Nel giro di un tranquillo fine settimana di inizio ottobre, il corrotto equilibrio che ha caratterizzato i governi populisti dell'Europa orientale nell'ultimo decennio è stato manomesso. Modalità e cause sono state diverse, per diversi Paesi, ma la tempistica è stata sorprendentemente la stessa. Come se i fili colorati di uno stesso tessuto fossero stati tirati contemporaneamente, con il risultato di disfare una trama intrecciata per oltre un decennio, segnando una battuta d'arresto per quei governi populisti in cerca di un potere senza troppe delimitazioni tra interesse pubblico e privato.
Nella Repubblica Ceca la coalizione di governo del premier Andrej Babis, indagato per appropriazione indebita dei fondi europei, è uscita sofferente dalle urne, con i due partiti alleati, il socialdemocratico e il comunista, che non hanno raggiunto la soglia parlamentare del 5 per cento, nonostante il partito del premier abbia registrato un modesto calo rispetto al 2017. Un anno prima, nella vicina Slovacchia, il partito populista di sinistra, al governo dal 2006, era stato sconfitto dall'opposizione nelle urne in seguito all'assassinio del giornalista Jan Kuciak, che aveva investigato proprio sull'appropriazione indebita dei fondi europei, di frodi fiscali e di legami tra il governo socialista e la mafia locale.
In Austria, invece, il cancelliere Sebastian Kurz, il più giovane al mondo, per anni enfant prodige della destra europea, si è dimesso dopo che il partito dei Verdi, junior partner della coalizione con l'uscita del partito di estrema destra, ha minacciato di togliere il sostegno al governo. Il leader trentacinquenne è indagato per avere utilizzato fondi pubblici nel manovrare sondaggi e corrompere giornali con lo scopo di pubblicizzare il sostegno all'azione del governo.
Sempre durante lo stesso fine settimana, infine, decine di migliaia di polacchi sono scesi in piazza al grido «Noi restiamo!» per dimostrare la loro opposizione ad un'eventuale uscita della Polonia dall'Unione europea dopo il verdetto della Corte suprema polacca. Sollecitata mesi fa dal premier Mateusz Morawiecki, ha sentenziato che parti della legislazione europea sono incompatibili con la costituzione nazionale, di fatto facendo venire meno il pilastro legale su cui si basa l'Unione a 27. Ma oltre l'ottanta per cento della popolazione, che normalmente è poco interessata alle vicende politiche, guidata dal leader dell'ampia coalizione di opposizione, Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo nella scorsa legislatura, ha dimostrato la ferma contrarietà ad una Polonia al di fuori dell'Europa. Ed è proprio qui, nel quinto Paese più grande dell'Unione, che si giocherà nei prossimi mesi una partita decisiva e non scontata tra l'attuale populismo nazionalista, corrotto e insofferente alle regole della convivenza democratica, e una Bruxelles che, con il cambio degli equilibri geopolitici mondiali, guarda sempre più ad una convergenza dei 27 che non sia solo economica ma anche sociale e politica, fondata su un quadro legale uguale per tutti.
Che i subbugli politici ad Oriente stiano avvenendo durante la pandemia del Covid-19 non è un caso. Con l'indebitamento comune e i Piani di recupero e resilienza, per la prima volta l’esborso dei fondi comuni europei è legato a precise condizioni di rispetto dello stato di diritto che garantiscano il corretto utilizzo delle risorse. E difatti se la Commissione ha dato il via libera in luglio al Recovery plan ceco, ha però posto importanti paletti sull'effettiva erogazione dei denari, mettendo l'accento sul gigantesco conflitto di interessi di Babis, l'uomo più ricco del Paese grazie al suo impero agricolo Agrofert, che negli anni ha ricevuto ingenti contributi europei, non sempre legali, come messo in luce da una (per lui) fatale inchiesta del New York Times nel 2018.
A dargli il colpo di grazia nelle urne è però stata la recente inchiesta investigativa dei Pandora Papers da parte del Consorzio internazionale dei giornalisti che ha scoperto come Babis abbia acquistato una villa di lusso in Costa azzurra per 22 milioni di euro tramite società offshore che ne hanno nascosto l'identità. Perché tanta segretezza se i soldi provenivano dal suo conto in banca come sostiene? «Nonostante il risultato elettorale, il presidente ceco, suo amico, gli ha dato il mandato di formare un nuovo governo, a riprova del livello di collusione nel Paese», dice Gustav Gressel, Senior Policy Fellow presso lo European Council on Foreign Relations (Ecfr): «A questo punto la palla è al parlamento. Vedremo se l'opposizione resterà unita».
Di certo, ad osservare gli eventi nella Repubblica ceca e in Polonia, non si stanno fregando le mani i premier di Ungheria e Slovenia, altri due Paesi dell'Europa orientale in cui la popolazione sta mostrando una crescente insofferenza verso i leader populisti. Mancano solo pochi mesi alle elezioni ungheresi del 2022, nelle quali un'opposizione unita a dispetto del colore e del credo politico mira a liberare il Paese della democrazia illiberale in cui lo ha costretto il premier Viktor Orbán, primo alleato e maestro di Morawiecki: quello che succede nel vicinato ha un impatto diretto sull'opinione pubblica.
E anche per Janez Jansa, secondo discepolo di Orbán, e attuale presidente di turno dell'Unione europea, salvo sorprese, il futuro politico non è tutto rose e fiori: il suo partito continua a scivolare verso il basso nei sondaggi, con una Commissione europea che pubblicamente critica ogni suo tentativo di silenziare la stampa. «In questo quadro l'Austria è un po diversa», dice Gressel: «perché la corruzione ha preceduto Kurz. Il cancelliere socialista Werner Faymann usava una parte del budget del ministero delle infrastrutture per farsi mettere regolarmente in prima pagina sui giornali. È un'abitudine austriaca l'utilizzo dei soldi di Stato per fare pubblicità al governo. La differenza oggi l'ha fatta il partito dei Verdi, che ha preso voti nell'Austria occidentale, dove la cultura politica è diversa. E che spero imporrà una nuova normalità».
Ma l'ago della bilancia della “nuova normalità” nell'Europa dell'Est, e nell'Europa tutta, finirà per essere proprio la Polonia, il Paese dell'Europa orientale con il peso specifico maggiore, e quello che ha ingaggiato dal 2015, quando il suo partito Legge e Giustizia (PiS) è salito al potere, una battaglia legale all'ultimo sangue con l'Unione europea su più fronti: dal controllo politico della magistratura a cui Varsavia non vuole rinunciare, alle miniere di carbone che dovrebbero essere chiuse ma continuano a funzionare, per arrivare ai diritti negati alla comunità Lgbtq. Una battaglia senza regole e senza confini. Da qualche giorno al limite del paradosso.
Da una parte Varsavia ha respinto le decisioni della Corte di giustizia europea che invalidano le leggi nazionali che violano i diritti fondamentali, dall'altra si è appena rivolta a quella stessa Corte per chiedere di invalidare il meccanismo di condizionalità del Recovery Fund, che impedisce l’esborso dei fondi agli Stati che non rispettano lo stato di diritto. Una contraddizione enorme che potrebbe obbligare la Commissione a reagire con forza, negando a Varsavia l'accesso non solo ai fondi del Recovery Plan ma anche a quelli del budget pluriennale. Sarebbe la prima volta. E non è detto che accada. Ma la situazione politica ad Est è molto fluida, strattonata tra forze opposte. Un segnale forte da parte di Bruxelles potrebbe causare una virata decisa. In un senso o nell'altro. E, chissà, salvare l'integrità del progetto europeo.