Gli spazzini fantasma di Città del Messico decimati dal virus e dalla povertà
Sono ventimila netturbini "informales”. Volontari che raccolgono spazzatura in cambio di mance o per riciclare qualcosa. Non possono permettersi il lockdown, se si ammalano non possono curarsi. Muoiono a decine e l'unico omaggio è un post su una pagina Facebook
Vivere o morire. Restare tappati in casa per non ammalarsi, uscire in strada e raccattare qualcosa per mangiare. Non è un’equazione retorica, una considerazione astratta di una realtà più complessa, la banalizzazione sulle disuguaglianze che affliggono il mondo, sulla ricchezza sempre meno distribuita e saldamente nelle mani di un pugno di famiglie che possiedono quanto tutto il resto degli abitanti del pianeta. È lo spartiacque di un’esistenza: una di quelle scelte senza alternative che affliggono 400 milioni di persone dell’America Latina.
Sono i cosiddetti “informales”, gli ambulanti, gente senza diritti e protezione, quelli dei mercatini per strada, che improvvisano ruoli e lavori, che riempiono i vuoti nella filiera produttiva. L’80 per cento dell’economia sommersa, il motore di interi Paesi che il Covid-19 ha trasformato in una bomba sociale. Il presidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro la usa per restare in sella, oscillando tra clorochina e gripezinha e negare così il virus; il messicano Andrés Manuel López Obrador, sul lato opposto di uno stesso populismo, fa finta di ignorarla, come un’ovvietà che gli consente sempre di stupirsi e di indignarsi, con disincantata ipocrisia, una volta esplosa.
Tra gli ultimi degli ultimi, gli invisibili del Messico emersi dalle pieghe del mostro che ha cambiato tutto per lasciare, peggiorandola, ogni cosa al suo posto, ci sono gli spazzini. Non tanto i 14 mila addetti ufficiali alla nettezza urbana, inquadrati con assistenza e diritti, pagati male ma ogni mese. Parliamo degli altri 20 mila che ufficialmente non esistono. Il gradino più basso della scala che porta all’inferno e che questo Covid-19, nei giorni del lockdown, ha posto di fronte a una scelta che è stata vitale. Nessuno lo sapeva, i dati epidemiologici non li consideravano: ma grazie a un profilo aperto su Facebook si è scoperto che oltre i 250 morti registrati a Città del Messico a fine maggio, c’erano altre 50 vittime inghiottite nel nulla dove hanno sempre vissuto. Altri 750 si sono infettati e stanno combattendo in misere tane contro febbre e polmoni infuocati.
Le loro storie, con tanto di foto, sono apparse sul social di Zuckerberg grazie all’iniziativa del figlio di una delle vittime. Voleva ricordare il padre e denunciare le difficili condizioni in cui era stato costretto a lavorare prima di ammalarsi e morire. È stato un attimo: nel giro di due giorni la pagina si è riempita di altri nomi e altre foto, con testimonianze di amici, colleghi, compagni e compagne di vita e di stenti. Lo spaccato di un Messico che tutti conoscono ma pochi considerano. Perché fa comodo così.
Patricia è una volontaria. Come Natalia, Pedro, Inácio, Pablo, Carlos. Nessuno di loro sa cosa significhi vivere in quarantena. Il lockdown applicato alla fine anche da “Amlo”, come viene chiamato il presidente di sinistra, lo hanno trascorso sempre per strada. Il collega del País di Città del Messico ha ripreso molte loro testimonianze: sembrano tutte uguali. Dodici, spesso quattordici ore vagando per i quartieri trascinandosi un carretto dove ammassare l’immondizia lasciata dagli abitanti agli angoli o sui marciapiedi e che il servizio comunale di raccolta lascia come elemosina a questo esercito di fantasmi.
«Usciamo verso le 3 di notte», spiega Patricia che oggi ha 37 anni e fa questo lavoro da quando ne aveva 13. «L’aria è più fresca e si evitano le ore più calde. Per proteggerci abbiamo una mascherina, l’unica che ci fornisce l’amministrazione e che usiamo fino a quando non è consumata. Per il resto ci arrangiamo. Calziamo dei guanti duri e spessi, e un telo di plastica che adattiamo per coprirci il corpo. Con me porto sempre una bottiglietta di gel antibatterico o di cloro. L’acqua, da noi, è un bene troppo prezioso. Non si trova».
Patricia chiama con orgoglio “chamba”, lavoro, la sua attività, anche se è sprovvista di copertura sanitaria e assistenziale. Vaga di strada in strada raccogliendo i sacchetti che la gente lascia davanti al portone ricevendo in cambio qualcosa da mangiare, spesso i resti dei pranzi portati a casa dalle botteghe all’angolo che sfidano il coronavirus preparando cibo con le serrande semiabbassate. Perché la quarantena impone il blocco totale: niente attività, bar e ristorantini chiusi, mercati sprangati, lasciando libero solo chi è obbligato a uscire per non morire di fame.
Questo esercito di 20 mila fantasmi sopravvive con le mance. «Se la giornata è buona», aggiunge Patricia, «raccatto anche 100 pesos (6 dollari). Ma so che il mio lavoro è essenziale, come i medici, gli infermieri, i distributori di cibo e medicine. So anche però che rischio ogni giorno di infettarmi. Tocco cose che possono essere piene di virus e con i guanti che non mi tolgo mai è difficile lavarsi le mani o passarsi il gel». A fine giornata svuota il suo carretto e separa le cose che può rivendere. Elenca i prezzi sul mercato nero. Un chilo di lattine: 14 pesos, un chilo di plastica, quattro; stessa cosa un chilo di cartone. «Raramente però», dice, «raggiungo queste quantità». Per avere il minimo e poter mangiare deve aggiungere altro materiale che ricicla. Ma con il lockdown e la gente tappata in casa si trova sempre meno tra gli scarti. «Molti sono andati nelle case di campagna», aggiunge Patricia, «e questo ha ridotto i guadagni. Prima della pandemia riuscivo a raggiungere i 150 pesos, oggi se sono fortunata arrivo a 30».
Secondo il Registro dei Residui Solidi del 2018, la capitale messicana deve smaltire ogni giorno 13 mila tonnellate di spazzatura. Un quarto è raccolto dagli informali. Oscar Ruiz, 29 anni, da 13 volontario della ramazza, vive in un quartiere dove ci sono 4.070 casi di Covid-19, altri mille potenziali infetti e 578 morti. È stato lui a ricevere il primo messaggio che segnalava la morte di un collega. Era il figlio di un autista dei camion del servizio ufficiale e gli chiedeva di pubblicare la notizia sulla pagina Facebook che Ruiz aveva creato. Da quel momento il profilo è diventato un vero necrologio, con oltre 40 note di commiato accompagnate da altrettante foto. Tutti morti per la pandemia sul lavoro. «Il virus», denuncia, «si è infilato tra di noi. Una settimana fa è morto uno dei mei zii e suo fratello è in isolamento perché sta male. Campano tutti con l’immondizia. Non poter uscire lo costringe a digiuni forzati».
I cinquanta decessi resi ufficiali hanno spinto la sindaca di Città del Messico, Claudia Sheinbaum, a dare visibilità a un pezzo di mondo che non esiste. Almeno per una volta. Ha raccolto l’invito di Tania Espinosa, coordinatrice per il Messico di Wiego, organizzazione internazionale che appoggia gruppi di lavoratori informali. Nell’appello della Ong si ricorda che nel 2016 la Commissione dei Diritti Umani aveva sollecitato il governo della Capitale a migliorare le condizioni di chi pulisce le strade come volontario fornendo il minimo garantito a tutti: uniformi, strumenti di protezione e un’assicurazione sociale che faccia sopravvivere, in caso di morte, vedove e orfani. La sindaca si è impegnata ma nel frattempo ha chiesto ai diversi amministratori dei quartieri di seguire i protocolli con più rigore. «In realtà», aggiunge Ruiz, «si limitano a misurare ogni tanto la temperatura a chi incontrano per strada».
Lasciati vagare senza protezione e garanzie perché essenziali a un circuito di raccolta che si basa anche sugli invisibili, questi 20 mila spazzini sfidano il Covid-19 come in una roulette. La maggioranza abita a Iztapalapa, un quartiere di 1,8 milioni di abitanti che ha raggiunto i 6mila contagi e 718 morti. «Sappiamo e vediamo quello che accade», scrive ancora questo giovane diventato portavoce degli illegali, «ma non abbiamo scelta. Non possiamo fermarci. Siamo comunque a rischio. Sia se esci dal quartiere e vai a raccogliere gli scarti, sia se resti a casa senza cibo». Daniel Rodriguéz, 51 anni, lancia ogni mattina all’alba il pallino della sfida. Racconta la storia di Reimundo Flores, 43 anni, suo collega. «Lavoravano insieme. Una sera Reimundo si è sentito male. La famiglia è riuscita a portarlo in ospedale e dopo una settimana è morto. Faceva l’autista. Dietro nostra insistenza hanno deciso di disinfettare il camion. Ma tutti quelli che lavoravano con lui li hanno spediti in quarantena».
Rodriguéz è convinto che il suo amico si è infettato sulla strada che lui stesso segue raccogliendo ciò che resta a terra. «Lavoravamo alla colonia Pedragal de Santo Domingo», ricorda, «nel distretto di Coyoacán». Qui, secondo i dati ufficiali, l’acqua arriva poche ore al giorno e ci sono oltre mille contagiati. «È stato un caso se non mi sono infettato anche io. Un abitante che incontravo spesso mi ha avvertito che la spazzatura che andavo a raccogliere era di una palazzina dove c’erano stati dei morti da coronavirus».
Sony Gómez è troppo depresso per parlare. Il suo profilo sulla pagina Facebook degli spazzini è un collage di foto del padre Antonio, anche lui autista del camion dove ha contratto il virus che lo ha messo a letto con febbre altissima e poi ucciso. Racconta il fratello Alejandro, lo zio di Sony: «Tre giorni prima chi lo aveva visitato mi disse che aveva della febbre e che doveva stare a riposo fino a quando gli sarebbe passata. Il giorno che è morto ha chiesto dell’acqua, l’ha bevuta, si è di nuovo sdraiato e un infarto l’ha fulminato».
I 20 mila fantasmi di Città del Messico non sono un’eccezione. Fanno parte di quel 1,6 miliardi di uomini e donne che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo, in italiano Oil) considera a rischio di povertà estrema. Nel suo ultimo rapporto l’Ilo sostiene che senza contenimento della pandemia sono destinati a infoltire l’economia sommersa, il lavoro nero, l’ultimo gradino di un mondo dove il Covid-19 ha finito per esasperare le distanze sociali gettando nel pozzo dell’indifferenza anche chi finora ha tenuto in moto il circuito dell’economia informale.
Senza nuove entrate, commenta il rapporto, in alcuni Paesi come il Brasile e il Messico, nonostante i soldi distribuiti sotto forma di sostegno temporaneo, l’indice di povertà tra gli informali crescerà di 21 punti nelle aree con redditi medi, di 52 con quelli alti e di 56 tra i bassi, i più colpiti dalla pandemia. Un cane che si morde la coda. «Se i lavoratori del nero si ammalano, non hanno accesso ai servizi sanitari né diritto ai sostegni finanziari; se non possono curarsi il virus dilaga con maggiore velocità; se invece ricorrono alle cure sono costretti a dare fondo ai loro piccoli risparmi, si indebitano e vendono il poco che hanno», spiega l’Ilo. Una spirale infinita che rischia di gettare nel lastrico milioni di famiglie e infoltire gli spazzini senza volto di Città del Messico.