Solo il Sud può salvare l'Europa (e ora lo ha capito anche Angela Merkel)
Dopo aver guardato e aver appoggiato per troppo tempo solo i paesi del Nord e dell'Est, la Germania scopre che l’Unione può avere un futuro soltanto grazie ai paesi meridionali
di Donatella Di Cesare
28 luglio 2020
Angela MerkelSi potrebbe dire: «benvenuti nell’Europa del post-covid!». Ad attestarlo è lo storico accordo raggiunto. Malgrado i timori, le preoccupazioni, gli interrogativi, almeno questo è certo: la pandemia, una catastrofe epocale che ha già scosso vecchi dogmi politici, polverizzato assiomi economici, cambiato profondamente le abitudini, non lascia immutato il contesto europeo. Proprio per ciò è lecito fare già un primo bilancio e azzardare qualche previsione.
Certo, molti cittadini europei, in particolare quelli del sud, italiani, spagnoli, francesi, non riusciranno facilmente a dimenticare una iniziale mancanza di solidarietà. La concorrenza selvaggia è giunta persino al rifiuto medico di spedire materiale sanitario (respiratori, mascherine, igienizzante) a chi ne aveva urgente bisogno. All’inizio della pandemia abbiamo visto l’Europa che ci indigna e che non vogliamo più. Nessun senso del comune, nessun pensiero della comunità.
È accaduto così che in un paese costitutivamente europeo ed europeista come l’Italia sono affiorati seri dubbi. D’altronde malanimo e risentimento si erano insinuati già da tempo. In quei giorni drammatici e concitati abbiamo dovuto chiederci che cosa sarebbe l’Italia senza l’Europa, ma anche che cosa sarebbe l’Europa senza l’Italia. La questione - è inutile dirlo - si è imposta anche fuori.
Forse per la prima volta, dal dopoguerra, l’irreversibilità dell’unificazione non è parsa più ovvia. Implosione, scissione - o anche solo lento smembramento? Molti si sono chiesti se si fosse dissolto per sempre il sogno europeo, se fosse andato in frantumi l’ambizioso progetto politico, etico, culturale, che ha mobilitato le coscienze e lasciato un’impronta indelebile nella vita dei cittadini, soprattutto lungo gli ultimi decenni. Giunte in piena pandemia, le risposte dell’Unione Europea sono state da subito un segnale positivo. Già solo perché è stato scalfito il dogma della subordinazione della politica all’economia. La prova sta nel recovery fund, quel fondo di recupero, di soccorso, pensato in particolare per i paesi più colpiti.
E tuttavia l’Europa resta ancora di fronte a un bivio, a un’alternativa ultima e perciò definitiva. Che proprio questo periodo coincida con la presidenza tedesca, cominciata il primo luglio, sembra un sincronismo segreto, una coincidenza per nulla casuale, quasi una sorta di nemesi storica.
In che modo agirà la Cancelliera che, negli anni, ha fatto della prudenza la cifra della sua politica? La domanda è tanto più decisiva se si considerano le imponenti sfide in uno scenario dove tutto sta cambiando rapidamente sotto i nostri occhi. Non si tratta più soltanto di conservare e restaurare. Come ha affermato di recente Viktor Elbling, l’ambasciatore tedesco in Italia: «Il nostro motto è “rilancio” dell’Europa, e non “ricostruzione”. Non dobbiamo tornare all’Europa com’era prima della pandemia, ma rilanciare tutti insieme un’Europa più solidale, più verde, più innovativa, più digitale».
Nell’inaugurare il semestre di presidenza al parlamento europeo Angela Merkel ha pronunciato parole molto chiare che sono state riprese dai media e condivise dalla maggior parte dei suoi concittadini. «Insieme. Rendere di nuovo forte l’Europa». Gemeinsam in tedesco non vuol dire solo “insieme”, ma significa anzitutto “comune” e rinvia alla comunità.
Chi in questi mesi ha avuto modo di seguire il dibattito in Germania sa che l’opinione pubblica tedesca ha mutato atteggiamento. E ciò non va ricondotto unicamente alla partecipazione con cui sono state vissute soprattutto le drammatiche vicende italiane. Non è solo carica emotiva destinata a dileguarsi rapidamente. Sono almeno due le novità che promettono di essere durature. Per un verso la Germania non appare più saldamente legata come prima all’asse del nord-est. Anzi il gruppo di Visegrád, con i suoi regimi parademocratici, è motivo di allarme, mentre i “pieni poteri” di Orbán sono visti come un’intollerabile provocazione. Ma è ormai fonte d’imbarazzo anche l’insolenza di un premier come l’olandese Mark Rutte preoccupato - com’è emerso durante le trattative - solo del proprio interesse interno. La Germania si candida a governare e a mediare. Difficilmente, questa volta, abbandonerà il sud, in particolare l’Italia. Di qui il secondo aspetto, cioè l’inedita responsabilità che i tedeschi avvertono. È inutile nasconderlo: molto dipenderà dalle scelte di quella nazione, nel cuore del vecchio continente, a cui la storia oggi affida in gran parte il destino dell’Europa.
Riuscirà la Germania di Angela Merkel a compiere questo grande salto? Il terribile passato del Novecento pesa ancora sul ruolo complesso del paese che, troppo spesso considerato frettolosamente un blocco monolitico, dal dopoguerra si dibatte invece tra tensioni e spinte diverse. Assumere il compito politico centrale rischiando vecchie accuse di predominio o affidarsi piuttosto alla potenza economica? L’impasse della Germania è lo stallo dell’Europa.
Ma le cose sono cambiate a più di trent’anni ormai dalla riunificazione. Anche la Cancelliera, che si è sempre rivolta molto - troppo? - a est e a nord, sembra pronta a guardare attentamente altrove. Se ormai sono palesi i limiti dell’angusto patto carolingio con la Francia, viene sempre più alla luce la consapevolezza di aver trascurato il sud. Come dimenticare il trauma della Grecia? Quando Ursula von der Leyden, parlando il 13 giugno agli Stati Generali, ha detto «l’Europa s’è desta», non accennava emblematicamente solo all’inno italiano, ma rinviava forse anche a un testo famoso di Peter Sloterdijk, “Se l’Europa si ridesta”, in cui il filosofo esorta a non copiare gli Stati Uniti.
Oggi, con l’ondata pandemica, la differenza viene ancor più alla luce, insieme a quella spietatezza che caratterizza una democrazia basata sul paradigma immunitario, in grado di tutelare solo chi ha già diritti, ricchezza, protezione. Gli altri possono essere abbandonati. L’Europa, patria dei diritti umani, non può assecondare la grammatica immunitaria dell’odio.
Eppure non si può ignorare il persistente razzismo, quello intraeuropeo, che colpisce i paesi del sud, e quello gravissimo della discriminazione sistematica contro i migranti. Il patto con la Turchia e ancor più quello con la Libia sono ferite aperte. Malgrado il coraggio mostrato nel 2015, Merkel non è per nulla innocente. Forse anche per questo nel suo discorso di apertura ha scandito il termine «odio» riferendosi alle forze sovraniste che potrebbero «trarre vantaggio» dalla crisi economica scatenata dal coronavirus. Non è un’ipotesi complottistica, bensì un invito a «non essere ingenui». E la Cancelliera ha tutto l’interesse a fermare, anche all’interno, l’avanzata dei nazionalismi esplicitamente antieuropei.
Il coronavirus mostra quanto grottesche siano le frontiere dei sovranisti e insegna l’intelligenza della solidarietà. Merkel insiste sulla «solidarietà europea», che non è solo un gesto umano, ma un investimento per il futuro. Il dogma dell’«austerità», che ha provocato una competizione generalizzata tra i paesi europei, appare sempre più un tragico spettro del passato. La Brexit, malgrado i problemi spinosi che comporta, potrebbe significare anche un allontanamento dal liberismo anglosassone estraneo alla tradizione europea.
Le democrazie nazionali sono sempre più incapaci di affrontare le questioni che trascendono ormai i singoli stati. Una leadership europeista non può non agire in questo spazio politico transnazionale. È qui che deve delinearsi la nuova forma politica dell’Europa in grado di rispondere anche al suo decisivo ruolo globale.