I sei mesi di Angela Merkel presidente dell'Europa: ecco cosa dobbiamo aspettarci
La Germania ha pilotato la crisi con la commissione di Ursula Von Der Leyen e ora comincia il semestre di presidenza di turno affidato alla Cancelliera. Con un programma radicale
Uniti. Con questa parola la Germania si prepara ad assumere il primo luglio la sua tredicesima presidenza dell’Unione europea e la più importante presidenza degli ultimi vent’anni. Straordinarie sono le circostanze economiche e geopolitiche dei prossimi mesi. Inedito il tandem dei leader che le gestiranno: due donne tedesche, colleghe da tempo.
Berlino sente la responsabilità che il Vecchio Continente ha riposto sulle sue spalle di Paese ricco, grande e influente, e non vuole fare errori. Non questa volta, non in occasione di quella che, giocando sulle parole, a Bruxelles già definiscono la “presidenza con la corona”.
Il messaggio lanciato dal sito appena creato ad hoc perché sia udito dentro e fuori i confini dell’Unione lo sottolinea senza falsi pudori: «Uniti, renderemo l’Europa di nuovo forte». Nel riecheggiare lo slogan trumpiano “make America great again”, se ne distacca in maniera netta con la forza di quell’unico aggettivo: uniti. «Adesso c’è bisogno che la Germania si faccia carico di unire i popoli europei», dice Manfred Weber, il leader tedesco del partito popolare nel Parlamento europeo, anche lui convinto che nessun Paese europeo, nemmeno il suo, possa fronteggiare da solo una grande crisi economica e tantomeno collocarsi tra i vincitori dell’epocale ridistribuzione del potere mondiale che stiamo vivendo.
Nei prossimi mesi le cose da fare sono tante e tutte cruciali: dal rilancio economico ad una nuova legge europea sull’immigrazione, dalla rivoluzione verde a quella digitale, dalla chiusura di Brexit alla Conferenza sul futuro dell’Europa, dall’attribuzione di qualche potere in materia sanitaria all’Unione europea ai difficili rapporti con Stati Uniti e Cina. Qualunque azione intrapresa e non conclusa verrà poi portata avanti dai due Paesi che si succederanno alla presidenza, il Portogallo e la Slovenia, estendendo a 18 mesi il lasso di tempo in cui trasformare i progetti in azioni.
Ma tutto gira intorno ad una sola questione cruciale che, complice la crisi del Covid, Angela Merkel ha intuito: le regole attuali, siano il rigore fiscale o l’unanimità di voto in sede di Consiglio europeo, non garantiscono più la sopravvivenza del progetto europeo. Serve un’altra Europa, un’Europa unita e solidale contro il mondo esterno. «Il Covid ci ha messo di fronte a una crisi esistenziale, ed è per questo che la Germania ha preso un’iniziativa che nessuno si aspettava», dice Michael Clauss, diplomatico di lungo corso e rappresentante della Germania presso le istituzioni europee.
Il riferimento è al Fondo di rilancio europeo da 500 miliardi senza rimborso a sostegno delle economie più colpite dal Covid, elaborato da Angela Merkel con il presidente francese Emmanuel Macron, e poi affinato nei dettagli dalla presidente della Commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen. Perché senza soldi non esiste progettualità. «Questa è la priorità assoluta della presidenza», dice Clauss: «Dobbiamo chiudere l’emergenza sanitaria e rilanciare l’economia».
Merkel, per anni considerata crudele guardiana degli interessi del nord Europa, ha compiuto ideologicamente un’inedita inversione a U mettendo nero su bianco che o la Germania (e gli alleati del nord Europa) dimentica le regole dell’austerità e s’indebita (parola fino ad oggi tabù) per finanziare non solo le proprie imprese - gioco facile avendo un avanzo di bilancio - ma anche quelle di Paesi in deficit cronico come Italia e Spagna, o si troverà presto in enormi difficoltà, priva di risorse e di mercato interno.
«Non è beneficenza ma visione del futuro», riassume Katrin Boettger, direttrice dell’Istituito per la politica europea di Berlino. Gli imprenditori tedeschi non possono fare a meno dei fornitori italiani e nessuno si può permettere che un Paese chiave come l’Italia finisca per essere guidato da un’estrema destra spinta dalla rabbia popolare contro un’Europa “inutile” e una Germania “dannosa”. Quei soldi vogliono essere la dimostrazione che la “Next Generation Eu”, “la prossima versione dell’Europa”, sarà davvero diversa da quella post Grande crisi del 2008.
«Non è retorica alla Macron», dice Weber, «ma fatti concreti da parte di una leader che sarà ricordata per la sua fede nell’Europa».
Il Consiglio europeo dei primi di luglio, quando, dopo l’apertura delle frontiere europee, i capi dei 27 si vedranno di persona per la prima volta dall’inizio della pandemia, ambisce ad essere il momento della svolta. L’obiettivo è l’approvazione del piano, dopo avere convinto i cinque Paesi recalcitranti (Olanda, Svezia, Austria, Danimarca e pure la Finlandia femminista). «Non sarà facile, ci potranno essere modifiche di somme e qualche condizione», dice Clauss. Ma il risultato finale non dovrebbe allontanarsi molto dai 500 miliardi di sovvenzioni a fondo perduto e 250 di prestiti. «Il momento è talmente storico che nel Parlamento europeo tutti i partiti hanno messo da parte l’ideologia, salvo quella destra che non crede nel progetto europeo», dice Iratxe García Peréz, la leader dei socialisti europei: «Questa volta al centro dell’azione della Ue non ci saranno le banche ma le persone».
Certo non era proprio questa la presidenza che la Germania aveva preparato in ogni suo dettaglio già a marzo, prima dello scoppio della crisi del Coronavirus. Nella sua versione originaria il programma si sarebbe concentrato sul Green Deal e sulla svolta digitale, sulla gestione dei rapporti commerciali con la Cina e sul trovare una soluzione alle continue incursioni contro lo Stato di diritto e i valori europei da parte di Polonia e Ungheria. Oltre che naturalmente sulla conclusione della Brexit e sulla definizione del budget pluriennale.
Ma se ha reso remota la possibilità d’azione su temi come quello dello Stato di diritto, questa crisi per una volta «priva di moralismi», per dirla con Nathalie Tocci direttore dell’Istituto Affari Internazionali, ha offerto alla cancelliera tedesca l’opportunità di incidere molto più profondamente sul futuro europeo: «Occorreva una crisi simmetrica con impatti asimmetrici per convincere tutti e 27 a far avanzare l’unione fiscale europea», tema a cui da quasi due anni stavano lavorando sottotraccia nel ministero delle Finanze tedesco. È arrivata. E si è presa tutta l’agenda della prima parte della presidenza tedesca. Perché il nuovo bilancio europeo e il recovery fund non sono solo l’occasione perfetta per convincere gli Stati meno generosi a condividere le risorse ma anche il contesto in cui inserire condizioni che lubrifichino la trasformazione sostenibile e digitale dell’economia. Sempre che i singoli Stati nazionali siano in grado di approfittarne, come sta già facendo la Germania, che ha lanciato un piano di rilancio nazionale da 130 miliardi di euro, fatto di sussidi alle aziende e alle famiglie (300 euro a bambino), di incentivi ai soli veicoli elettrici e di rinunce a 20 miliardi di Iva.
Da settembre invece l’attenzione dovrebbe essere tutta concentrata per un paio di mesi sull’accordo di uscita dalla Gran Bretagna, che a oggi presenta ancora un gran punto interrogativo. L’unica certezza è che la Nuova Europa non può permettersi un rivale sistemico dall’altra parte della Manica, non adesso che è sempre più stretta tra i fuochi incrociati di Stati Uniti e Cina. «Il fondo di rilancio europeo vuole essere anche un chiaro segnale a chi l’Europa vorrebbe dividerla», ha detto Michael Roth, ministro di Berlino per l’Europa durante un dibattito sul tema: «L’Europa è unita e torna ad essere sovrana». Ad essere avvertita è soprattutto Pechino, «che continua ad essere partner commerciale e un alleato nella lotta ai cambiamenti climatici ma che è diventata anche concorrente in molti campi, a partire da quello dei valori: umani, giudiziari, democratici». La Germania pre-Covid avrebbe voluto portare finalmente a casa un trattato commerciale con la Cina in ballo da anni. Ma tutto è cambiato in pochi mesi: dalle priorità europee all’ordine geopolitico che vede una Cina sempre più invadente e un’Europa costretta a integrarsi per non disfarsi.
A fare le spese della costruzione di questo nuovo soggetto europeo potrebbe però essere la tanto attesa riforma del Trattato di Dublino che regola i flussi migratori in Europa. La Commissione dovrebbe presentare nei prossimi giorni la nuova proposta su cui si esprimeranno il parlamento e ancora una volta il Consiglio europeo, l’istituzione dove, a causa del voto all’unanimità, si arenano visione e progettualità. «Si tratta di un argomento tossico e le negoziazioni saranno molto difficili», dice Clauss. «Anche con l’aiuto della rinegoziazione del budget settennale Ue (che implica la redistribuzione dei fondi tra i 27) è complicatissimo avere abbastanza moneta di scambio per fare digerire a tutti sia il recovery fund sia la redistribuzione dei migranti», dicono fonti diplomatiche a Bruxelles. Ma il tema si ripresenterà con forza quest’estate e andrà a complicare il quadro politico e economico del solito Sud Europa, lo stesso che il Covid ha messo in difficoltà: il tema non potrà essere del tutto ignorato, sottolinea García Peréz. Non in un’Europa che si vuole unita e solidale.
La nuova idea tedesca, ora che le vecchie ideologie, inclusa quella del debito zero e dell’austerità, hanno perso di popolarità anche tra gli elettori teutonici, è quella di sbloccare un po’ tutta l’Europa, rimasta intrappolata nei referendum falliti sulla Costituzione europea dei primi anni Duemila. Per rilanciarla sarebbe dovuta partire lo scorso 8 aprile la Conferenza sul futuro dell’Europa voluta dalla Commissione ma il Covid l’ha rimandata all’autunno. Sarebbe quella la sede dove lavorare su un cambio dei trattati senza cui l’Europa non potrà compiere il salto da spazio economico a realtà politica, da matrigna a madre fiscale, da oggetto a soggetto geopolitico. «Ci vorranno anni per arrivarci, tutti insieme o in buona parte», dice Boettger. Certo è che non ci arriveremo mai se nei prossimi sei mesi la Germania non riuscirà a impedire al fossato economico che separa i suoi membri di trasformarsi in abisso. Anche politico.