Prima voteranno gli olandesi e poi i tedeschi. E nel 2022 francesi e ungheresi. Dopo la pandemia arrivano i voti che avranno un impatto sulle politiche continentali

Angela Merkel
Il 2021 si annuncia come l’inizio di una storica tornata elettorale che abbraccerà anche il 2022 e i cui risultati influenzeranno tutto il decennio appena cominciato. In gioco non ci sono solo la transizione ecosostenibile o le sfide di un presente digitale ma soprattutto il futuro dell’Unione, dopo un anno in cui l’euroscetticismo sembra avere imboccato la parabola discendente. È l’inizio di una nuova epoca senza la Gran Bretagna, in cui gli europei potranno scegliere se continuare a coesistere o iniziare a integrarsi.

I primi a votare saranno gli olandesi il 17 marzo, poi, in autunno, nell’evento più politicamente rilevante del 2021, andranno alle urne i tedeschi. Sei mesi dopo, e siamo alla primavera del 2022, toccherà ai francesi e agli ungheresi. Gli olandesi faranno da barometro al resto del Vecchio continente. In campo, nonostante i tantissimi partiti in cui si dividono i 17 milioni di cittadini affacciati sul mare del Nord, a scontrarsi saranno Mark Rutte, l’attuale primo ministro, salito agli onori delle cronache italiane la scorsa estate per avere ostacolato il Recovery fund con un occhio alle future elezioni, e Geert Wilders, l’ormai storico, quasi istituzionalizzato, leader dei populisti nordici che lo insegue nei consensi. Se l’“uomo di ghiaccio” riuscirà a mantenere l’attuale vantaggio nelle urne e a creare l’ennesima coalizione, come è probabile, diventerà il leader di governo in carica più longevo d’Europa. Anche perché Angela Merkel, la cancelliera tedesca, dopo 15 anni in sella, al culmine dei consensi, ha annunciato di volere cedere lo scettro a uno dei quattro candidati del suo partito di centro destra, la Cdu/Csu. L’uscita di scena di Merkel aprirà un vacuum insolito e insidioso alla testa dell’Unione europea. «È il rischio più grande del 2021», sintetizza Rahman Mujtaba della società di consulenza Eurasiagroup: «Le elezioni tedesche da sole e la successione di Merkel non sarebbero un grande problema in sé ma lo diventano con il succedersi dei cicli elettorali dei due principali Paesi europei. Solo nella seconda parte del 2022 potrà ritornare un saldo binomio franco-tedesco alla guida d’Europa».

Fino alla fine del 2020 l’attenzione di Merkel era stata tutta rivolta all’Europa, nel tentativo di non fare deragliare il progetto europeo durante la presidenza tedesca dell’Unione. Nella prima parte del 2021 sarà invece focalizzata sulle vicende interne e sul passaggio di consegne a un successore ancora ignoto. Macron diventerà il vero leader europeo per nove mesi. Quando un nuovo cancelliere tedesco sarà pronto, il presidente francese sarà preso dalla sua non facile campagna elettorale. La rielezione di Macron è tutt’altro che scontata. Il suo pubblicizzato rinnovamento dello Stato francese, la sua idea di “start up nation” sono stati bloccati prima dalla resistenza interna e poi dal virus che ha riportato in auge l’interventismo statale, cruciale anche l’anno prossimo con debiti pubblici in crescita e licenziamenti privati. Non solo. Lo attendono insidie politiche di ogni colore. Oltre alla probabile candidatura della sindaca socialista di Parigi Anne Hidalgo a sinistra, si mormora anche di quella del suo ex popolare primo ministro Edouard Balladur a destra. Poi ci sono le ambizioni di Michel Barnier, il negoziatore della Brexit, che ha annunciato di volere dedicare ogni energia alla Francia. Una buona parte della società francese non intende ritrovarsi a scegliere di nuovo tra la concezione di stato di Macron e il sovranismo di Marie Le Pen, è in cerca di alternative.

Pandemia, ecologia, Recovery fund sono già temi chiave di ogni campagna elettorale in Europa. Ma nelle prime settimane dell’anno gli occhi saranno puntati sull’Olanda soprattutto per verificare se l’impressione diffusa a Bruxelles di un minore consenso popolare per sovranisti ed euroscettici si concretizzerà nelle urne, consentendo a Rutte la creazione di una nuova coalizione di governo più eurofila e meno intransigente verso i problemi economici dei Paesi del Sud.

In Germania invece la partita è più complessa. Dopo vent’anni di grande coalizione tra democratici e socialisti, il partito di Merkel, la Cdu (e la Csu in Baviera), che oggi veleggia stabilmente intorno al 40 per cento dei consensi, potrebbe legare i suoi prossimi destini a quello dei Verdi di Annalena Baerbock e Robert Habeck, che nei sondaggi attuali è secondo partito.

Una serie di estati torride combinate alle imponenti proteste dei ragazzi dei Fridays for Future hanno portato gli sforzi per la riduzione delle emissioni al centro del dibattito pubblico e sul come verranno strutturati gli strumenti per arrivare ala neutralità climatica nel 2050 si giocheranno le elezioni della prima potenza industriale d’Europa. Temi come la trasformazione del settore automobilistico, la produzione di idrogeno verde, l’incremento delle energie rinnovabili e il prezzo delle emissioni di carbonio fanno già parte delle ideologie di partito. Così come il modo con cui compensare e accompagnare ad una seconda vita i perdenti della transizione ecologica e i cittadini e le aziende più colpite dagli effetti economici della pandemia.

Di tono diverso sarà invece la competizione elettorale ungherese a cui di fatto ha già dato inizio il premier Viktor Orban durante la negoziazione del Recovery fund e del settennale budget europeo. Con un occhio alla sua rielezione, in combutta con i colleghi polacchi, si è imposto sul Consiglio europeo per ottenere che i fondi del Recovery fund non fossero automaticamente legati al rispetto dello stato di diritto, sistematicamente violato in Ungheria.

L’enorme dettaglio che le norme sulla legalità dell’utilizzo dei fondi debbano passare per la Corte di giustizia europea fa sì che passerà almeno un anno tra la constatazione del mancato rispetto della legalità e il blocco dei fondi: giusto il tempo per arrivare alle elezioni dell’aprile del 2022 e facilitare la sua ennesima rielezione. «Alla fine il Recovery lo ha aiutato e lui continuerà a rubare fondi», dice Gabor Gyori del think tank Policy Solutions. Per rimanere sul sicuro il rais ungherese verso la fine dell’anno ha anche fatto passare leggi che rendono più difficile all’opposizione l’entrata in Parlamento e le tolgono fondi pubblici. Però qualcosa si muove. La mossa antidemocratica di Orban ha avuto l’esito inaspettato di compattare tutti e sei i partiti dell’opposizione che hanno deciso di presentarsi insieme, con una sola lista elettorale, un leader unico e un programma comune, in tutti i distretti elettorali del Paese. Obiettivo: battere Orban e cambiare la Costituzione (che Orban ha più volte modificato in suo favore) per ripristinare una vera democrazia. «Non sarà facile, Orban ha tutto il tempo per organizzarsi», dice Gyori. Ma, per la prima volta, il consenso del leader-padrone mostra segni di stanchezza in un Paese sempre più giovane e eurofilo.

Se si dimostrerà corretta la strategia di lungo periodo di Merkel, che in tutti questi anni ha sempre cercato di contenere o addirittura inglobare il nemico, qualsiasi nemico, senza alienarlo, allora perfino l’Ungheria potrebbe imboccare con maggiore decisione la strada europea. Certo, è ancora lunga ma i prossimi due anni elettorali potrebbero essere passi chiave del cammino.