Intervista
Cosa succederà in Medio Oriente con la fine dell’era del petrolio
La fine della rendita energetica e l’uscita Usa dall’Afghanistan hanno cambiato gli equilibri nella zona più calda del mondo. Parla l’esperto Gilles Kepel
La preoccupazione per la pandemia ha oscurato un’altra grande scossa che ha investito il mondo: gli effetti del Covid-19 sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente. Gilles Kepel nel suo ultimo libro “Il ritorno del Profeta. Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente” (Feltrinelli), ripercorre con cura i passaggi che hanno portato a una ridefinizione globale delle alleanze nell’area che concentra le principali risorse energetiche del mondo. Kepel sceglie di analizzare i fatti principali del 2020 per dimostrare che il blocco dei commerci e la drastica caduta del prezzo del petrolio abbiano sconvolto la mappa del mondo per come la conoscevamo. Politologo, esperto di Islam e mondo arabo, docente presso le Università Paris Science et Lettres e Sciences Po, e titolare della cattedra di Medio Oriente-Mediterraneo presso l’Ecole Normale Supérieure, i suoi libri sono pubblicati in più di venti lingue.
L’abbiamo raggiunto a Lecce, in occasione del festival Conversazioni sul Futuro.
Partiamo dalla stretta attualità, professor Kepel: nasce la Nato del Pacifico. Stati Uniti, Regno Unito e Australia lanciano un patto di sicurezza nell’area dell’Indo-Pacifico - Aukus, acronimo dei tre paesi firmatari - che prevede la vendita di sottomarini a propulsione nucleare a Canberra. La Cina si infuria, la Francia perde una grande commessa di sottomarini con l’Australia. Quali implicazioni per l’Europa?
«Ero con Macron ad Atene per il Med9, il vertice che ha riunito i leader di Spagna, Francia, Italia, Malta, Grecia, Cipro greca, Slovenia e Croazia, Portogallo e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, quando è arrivata la notizia dell’accordo. Mi trovavo in una sala in cui troneggiava un ritratto di Churchill con il sigaro in bocca e ho pensato: tutto questo non esiste più».
Con la notizia di Aukus è ancora più chiaro che l’Europa sia di fronte alla sua sfida più impegnativa. L’accordo sui sottomarini non è solo una storia di lesa maestà francese ma è una ulteriore messa alla prova dell’Europa di costruire una autonomia strategica. L’accordo Aukus avviene meno di un mese dopo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, i due eventi danno la linea delle strategie statunitensi per il futuro.
«I due eventi vanno letti insieme. Per gli americani uscire da Kabul significa cambiare asse, dal Nord Atlantico al Sud Pacifico. Prima l’Europa era il confine baluardo tra l’Unione Sovietica e l’America, oggi la Russia può essere considerata uno stato canaglia, ma la sfida, per gli Stati Uniti è in Asia ed è una sfida più gravosa, perché il confronto con i russi era militare, ora il confronto con la Cina è economico. Questo spostamento di asse impone all’Europa di trovare una voce comune e avviare una vera riflessione sulla difesa e la sicurezza comune europea, e trovare una strada che concili visioni di lungo termine su interessi comuni: il terrorismo e i fenomeni migratori».
Pensa che ci sia una strada praticabile per un accordo sulla difesa comune europea?
«Penso che mai come ora esista uno spazio di riflessione concreto. Dopo la mia visita in Grecia, in concomitanza con il Med9, mi sono recato in Italia. Ho respirato una grande determinazione sul progetto di difesa comune europeo, anche il vostro primo ministro Mario Draghi ha detto che non c’è tempo da perdere. La Francia ha le armi nucleari, l’Italia una potente marina e malgrado una radicata vicinanza con gli Stati Uniti ha aperto una riflessione concreta. Ora resta da capire come si muoverà la nuova Germania post-Merkel».
Eppure l’Europa è stata terreno di grandi fratture sulle visioni di politica estera, penso alla Libia, terreno di scontro tra Francia e Italia, solo per fare un esempio.Con queste premesse è possibile pensare a posizioni comuni?
«C’è una favola di Lafontaine che si chiama “L’ostrica e i due litiganti”, due viandanti trovano un’ostrica e iniziano una disputa per decidere chi deve mangiarla. Poi arriva un giudice a risolvere la disputa, prende l’ostrica e la mangia lui. In Libia è accaduta la stessa cosa, e questo certo è lo specchio delle difficoltà di trovare una voce comune europea, difficoltà che in questi anni ha lasciato spazio ad attori molto cinici».
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è un protagonista centrale del suo libro. Nel “Ritorno del Profeta” sottolinea che uno degli eventi cardine del 2020 sia stato il 24 luglio, quando Erdogan partecipa alla prima grande preghiera nell’ex Hagia Sophia di Istanbul, ritrasformata in moschea.
«Quando Erdogan decide di reislamizzare Santa Sofia è il momento del grande pellegrinaggio alla Mecca, luogo sacro dell’Islam, ma a causa della pandemia e del distanziamento fisico alla Mecca c’è uno sparuto numero di fedeli. Il 24 luglio 2020 era il 97esimo anniversario del Trattato di Losanna, che ha segnato l’origine della Turchia moderna. Erdogan decide di incrociare due fenomeni, uno diacronico e uno sincronico. Dal punto di vista diacronico, Erdogan non ha scelto un giorno a caso ma ha marcato una distanza dall’Ataturk secolare, l’Ataturk che rese la vecchia basilica un museo da donare all’umanità. Il presidente turco decide, nel 2020, anno che ha sconvolto il mondo, di reinvestire quel luogo di un simbolismo contrario, sradicando la laicità di Ataturk. Dal punto di vista sincronico ha messo in piedi una grande operazione mediatica il cui messaggio era chiaramente: la Turchia è di nuovo il centro dell’Islam politico».
Quanto l’Europa può sostenere il compromesso del mancato rispetto dei diritti umani da parte di alcuni paesi partner strategici dal punto di vista energetico, penso alla Turchia e all’Egitto?
«Credo che come occidentali abbiamo avuto l’illusione di poter trovare nelle società distanti da noi delle classi medie totalmente occidentalizzate che potevano portare alla formazione di una democrazia simile alla nostra, penso all’Afghanistan e in parte anche alle primavere arabe. Così non è stato. Dobbiamo conoscere questi paesi per rinforzare le loro classi medie e contribuire a una società che si appoggi sulla loro cultura per poter dialogare con la nostra. È un programma ambizioso ma a cui non vedo alternative. Se non lo faremo saremo di nuovo di fronte a un punto di rottura. La nostra relazione con la Turchia è cruciale in questi anni, e ora dobbiamo essere attenti ad analizzare il dissenso che anima parti della società. La Turchia andrà al voto tra poco, intanto Erdogan manda un’altra nave nelle acque greche, è un messaggio alla parte nazionalista del suo elettorato perché ha bisogno del loro supporto per vincere le elezioni. Poi però l’economia vive una crisi senza precedenti, e le avventure estere nutrite di riferimenti ideologici del passato non sono comprese e apprezzate da tutti i cittadini. Cosa voglio dire con questo? Che i paesi possono cambiare, ma noi dobbiamo essere attenti a non agire con le loro classi medie pensando di trovarci davanti alle nostre. Dobbiamo essere studiosi attenti, e antropologi».
Nel suo testo cita l’altro evento fondamentale del 2020, il Patto di Abramo cioè gli accordi firmati, sotto la regia dell’ex presidente statunitense Donald Trump, tra Israele e quattro paesi arabi - Emirati, Barhein, Sudan e Marocco.
«Sì, credo che con quegli accordi il 2020 abbia definitivamente chiuso i conti con il 1945. Da allora il Medio Oriente è stato, nell’ordine mondiale, l’area di produzione per eccellenza degli idrocarburi. Il crollo dei prezzi del petrolio sotto i 30 dollari al barile ha capovolto il mondo, i sauditi e gli emirati si sono resi conto che non possono sopravvivere solo con le rendite petrolifere, ormai obsolete, e stanno investendo con il loro gigantesco fondo sovrano nell’high-tech in Israele per prepararsi alla fase post-petrolio. Il background di questo nuovo equilibrio è il disimpegno americano nell’area».
La pandemia ha dunque, nella sua tesi, accelerato un superamento della tradizionale contrapposizione tra sunniti e sciiti?
«Sì, gli equilibri che menziona avevano già cominciato a modificarsi. Erdogan ha dimostrato di sapere sfruttare a suo vantaggio i grandi sconvolgimenti di questi anni, diventando un “imprenditore della rabbia” alleato con Qatar e Iran. Così oggi ci troviamo di fronte a un accordo tra il consueto blocco della Fratellanza: Turchia e Qatar cui si è unito l’Iran sciita e il blocco degli accordi di Abramo tra i quattro paesi arabi e Israele, questa nuova dimensione globale dimostra che non valga più la dimensione del nazionalismo arabo».
L’altra data simbolica che cita del 2020 è il 16 ottobre quando Samuel Paty, insegnante di storia e geografia, viene decapitato da un giovane jihadista di origine cecena a Conflans-Sainte-Honorine. Lei sostiene che il jihadismo sia entrato nella nuova fase del jihadismo d’atmosfera.
«Sia nel caso della decapitazione di Samuel Paty sia nel caso di Brahim Aouissaoui, un tunisino entrato illegalmente in territorio francese e che ha ucciso tre persone a Nizza, non abbiamo dati di appartenenza del terrorista a nessuna rete, a differenza di quelli degli attentati degli anni precedenti, spesso rivendicati dall’Isis. Questo nuovo jihadismo fa a meno di committenti e si diffonde come un virus, senza confini, infettando gli individui più vulnerabili. Mi sono chiesto cosa lo avesse ispirato e penso che sia un’atmosfera creata da imprenditori della rabbia, individui che creano una atmosfera di collera, come il padre di uno studente nell’attentato di Conflans-Sainte-Honorine, e in questa collera un individuo vulnerabile decide di agire. Questo pone un problema molto grande e per comprendere questo fenomeno dobbiamo lavorare sulla preparazione culturale e sulle competenze linguistiche».
È uno dei temi conclusivi del suo libro, la frustrazione per l’atteggiamento dell’accademia verso il mondo arabo.
«Gli studi arabi in Francia sono stati molto depotenziati, rispetto a venticinque anni fa, quando avevano conosciuto una stagione d’oro. Ora sono in decadenza e il sapere è stato sostituito dall’ideologia. Sono vicino alla pensione e lascerò l’accademia con un grande senso di frustrazione, il governo non ascolta più ricercatori e universitari, così non riusciamo più a fare i conti con i movimenti di analisi tra processi diacronici e sincronici. Pensi solo al versante semantico della faccenda, alle competenze linguistiche: il termine “islamismo”, che nel nostro vocabolario designa l’Islam politico, incarnato principalmente dai Fratelli Musulmani, è stato tradotto da giornalisti e opinionisti del mondo musulmano come “islamico” o “musulmano”, con la conseguenza che Macron e la Francia siano state identificati come islamofobi. La conoscenza lacunosa genera trappole che abbiamo il dovere di evitare. Noi accademici dobbiamo produrre conoscenze sul mondo arabo, è necessario un importante lavoro culturale che mobiliti l’intera società, e anche i nostri compatrioti musulmani, prime vittime del nuovo jihadismo d’atmosfera».
Pensa che la conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani possa alimentare questa nuova forma di jihadismo?
«La caduta di Kabul in mano ai talebani può sicuramente rinnovare un entusiasmo negli estremisti, soprattutto quelli non legati a nessuna rete. Perché in qualche modo la vittoria dei talebani rinsalda la fiducia nella lotta, nel jihad. Dobbiamo fare molta attenzione alla nuova generazione di potenziali estremisti europei, sono diversi da chi li ha preceduti, sono alimentati da una propaganda di odio per i valori secolari occidentali, la Francia è stata odiata per i suoi valori, considerata capitale dell’abominio e della perversione. Odio che si è solo intensificato da quando Macron ha lanciato una difesa dei valori illuministici dopo l’omicidio Paty».
Per la Francia i prossimi mesi saranno un grande banco di prova.
«Il processo a Parigi per gli attentati del 13 novembre iniziato due settimane fa durerà fino alla prossima estate, metà 2022, significa che di mezzo ci saranno le elezioni presidenziali francesi, la presidenza francese dell’Ue e che il jihadismo sarà, credo, lo sfondo della nostra discussione politica europea dei prossimi mesi».