Angela Davis: «È ora di costruire un movimento globale, contro il razzismo dagli Usa all'Italia»
Il Black Lives Matter apre una nuova stagione, per il mondo intero. Anche per altre questioni: economiche, sociali e di genere. La leader storica della sinistra americana si concede in un'intervista a tutto campo
«Se oggi sono libera è grazie alla straordinaria ondata di solidarietà internazionale che sprigionò il mio arresto. È la prima cosa a cui penso, dopo cinquant’anni. Devo la mia libertà anche all’Italia, al suo sostegno come a quello arrivato dall’Europa, dall’Africa, dall’America Latina».
Quando ripensa ai momenti terribili della prigionia nei primi anni ’70, Angela Davis conserva tra i ricordi più importanti anche le vigorose manifestazioni nel nostro Paese per chiederne la liberazione. Da Nord a Sud, risuonò il grido “Free Angela”; il volto fiero e volitivo stampato su magliette, bandiere, spille. Fu italiana anche la prima canzone incisa per lei, “Angela” di Virgilio Savona per il Quartetto Cetra (con un seguito di minacce e intimidazioni). Precedette perfino i tributi di John Lennon e Yoko Ono e dei Rolling Stones. Ma Davis non vive di nostalgia. E resta una rivoluzionaria. «È la forza di queste memorie che mi spinge a continuare a lavorare per costruire una più robusta rete internazionale», dice all’Espresso mentre da quattro settimane l’America ribolle, dopo l’uccisione di George Floyd, e chiede giustizia per gli afroamericani vittime della brutalità della polizia.
«Durante i mesi che ho trascorso in prigione ho imparato tanto, ho toccato con mano i problemi specifici che affrontano soprattutto le detenute. Nonostante le difficoltà, oggi vedo il mio periodo carcerario come un dono, perché mi ha permesso di porre le basi da cui si sarebbe sviluppata la traiettoria politica e militante che ha definito tutta la mia esistenza», dice Davis.
Settantasei anni cuciti addosso con il filo rosso delle sue lotte: per la giustizia, per l’uguaglianza, per i diritti degli afroamericani, delle donne, della comunità Lgbtq. Comunista, femminista, accademica. Amata e odiata con la stessa foga, Angela Davis è una leggenda, tra i più influenti attivisti e intellettuali americani di sempre. Un destino segnato sin dalla nascita, nel 1944, in casa di attivisti nell’Alabama segregato. A Birmingham, città simbolo del movimento per i diritti civili degli afroamericani, ribattezzata “Bombingham” per via dei frequenti attentati del Ku Klux Klan ai danni della comunità nera. Ma Angela andò via presto. Prima a New York, poi in Europa, per studio.
Allieva di Herbert Marcuse, a 26 anni fu licenziata dall’Università della California (Ucla) - dove insegnava filosofia - su pressione dell’allora governatore repubblicano Ronald Reagan, a causa delle sue idee politiche. Davis era membro del collettivo Che-Lumumba Club, la sezione nera del partito comunista americano, e delle Black Panther. Il 1970, l’annus horribilis: fu accusata di cospirazione, omicidio e sequestro di persona a seguito di una operazione delle Pantere Nere nell’aula di un tribunale nella contea di Marin a San Rafael in California. L’azione di forza, in cui persero la vita quattro persone, era legata alla campagna per il rilascio dei Soledad Brothers, afroamericani, a cui aveva aderito Davis. Pur essendo estranea ai fatti, finì tra gli imputati. [[ge:rep-locali:espresso:285345743]] Dopo una fuga a New York, fu arrestata il 13 ottobre. Restò in carcere diciotto mesi rischiando la camera a gas, ma venne assolta nel ’72. Oggi è docente emerita di Storia della Coscienza e di Studi Femministi all’università di Santa Cruz, in California. Continua a occuparsi di politica americana e internazionale (soprattutto la questione palestinese). L’abolizione delle prigioni è il suo rovello. Ha fondato Critical Resistance, un’organizzazione che teorizza lo smantellamento del sistema industriale delle carceri americane che Davis considera «istituzioni brutalizzanti e capitalistiche; l’espressione più drammatica del razzismo strutturale, che ha portato all’incarcerazione di massa di afroamericani e latini». È convinta che la lotta sia una faccenda collettiva: «Per fare in modo che le cose inizino a cambiare davvero, dobbiamo incoraggiare le persone a far sentire la loro voce». In un momento storico in cui «il neoliberismo cerca di costringere la gente a pensare solo in termini individuali». È la tesi centrale di uno dei suoi ultimi lavori: “La libertà è una lotta costante: Ferguson, la Palestina e le basi per un movimento” (edito anche in Italia, Ponte alle Grazie, 2018). Una battaglia che deve essere anche «internazionale», capace di unire le proteste di tutto il mondo contro i mali del capitalismo, intrinsecamente correlato al razzismo.
Nella sua casa di Oakland, California, Davis fa il punto con L’Espresso delle sfide che affrontano gli Usa oggi: la pandemia, le manifestazioni, Black Lives Matter. E le elezioni di novembre, in cui sarà essenziale «liberarci dell’attuale presidente», dice riferendosi a Donald Trump, senza mai nominarlo.
Professoressa Davis, in cosa le battaglie che oggi combatte sono simili o diverse da quelle che lei ha sostenuto cinquant’anni fa? «Ovviamente si tratta di momenti politici molto diversi. Al tempo fu possibile generare la solidarietà internazionale su questioni radicali, soprattutto perché esisteva l’internazionalismo comunista. I partiti comunisti di tutto il mondo erano in prima linea nelle campagne per la mia liberazione. La lezione che possiamo imparare è sicuramente la necessità di unirci a chi nel mondo lotta per un futuro migliore, più democratico. Credo che oggi più che mai sia importante sollevare critiche al capitalismo. È necessario spostarci verso un sistema economico e sociale più giusto, equo».
Nonostante il clamore mediatico delle proteste sia ancora vivo, un altro afroamericano disarmato, Rayshard Brooks, è stato ucciso dalla polizia ad Atlanta. Nei giorni precedenti, lei si era detta molto ottimista, sostenendo di non aver mai vissuto un momento di sfida così forte al razzismo. Ne è ancora convinta? «C’è una reale possibilità che si arrivi a un cambiamento profondo di trasformazione nel prossimo futuro. Certo, dipenderà molto dai passi che faremo per istituzionalizzare alcune delle richieste emerse durante le proteste Black Lives Matter: cambiamenti radicali, applicazione di una strategia abolizionista, che non si accontenti di mantenere la struttura della polizia com’è, semplicemente riformandola. Sono convinta che ci siano molte persone in questo Paese determinate ad andare avanti e non indietro».
La soddisfa l’ordine firmato da Trump, che prevede sovvenzioni alla polizia per i training sull’uso della forza e un database sui comportamenti sbagliati degli agenti? «No, è la struttura in sé che deve cambiare. Per eliminare il razzismo strutturale è fondamentale modificare la natura stessa della polizia. Io sono a favore di un taglio netto ai finanziamenti e dello sviluppo di nuovi canali per garantire la sicurezza pubblica. Condivido la decisione del dipartimento di Minneapolis (la città in cui è stato ucciso Floyd) di smantellare il dipartimento di polizia e di iniziare a pensare un altro modello di sicurezza pubblica. Questo è l’esempio, non una semplice riforma delle forze dell’ordine».
Come si spezza la catena del razzismo sistemico nella polizia degli Stati Uniti? «La prima cosa da fare è riconoscere che il razzismo è endemico nell’attuale struttura delle forze dell’ordine. La questione è legata al modo in cui si è sviluppata la storia di questo Paese, in particolare il periodo della schiavitù. Le pattuglie che sorvegliavano gli schiavi, ad esempio, hanno giocato un ruolo importante nel modo in cui poi la polizia si è formata. Inoltre, abbiamo avuto e continuiamo ad avere gruppi come il Ku Klux Klan. Credo che il suprematismo bianco che affligge i dipartimenti di polizia debba essere riconosciuto e sradicato».
Black Lives Matter riuscirà a portare la sua energia rivoluzionaria anche fuori dai confini americani? «Il razzismo è una questione globale, perché nasce da un fenomeno storico mondiale. Le varie forme a cui assistiamo, sono connesse e comunque profondamente collegate al colonialismo e alla schiavitù. Quello che accade in Europa (soprattutto in relazione all’aumento del flusso migratorio) o nelle Americhe, ha precedenti storici. La mia impressione è che negli Usa sia iniziata una presa di coscienza del razzismo strutturale durante la recente pandemia, quando un sostanzioso numero di afroamericani, latini e altre minoranze, è stato colpito duramente dal virus. Queste comunità sono risultate tragicamente vulnerabili. Ecco, morire a causa della pandemia ci ha reso più consapevoli del significato di quegli otto minuti e 46 secondi, la durata delle immagini video in cui abbiamo visto George Floyd venire ucciso. Le proteste che sono scoppiate in tutto il mondo sono un forte indicatore della rilevanza delle manifestazioni e delle lotte in un contesto globale».
Potrebbe diventare in futuro un movimento politico? «Lo è già dal 2014, quando è stato ucciso l’afroamericano Michael Brown. Le proteste da Ferguson, Missouri, hanno coinvolto l’Europa e altre parti del mondo. Il movimento esiste, dobbiamo però capire come tradurre le istanze in cambiamenti concreti a livello politico, sociale ed economico».
Trump è sordo a queste rivendicazioni. Lei, professoressa, ha speranza nel suo avversario democratico alle elezioni di novembre, l’ex vice presidente Joe Biden? «L’attuale presidente dovrebbe dimettersi. Le proteste che da settimane occupano le strade del Paese sono anche contro la sua amministrazione. L’obiettivo è traghettare questa energia alle elezioni, per creare una nuova arena politica. Sono ottimista, sono sicura che riusciremo a liberarci, che le persone voteranno e continueranno a chiedere una forte trasformazione istituzionale. Non è però detto che chi gli succederà incoraggerà questi cambiamenti. Ecco perché bisogna eleggere un candidato che dia maggiore importanza all’attivismo, che espanda lo spazio entro cui si possano fare pressioni all’amministrazione, a prescindere dalla sua storia».
Ma Biden può essere considerato il presidente del cambiamento? «Mi spiace l’idea di dover sostenere lui pur di assicurare la cacciata dell’attuale presidente. Non credo che Biden ci guiderà verso la direzione del cambiamento. Ma quello che potremo fare è mettergli pressione, come non è possibile ora. La mia posizione è questa: tra cinque mesi, il punto non sarà votare per Joe Biden, ma per noi stessi. Dobbiamo votare per continuare ad aver la possibilità di impegnarci, di fare attivismo, per mettere pressione a chi è al potere, affinché venga promosso il cambiamento».
Come vede il fatto che potrebbe scegliere una vice afroamericana? «Sarebbe positivo. Non posso dire con certezza che questo condurrà automaticamente a dei cambiamenti nella sua politica, però potrebbe portare un certo simbolismo nell’arena elettorale».
Siamo alla vigilia di uno storico anniversario, cento anni dalla ratifica del 19esimo emendamento della costituzione americana che nell’agosto del 1920 garantì il diritto al voto delle donne. Quanto il voto femminile ha cambiato gli Stati Uniti? «Non credo abbia inciso molto. Ovviamente fu una battaglia importante, ma i risultati delle elezioni non mutarono sostanzialmente dopo il voto delle donne. Bianche. Le afroamericane dovettero aspettare il Voting Rights Act del 1965 per accedere liberamente alle urne; tentarono di supportare ed anche criticare il movimento per il suffragio delle donne, ma in quel frangente si riprodussero in un microcosmo tutti i problemi legati al razzismo. Pensate a Ida B. Wells, attivista principale del movimento contro i linciaggi. Quando nel 1913 andò a Washington per partecipare alla marcia delle suffragette, le fu impedito di sfilare con la sua delegazione dell’Illinois, fu invitata a marciare in coda, per non contrariare le donne del Sud. Ebbene, quel momento rappresenta perfettamente quello che è accaduto continuamente nella storia di questa nazione. Ed è il motivo per cui oggi siamo a questo punto».
Gli otto anni di amministrazione Obama hanno fatto i conti con un’America polarizzata. Guardandoli in prospettiva come giudica i suoi due mandati? Cosa le è piaciuto e cosa no? «Sicuramente il fatto che debba la sua elezione a un movimento di massa. Le persone volevano un cambiamento e lui era l’uomo di sinistra giusto, soprattutto perché i giovani credevano che a quel punto della nostra storia sarebbe stato possibile eleggere un presidente nero. La connessione tra movimento di massa, battaglie antirazziste e lavoro, per esempio, è stata importante. Quello che invece non mi è piaciuto è che non sia riuscito a sviluppare una politica capace di spingerci in direzione del cambiamento. Non mi sono piaciuti il militarismo, le guerre, l’incapacità di affrontare alcune delle questioni politiche e sociali. Però ovviamente, paragonata a quella attuale, l’amministrazione Obama ora sarebbe la benvenuta».
Quando l’arrestarono nel 1970, il presidente Nixon si congratulò con l’Fbi per aver catturato una “pericolosa terrorista”. Oggi, Trump definisce terroristi gli Antifa, i gruppi di attivisti radicali antifascisti. È per lei un ritorno a 50 anni fa? «All’epoca, molti di noi pensarono che Nixon fosse il peggior presidente possibile. Il tempo ci ha dimostrato che quella non fu un’analisi accurata. L’elezione dell’attuale presidente si può considerare una minaccia regressiva, un tentativo di invertire la tendenza della storia e far ritorno al periodo della supremazia bianca. L’attuale amministrazione è razzista, misogina. I suoi interessi sono opposti a quelli della classe media dei lavoratori e dei poveri. Intende accelerare il processo di cambiamento climatico. È imperativo ora generare le possibilità che portino nella direzione di una democrazia radicale».
Come Nixon, anche Trump sostiene che “la maggioranza silenziosa” stia con lui. Quanto davvero la sua amministrazione riflette il Paese? «La gente inizia ad avere voce. Non credo si possa parlare ancora di “maggioranza silenziosa”. Secondo le mie analisi e quelle di molti altri, la maggioranza oggi è rappresentata da chi sta scendendo nelle strade a manifestare. Questo indica che per la prima volta l’opinione pubblica si è radicalmente spostata. Ecco perché direi che i suprematisti bianchi, i razzisti sono una minoranza».
Gli ultimi anni hanno visto un balzo in avanti delle destre in Italia come in molti altri Paesi europei, avanzata spesso tradotta in una caccia all’immigrato. Che cosa ha sbagliato la sinistra internazionale e cosa deve fare oggi per tornare a contare? «Abbiamo bisogno di un movimento contro il capitalismo globale. Non ci siamo ancora riusciti. Sembrerebbe che, grazie alle nuove tecnologie di comunicazione, ai social media, sia più facile creare movimenti globali, ma non l’abbiamo fatto. Dobbiamo essere molto critici con noi stessi e impegnarci in una direzione che ci porti a costruire questo movimento internazionale. In modo che quando ci opporremo al razzismo, non ci riferiremo solo agli Stati Uniti, ma anche a quello in Brasile, in Francia. E in Italia».