Diviso, senza strategia, con milioni di voti in meno. Perché l’ex Kanzlerin è sempre stata un fenomeno a sè. E senza di lei i suoi ex compagni rischiano di scomparire

C’è Helmut, un militante di vecchia data, che se la ride mentre punta il dito medio verso le gigantografie dei “quattro cancellieri” che ancora troneggiano sopra l’ingresso del Konrad-Adenauer-Haus, l’avveniristico quartier generale della Cdu, il partito di Angela Merkel. «Imbarazzante, non trova?», sospira con lo sguardo rivolto verso il Monte Rushmore dei cristiano-democratici tedeschi. Estetica quasi di stampo sovietico, anche se in salsa postmoderna: in bianconero virato al blu elettrico, ecco in fila gli enormi volti di Adenauer, appunto, di Helmut Kohl e di Merkel. Ultimo, con lo sguardo rivolto al futuro, Armin Laschet.

 

È quasi tutta la storia della Bundesrepublik: l’uscita traumatica dalla guerra mondiale, il miracolo economico, l’unificazione delle due Germanie, l’infinita stagione merkeliana. E infine, comunque vadano a finire le trattative per il nuovo governo di una Germania mai come oggi in cerca d’autore, l’apocalisse della Cdu. Che porta il marchio del sorriso bonario del candidato cancelliere venuto dalla Renania.

 

«Alle elezioni il partito è crollato come un castello di carte», è il verdetto della Zeit. Nove punti in meno rispetto a quattro anni fa per l’Unione formata da cristiano-democratici e bavaresi cristiano-sociali, un 24,1% che rappresenta «il peggior risultato della sua storia». Certo che brucia la rimonta dell’Spd di Olaf Scholz, ma osservando i risultati nel dettaglio il quadro è ancora più drammatico. In sette sui quindici Länder in cui si è presentata, la Cdu arriva solo al terzo posto. E ancora: le analisi dei flussi elettorali raccontano un bagno di sangue, con oltre 1,3 milioni di voti fuggiti verso i socialdemocratici, 470 mila verso i liberali e 830 mila verso i Verdi. Ma soprattutto: un anno fa la Cdu/Csu nei sondaggi sfiorava il 40%, oggi sono quasi 20 punti in meno. Quasi geme il ministro all’Economia Peter Altmaier: «Sono numeri da incubo».

 

Intervista
«In Germania si è visto il cambio generazionale: i grandi partiti puniti perché non parlano ai giovani»
14/10/2021

Com’è stato possibile? Che ne è stato del partito di massa che ha guidato sedici governi su ventitré della Germania del dopoguerra, contro i sette dei socialdemocratici? Fin troppo calzante metafora della fine di un’era è quel che è successo in Meclemburgo: la circoscrizione Rügen-Greifswald, vinta da Merkel per ben otto volte di seguito, dal 1990 al 2017, è stata malamente perduta a favore di un’esordiente socialdemocratica “giovane, femminista, europea”, Anna Kassautzki, che approda al Bundestag a 27 anni. Complessivamente la Cdu qui ha lasciato sul terreno oltre 23 punti: tanto valeva, da sola, la candidatura della cancelliera.

 

«Non è un caso che tutto questo accada adesso», dice a L’Espresso uno dei più autorevoli editorialisti tedeschi, l’ex direttore della Welt Thomas Schmid. «Per 16 anni la cancelliera è riuscita a tenere alto il nome della Cdu come grande partito di popolo. Il suo metodo era quello di aprire il partito allo Zeitgeist, per di più in direzione centro-sinistra. Con lei la pancia della Cdu era sembrata capace di digerire tutto. Anzi, molti elettori della Cdu a lungo non si sono neanche accorti quanto drammaticamente sia cambiato il partito. Anche perché il suo stile politico tranquillo e sobrio ha avuto un effetto rassicurante: Merkel era l’emblema della continuità, del procedere passo per passo. Ha fatto di tutto per non affaticare i tedeschi».

 

Tra crudeli sondaggi post-elettorali che intimano le dimissioni a Laschet e spingono l’Spd oltre il 28%, le analisi del dopo-voto si sprecano. Dice il politologo Johannes Kiess che il candidato cancelliere «non è stato in grado di riunire dietro un’idea le diverse correnti. E poi non è chiaro che significato possano avere oggi, ad esempio per le persone più giovani, il conservatorismo e l’idea cristiano-democratica». Sulla difensiva sul clima, tiepida sul fronte della modernizzazione del Paese, paurosa sul nodo degli investimenti pubblici, arroccata in quanto a temi sociali: questo il brusìo di fondo della campagna elettorale Cdu/Csu.

 

Anche dal punto di vista delle prospettive personali, per Laschet si mette male: chiunque a Berlino ti ripete che se fallirà il suo tentativo disperato di mettere insieme una coalizione “Giamaica” con i Verdi e liberali, non potrà guidare l’opposizione al Bundestag, non sarà altro che un semplice deputato. L’ombra di essere il “candidato sbagliato” lo ha perseguitato sin nella più remota federazione locale: in molte circoscrizioni si era radicata la convinzione che fosse il governatore bavarese Markus Söder la scelta giusta. «Perché ci avete ignorati?», è il mantra che si ripete da Kiel a Monaco.

 

Il fatto è che l’Unione oggi appare come un campo di battaglia. «I suoi concorrenti umiliano Laschet in pubblico», è la sintesi dello Spiegel. A parte i dispetti di Soeder, praticamente non c’è uno solo dei “colonelli” dell’Unione che non chieda «un nuovo inizio», una rivoluzione ai vertici, un «ricambio generazionale», dal ministro alla Sanità Jens Spahn al presidente della Commissione Esteri Norbert Roettgen (che vede per la Cdu«un rischio esistenziale»), passando per il capo dei giovani cristiano-democratici Tilman Kuban ed il governatore della Sassonia Michael Kretschmer («è un terremoto»).

 

E mentre la Frankfurter Allgemeine evoca «piani di golpe» ai vertici Cdu, su tutti si erge Friedrich Merz, capofila della corrente più di destra e ultra-liberista, sconfitto proprio da Laschet all’ultimo congresso, che ambisce a prendersi la Cdu una volta per tutte. Narrano che alla prima riunione del gruppo parlamentare si sia sfiorata la rissa: tra l’altro, il capogruppo Ralph Brinkhaus avrebbe dato del «ridicolo» a Merz, che di tutta risposta avrebbe lanciato sul tavolo un bicchiere di succo d’arancia.

 

«Ci sono due partiti dentro la Cdu», azzarda “off the record” un esponente cristiano-democratico: quello profondamente trasformato dalla post-ideologia merkeliana, capace di cannibalizzare con disinvoltura le tematiche socialdemocratiche e verdi, e quello che è rimasto conservatore, che ha ingoiato il rospo della “politica delle porte aperte” ai tempi della crisi dei migranti ed è tuttora attanagliato dal terrore di aver lasciato scoperto il fianco destro. La verità è che Merkel «non è mai stata la Cdu»: ne è stata per 18 anni la leader, ne è membro dal 1990, eppure è stata sempre vissuta come un’aliena nel partito. Paradosso che oggi rischia di deflagrare.

 

Poi c’è il tema del “nuovo muro” che separa l’est dall’ovest della Germania. Non si capisce questo voto se non si guarda ai numeri dell’ex Ddr: qui la Cdu è stata dimezzata, mentre l’ultradestra dell’Afd è primo partito in Sassonia e in Turingia. Sin dalla riunificazione i due Länder sono stati roccaforti della Cdu, ora siamo al 17% dei voti o meno, terza forza politica dietro Afd ed Spd, in Turingia addirittura quarta. Gli studiosi parlano di «crepe ormai quasi insanabili»: ma non è solo il mix di disuguaglianza salariale est-ovest, aspettative deluse, false promesse, sfiducia, paura della modernità e degli stranieri.

 

L’accusa prevalente è che qui la Cdu abbia perso il contatto con la realtà locale: alla chiusura della campagna Cdu a Halle, in Sassonia-Anhalt, qualcuno aveva scritto per terra con un gessetto “Lasch, lascher, Laschet”, un gioco di parole che sta a significare “moscio, ancor più moscio, moscissimo”. E poi c’è la tentazione di flirtare con l’ultradestra: in Turingia ha fatto scalpore la candidatura nelle liste Cdu di Hans-Georg Maassen, ex capo dei servizi segreti “interni”, ritenuto pericolosamente vicino alle tesi dell’Afd. Qui, dove l’uomo forte è Björn Höcke, leader della corrente più nazional-populista e amante di un eloquio da Terzo Reich, Maassen ha perso fragorosamente. I commenti del day after sono tutti identici: gli elettori Afd non si recuperano se la Cdu rincorre la destra, continuano a preferire l’originale.

 

La diagnosi dello storico Andreas Rödder è spietata: dalle colonne della Faz afferma che se il partito di Adenauer e di Kohl non si rinnova profondamente lo scenario è «la dissoluzione del centro borghese». Schmid la dice diversamente: «Il Paese non si è preparato alle necessarie innovazioni, e d’improvviso scopre che molto è rimasto irrisolto, nel limbo, e che l’eredità della cancelliera consiste soprattutto in una serie di domande aperte».

 

Davanti al Konrad-Adenauer-Haus, che sembra un’astronave degna di Star Trek, i capi della Cdu entrano per l’ennesimo vertice d’emergenza, da Laschet al segretario generale Paul Ziemiak passando per il solito Merz. I giornalisti fanno domande, ma loro passano avanti tacendo. «Perché non sanno le risposte», sibila perfido il vecchio Helmut.