazione analoga con la Bill e Melinda Gates Foundation per sviluppare «un sistema educativo più intelligente». Definendo Gates un «visionario», Cuomo ha spiegato che la pandemia ha creato «un momento nella storia in cui possiamo incorporare e far avanzare le idee (di Gates, ndr). Tutti questi edifici, tutte queste aule fisiche... che senso hanno, con tutta la tecnologia che potete mettere a disposizione?», ha chiesto, all’apparenza solo in maniera retorica.

C’è voluto un po’ di tempo perché prendesse forma, ma ora comincia a emergere qualcosa che somiglia molto a una vera e propria dottrina dello shock pandemico. Mentre i corpi ancora si accumulano, il futuro che prende forma - e che è molto più high-tech di quello innescato dalle catastrofi precedenti - considera le nostre settimane di isolamento fisico non una dolorosa necessità per salvare vite umane ma un laboratorio permanente e altamente redditizio di un futuro senza contatto fisico.

Anuja Sonalker, l’ad di Steer Tech, una società con sede nel Maryland che vende tecnologia per parcheggi automatizzati, ha riassunto il nuovo scenario rimodellato sul virus: «Cominciamo a osservare un marcato trend verso la tecnologia che non prevede il contatto tra gli esseri umani. Gli esseri umani sono a rischio biologico, le macchine no».

È un futuro nel quale le nostre case non saranno più spazi personali ma terminali di connettività digitale ad alta velocità. E così anche le nostre scuole, i nostri studi medici, le nostre palestre e, se così vorrà lo Stato, le nostre prigioni.

Naturalmente, per molti di noi, già prima della pandemia le case stavano diventando il luogo di lavoro dove non si stacca mai e la principale sede dell’intrattenimento. L’incarcerazione in comunità sorvegliate si stava già diffondendo a macchia d’olio. Nel futuro che si sta costruendo rapidamente, queste tendenze sembrano accelerare.
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È un futuro nel quale ai privilegiati quasi tutto sarà consegnato a domicilio - virtualmente tramite streaming e tecnologia cloud o fisicamente tramite veicoli a guida autonoma - e il tutto poi sarà “condiviso” su una piattaforma gestita da qualcuno. È un futuro che impiegherà molti meno insegnanti, medici e autisti; che non accetterà contanti o carte di credito (con il pretesto di controllare i virus); nel quale il trasporto pubblico diventerà striminzito e l’arte dal vivo sarà sempre più scarsa. È un futuro che, si dice, sarà gestito dall’intelligenza artificiale, ma che in realtà sarà tenuto insieme da decine di milioni di lavoratori anonimi nascosti nei magazzini e nei data center, ammassati in uffici dove si moderano i contenuti o in fabbriche di elettronica, nelle miniere di litio, nei complessi industriali, nei mattatoi e nelle prigioni, esposti alle malattie e all’ipersfruttamento. È un futuro nel quale ogni nostra mossa, ogni nostra parola, ogni nostra relazione sarà rintracciabile, tracciabile, con una miniera di dati immagazzinati grazie a una collaborazione senza precedenti tra governi e giganti della tecnologia.

Se tutto ciò vi suona familiare, è perché già prima del Covid questo futuro fatto da app e lavori saltuari ci era venduto come conveniente, rilassante e personalizzato.

Molti di noi, tuttavia, erano preoccupati: per la sicurezza, la qualità e la disuguaglianza insite nella telesanità e nella scuola online o per come i dati sulla geolocalizzazione e il commercio senza contanti intaccano la nostra privacy e rafforzano la discriminazione razziale e di genere. Eravamo preoccupati sui dati nelle mani di piattaforme di social media senza scrupoli che avvelenano l’ecosistema informativo e la salute mentale dei nostri figli; per le “città intelligenti” piene di sensori che sostituiscono l’amministrazione locale; per i buoni posti di lavoro che queste tecnologie hanno spazzato via e per i brutti posti di lavoro che hanno prodotto in serie.

Soprattutto, però, eravamo preoccupati per la ricchezza e il potere, così minacciosi per la democrazia, che si stavano accumulando nelle mani di poche società della tecnologia molto brave ad abdicare da qualsiasi responsabilità rispetto alla distruzione che si lasciano dietro nei settori in cui dominano: i media, il commercio al dettaglio, il trasporto.

Oggi molte di quelle fondate preoccupazioni sono state spazzate via da un’ondata di panico e da una sempre più accettata distopia - al cui riposizionamento d’immagine si sta lavorando in fretta e furia. Di fronte a un contesto straziante di morti in massa, tutto ciò ci è riproposto con la dubbia promessa che queste tecnologie sono l’unica via possibile per salvaguardarci dalla pandemia e la chiave indispensabile per proteggere noi e i nostri cari.
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Grazie a Cuomo e alle sue partnership miliardarie (tra cui una con Michael Bloomberg per testare e per tracciare i potenziali malati), lo Stato di New York è diventato lo scintillante showroom di questo cupo futuro, la cui reale portata va ben oltre i confini di uno Stato o un Paese.

Nel punto d’ombra di tutto ciò c’è Eric Schmidt. Ben prima che negli Stati Uniti si comprendesse l’entità della minaccia Covid-19, Schmidt aveva già intrapreso una aggressiva campagna di pubbliche relazioni e lobbying per promuovere proprio la visione di quella società alla Black Mirror, il potere di costruire la quale Cuomo gli ha appena affidato. Al centro di questa visione, che vuole che scuole, ospedali, studi medici, polizia e altri corpi militari deleghino molte delle loro funzioni principali a società della tecnologia private, c’è la perfetta integrazione dei governi con un piccolo numero di giganti della Silicon Valley.

La sta promuovendo Schmidt dal suo ruolo duplice di presidente del Defense Innovation Board, che consiglia il Dipartimento della Difesa sui modi per incrementare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in campo militare, e di presidente della potente Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale, la Nscai, che fa da consulente al Congresso sui «progressi nell’intelligenza artificiale e i relativi sviluppi nel machine learning e altre tecnologie associate» al fine di affrontare «esigenze di sicurezza nazionale ed economica degli Stati Uniti, incluso il rischio economico». In entrambi questi organismi siedono numerosi e potenti ceo e dirigenti della Silicon Valley e di aziende quali Oracle, Amazon, Microsoft, Facebook e, naturalmente, Google. Schmidt, che detiene più di 5,3 miliardi di dollari in azioni Alphabet (la società madre di Google), sta sostanzialmente “collaudando” Washington per conto della Silicon Valley.

Lo scopo principale è di ottenere un aumento esponenziale degli investimenti pubblici per la ricerca sull’intelligenza artificiale e le infrastrutture tecnologiche come il 5G, che andrebbero a beneficio diretto delle società nelle quali Schmidt e altri membri di questi consigli detengono ampie partecipazioni.

Dapprima a porte chiuse con i legislatori, poi nei dibattiti e nelle interviste pubbliche, l’argomento principale della tesi di Schmidt è che poiché il governo cinese è pronto a spendere illimitate risorse pubbliche per costruire una infrastruttura di sorveglianza ad alta tecnologia, la posizione dominante degli Stati Uniti nell’economia globale si sta avvicinando a uno sfaldamento. Il Centro per l’informazione sulla privacy elettronica (Electronic Privacy Information Center) è recentemente riuscito a visionare, grazie al Freedom of Information Act, una presentazione della Nscai di Schmidt di un anno fa, del maggio 2019. Le diapositive sottolineano in maniera allarmistica quanto la Cina stia tentando di superare gli Usa in una serie di settori, tra cui l’Ai per la diagnosi medica, i veicoli autonomi, le infrastrutture digitali, le città intelligenti, lo sharing nel trasporto e l’eliminazione di ogni contatto dalle transazioni commerciali.

Le ragioni che spiegherebbero il vantaggio competitivo della Cina vanno dal vasto numero di consumatori che fanno acquisti online fino al fatto che lì «non sussiste un settore bancario tradizionale» e ciò le ha permesso di saltare la fase dei contanti e delle carte di credito e di lanciare un gigantesco mercato dell’e-commerce e dei servizi con pagamenti digitali. Inoltre la grave carenza di medici ha spinto il governo a una stretta collaborazione con le aziende della tecnologia, quali Tencent, per promuovere la medicina “predittiva” che l’Ai abilita. La presentazione sottolinea anche come in Cina queste società siano «abbastanza forti da superare rapidamente barriere normative» mentre quelle statunitensi si impantanano nell’ottemperare alle leggi e nell’attesa di approvazioni.

Come principale fattore del vantaggio competitivo cinese, la Nscai indica la volontà della Cina di stringere partenariati pubblico-privati per la sorveglianza di massa e la raccolta di dati. La presentazione ne rimarca il «sostegno e coinvolgimento espliciti del governo cinese, per esempio, nell’implementazione del riconoscimento facciale», e spiega che «la sorveglianza è uno dei principali e migliori clienti dell’Ai» e che, inoltre, «la sorveglianza di massa è una fonte di dati fondamentale per il deep learning», uno dei sottosettori dell’intelligenza artificiale.

Una diapositiva intitolata “I dati detenuti dallo Stato: sorveglianza = città intelligenti” fa notare quanto la Cina, assieme al principale concorrente di Google, la cinese Alibaba, stiano bruciando le tappe.

Vale la pena di soffermarsi su ciò, perché la società madre di Google, Alphabet, ha promosso esattamente questa stessa visione tramite la sua divisione Sidewalk Labs scegliendo un lungo tratto del lungomare cittadino di Toronto come laboratorio e prototipo per una “smart city”. Il progetto Toronto è stato concluso dopo due anni di incessanti polemiche relative alla enorme quantità di dati personali che Alphabet-Google avrebbe raccolto.

Cinque mesi dopo questa presentazione, a novembre, la Nscai ha sottoposto al Congresso una bozza di rapporto che ha destato ulteriori preoccupazioni riguardo all’esigenza che gli Usa si adeguino al ritmo cinese quanto su queste tecnologie. «La nostra competizione è strategica, l’Ai ne sarà al centro. Sono in gioco il futuro della nostra sicurezza nazionale e della nostra economia», si legge.

A fine febbraio, Schmidt ha spostato il target della sua campagna sull’opinione pubblica, forse dopo aver capito che gli aumenti di budget richiesti non sarebbero stati approvati senza un maggiore sostegno generale. In un editoriale del New York Times intitolato “Dirigevo Google. Ora la Silicon Valley potrebbe perdere la gara con la Cina”, Schmidt, suonando ancora l’allarme contro il pericolo giallo, sollecitava «partnership tra governo e industria come non si sono mai viste». Secondo Schmidt la Cina è in corsa per diventare il primo innovatore al mondo. E l’unica soluzione perché gli Usa non perdano la sfida è l’investimento pubblico. Lodando la Casa Bianca per aver chiesto un raddoppio dei finanziamenti per la ricerca nell’Ai e nella ricerca quantistica, Schmidt scrive: «Il nostro piano dovrebbe prevedere un raddoppio dei finanziamenti in questi campi mentre costruiamo la capacità istituzionale nei laboratori e nei centri di ricerca. (...) Il Congresso dovrebbe soddisfare la richiesta del presidente di portare al massimo livello degli ultimi 70 anni il finanziamento della R&S nella difesa e il Dipartimento della Difesa dovrebbe capitalizzare su questa nuova ondata di risorse per costruire capacità di assoluta avanguardia nell’Ai, la quantistica, l’ipersonica e le altre aree di priorità tecnologica».

Ciò accadeva esattamente due settimane prima che l’epidemia del coronavirus fosse dichiarata pandemia, e in tutti quei documenti non c’era alcun accenno a un obiettivo di vasta portata dell’alta tecnologia riguardo alla protezione della salute dei cittadini Usa, ma solo la necessità di non lasciarsi superare dalla Cina.

Nei due mesi successivi, Schmidt, con un aggressivo esercizio di riposizionamento di immagine, ha riproposto le sue richieste: un’ingente spesa pubblica in ricerca e infrastrutture per l’alta tecnologia, numerosi «partenariati pubblico-privati» nel settore della Ai e un allentamento delle tutele della privacy e della sicurezza. Ora queste misure (e altre) sono presentate al pubblico come l’unica speranza di proteggersi dal virus che resterà tra noi per gli anni a venire.

Anche le altre società della tecnologia con le quali Schmidt ha profondi legami si sono tutte rifatte l’immagine come benefattori, protettori della salute pubblica e generosi difensori dei lavoratori essenziali ed “eroi quotidiani” (molti dei quali, peraltro, come i driver e gli autisti, perderebbero il posto di lavoro se queste aziende l’avessero vinta).

A meno di due settimane dall’inizio del lockdown a New York, Schmidt ha scritto un editoriale per il Wall Street Journal in cui chiariva che la Silicon Valley aveva tutte le intenzioni di sfruttare la crisi per una trasformazione permanente. Due settimane dopo la pubblicazione dell’editoriale, Schmidt ha descritto il programma di scuola a distanza durante l’emergenza sanitaria come «un gigantesco esperimento di apprendimento remoto». Durante lo stesso discorso (all’Economic Club di New York) ha anche richiesto più telemedicina, più 5G, più commercio digitale e il resto della sua lista dei desideri. Tutto in nome della lotta contro il virus. Schmidt ha poi aggiunto: «Il vantaggio delle corporation è che la loro capacità nella comunicazione, nella gestione della medicina, nel raccogliere informazione è profonda. (...) Le persone dovrebbero essere contente che queste aziende abbiano raccolto i capitali, fatto gli investimenti e costruito gli strumenti che ora stiamo usando e che ci hanno aiutato».

Fino a poco tempo fa contro queste società della grande tecnologia stava montando un movimento di opinione pubblica. I candidati presidenziali democratici parlavano apertamente di spezzettarle. Amazon aveva dovuto ritirare i piani per costruire un quartier generale a New York dopo una feroce opposizione locale. Il progetto Sidewalk Labs di Google passava da una crisi all’altra. In breve, è stata la democrazia - quello scomodo impegno pubblico teso a progettare le istituzioni e gli spazi pubblici critici - a rivelarsi il principale ostacolo alla visione che Schmidt porta avanti, prima dalla sua posizione al vertice di Google e Alphabet, poi da presidente delle due potenti commissioni consulenti del Congresso e del Dipartimento della Difesa. Dal punto di vista di uomini come Schmidt e il capo di Amazon, Jeff Bezos, questo scomodo esercizio di potere da parte dei cittadini e degli impiegati dei colossi della tecnologia, come rivelano i documenti della Nscai, ha rallentato marcatamente la corsa dell’intelligenza artificiale e tenuto lontane dalle strade flotte di auto e camion a guida autonoma, ha evitato che le cartelle cliniche delle persone diventassero un’arma nelle mani dei datori di lavoro contro i lavoratori, impedito che gli spazi urbani si tappezzassero da dispositivi e software di riconoscimento facciale e molto altro.

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Ora, con la pandemia e nella paura sul futuro che essa ha provocato, queste aziende hanno individuato un nuovo momento favorevole per spazzare via l’impegno democratico, e ottenere lo stesso tipo di potere che hanno i loro concorrenti cinesi, che possono permettersi il lusso di agire senza ostacoli quali diritti civili o dei lavoratori.

Le cose intanto si muovono rapidamente. Il governo australiano ha stipulato un contratto con Amazon per immagazzinare nel suo cloud i dati della controversa app di tracciamento del coronavirus. Anche il governo canadese ha stipulato un contratto con Amazon per la fornitura di attrezzature mediche, sollevando dubbi sul perché non l’abbia fatto con il servizio postale pubblico. In una manciata di giorni, all’inizio di maggio, Alphabet ha rilanciato una iniziativa del Sidewalk Labs per rifare l’infrastruttura urbana con 400 milioni di dollari di “seed capital”. Josh Marcuse, il direttore esecutivo della Commissione per l’innovazione nella difesa Usa (quella presieduta da Schmidt) ha annunciato che lascerà l’incarico per assumere il ruolo di responsabile della strategia e l’innovazione per il settore pubblico globale a Google: in altre parole, per aiutare Google a capitalizzare su alcune delle opportunità che lui e Schmidt hanno creato grazie al loro sforzo lobbista.

Che sia chiaro: la tecnologia è certamente una parte fondamentale di come nei prossimi mesi e anni si proteggerà la salute pubblica. La domanda, tuttavia, è: tale tecnologia sarà soggetta alla disciplina della democrazia e del controllo pubblico o sarà lanciata nel bel mezzo della frenesia dello stato di eccezione, senza lasciare il tempo per un dibattito sulle questioni cruciali che modelleranno la nostra vita per i decenni a venire? Per esempio, se stiamo effettivamente constatando quanto sia importante la connettività digitale in tempi di crisi, le reti e i nostri dati devono davvero stare nelle mani di attori privati quali Google, Amazon e Apple? Se il pubblico sborsa notevoli risorse per buona parte della connettività, non dovrebbe anche possedere con e controllare le reti e i dati? Se Internet è essenziale nella nostra vita, come chiaramente è, non dovrebbe essere considerato alla stregua degli altri servizi pubblici e non avere scopi di lucro?

Se da una parte non c’è dubbio che la possibilità di comunicare in teleconferenza sia stata un’ancora di salvezza in questo periodo di blocco, è anche doveroso un dibattito sul fatto che a lungo andare forse la migliore protezione sia quella delle persone. Si prenda l’istruzione: Schmidt ha ragione nel dire che le aule sovraffollate rappresentano un rischio per la salute, almeno fino a quando non avremo un vaccino. Perché allora non assumere un numero doppio di insegnanti e dimezzare le classi? Perché non garantire che ogni scuola abbia un infermiere? Ciò creerebbe posti di lavoro indispensabili in una fase di crisi.

I risultati del periodo di apprendimento remoto inoltre sono stati tutto fuor che rassicuranti. Oltre all’ovvia discriminazione sociale che ha colpito i bambini che a casa non hanno accesso a Internet o a un pc, sussistono domande importanti su quanto l’insegnamento remoto sia valido per molti bambini con disabilità, come richiesto dalla legge. E non esiste una soluzione tecnologica al problema di fare scuola in un ambiente domestico sovraffollato e-o abusivo.

Il quesito non è se le scuole debbano cambiare di fronte a un virus altamente contagioso. Il problema, come sempre in questi momenti di shock collettivo, è l’assenza di un dibattito pubblico sulla forma che dovrebbero prendere questi cambiamenti e chi ne dovrebbe beneficiare. Le società della tecnologia private o gli studenti?

Le stesse domande devono essere poste sulla sanità. Evitare gli studi medici e gli ospedali durante una pandemia è di buon senso, ma la telemedicina ha enormi limiti. Occorre discutere, sulla base di informazioni documentate, quali siano i pro e i contro del destinare le scarse risorse pubbliche alla telemedicina, invece di investirle negli infermieri per qualificarli e dotarli di dispositivi di protezione. E forse più urgente ancora è trovare il giusto equilibrio tra le app di tracciamento dell’infezione e l’idea di un corpo sanitario di comunità che darebbe lavoro a milioni di persone garantendo che tutti dispongano delle risorse materiali e del supporto necessario per tenere in quarantena in sicurezza le persone.

In entrambi i casi, affrontiamo scelte reali e difficili. Si tratta di scegliere se investire nelle persone o nella tecnologia. Perché la brutale verità è che, così come stanno le cose, è improbabile che si possano fare entrambe le cose. Le scuole, le università, gli ospedali e i trasporti sono davanti a scelte esistenziali.

Traduzione di Marina Parada?