Jalalabad è sotto il controllo dell’Isk, la sezione locale di Daesh, e così altre zone del paese. Le persone hanno paura, l’omertà regna e temono che gli scontri fra bande armate possono portare a una nuova escalation della violenza (foto di Alessio Romenzi)

Il walkie-talkie squilla. «Esplosione nel Distretto di polizia 8», tuona la voce di un talebano. Sono le 9 del mattino a Jalalabad, capoluogo della provincia nord-orientale afghana di Nangarhar. L’ufficio del responsabile del coordinamento dell’intelligence, Qari Hanif, conferma poco dopo: «Il villaggio periferico di Behsud, dall’altro lato del fiume è stato colpito due volte. Ci sono 3 feriti».

 

Non fa nemmeno più notizia, ma da ormai più di un mese, ogni giorno, Jalalabad è teatro di massacri, attacchi improvvisi e esplosioni contro i mujaheddin dell’Emirato islamico. Ma nessuno fiata, soprattutto il governo. Anche se il paese vive un miglioramento della sicurezza da quando i Talebani hanno preso il controllo, le cose stanno peggiorando. Specialmente a Jalalabad, che vive nella tensione, come se nulla fosse cambiato rispetto agli anni della guerra. È lo Stato Islamico Khorasan (Isk), affiliato del gruppo Stato Islamico nel paese, a rivendicare gli attacchi che costantemente colpiscono i soldati del nuovo regime. I Talebani cercano di minimizzare, dicendo che non ci sono problemi. La loro linea sulla questione è un secco “no comment”. Ma in realtà si sente la paura e Qari Hanif, un po’ si tradisce, rilasciando qualche informazione: «Alcune aree della provincia sono controllate all’85% dall’Isk. La situazione non è buona».

 

ALESSIO ROMENZI

Sono i distretti della provincia ad essere i più colpiti: Achin, Surkh Rod, Dih Bala e Chaparhar. Non sono distanti dal centro della città ed è qui che cellule di terroristi cercano di infiltrarsi e sono attive. A Chaparhar, una ventina di chilometri dal centro città di Jalalabad, il nervosismo è alle stelle. «Chaparhar, 2 settimane fa era molto pericoloso. Ora è normale», aveva detto Hanif nel suo ufficio. Per non dire pericoloso. I controlli sono ferrei, l’indice di ogni talebano è posto sul grilletto. Il mercato è aperto, ma non molte persone girano. Nel mezzo, il posto di comando talebano. La torretta è crivellata da centinaia di fori di proiettili. Al suo interno, il comandante del distretto Mawlawi Riazullah Haqqani sdrammatizza: «Tutto è sicuro in questa zona. Ci sono alcune persone che collaborano con l’Isk, ma li stiamo neutralizzando. Alcune famiglie di terroristi sono ancora fedeli a loro. La gente pensa che ci sia una vera presenza di Daesh (Isk), ma in realtà non esiste. Prima c’era, li ho combattuti qui per 6 anni. Ma ora non possono affrontarci direttamente, perciò si mimetizzano fra la gente e attaccano». Appena esce dall’ufficio, si tradisce. Bisbiglia qualcosa a un suo compagno: hanno arrestato 50 membri del gruppo. Ma non si può sapere dove, né se questo sia vero.

 

Nel villaggio la gente non parla. Sembra terrorizzata di fare nomi di qualsiasi gruppo armato presente nell’area. Forse hanno paura degli stessi Talebani. Alcuni dicono che durante la notte la gente sparisce, viene uccisa o alcune persone bussano alle porte cercando gente: «Forse sono Talebani, forse Isk, non sappiamo. Ci sono molti gruppi operativi nell’area», dicono Osman e Nurislam, azzardandosi a parlare, lontano dal posto di comando. E nessuno sa chi siano, o fanno finta di non saperlo per il proprio bene. Uno scenario spaventoso. L’omertà è di casa. «Sappiamo chi commette gli attacchi, ma non possiamo fare nomi», continuano. I civili sentono la mancanza di sostegno: «I Talebani dicono che ci danno sicurezza. Quando qualcuno viene ucciso dicono che non sanno chi sia o incolpano l’Isk. Ma non sappiamo cosa fare. Abbiamo paura».

 

Nel quartiere di Bihsud, sull’altra sponda del fiume Kabul che divide Jalalabad, la popolazione esce per strada per vedere i danni fatti dall’attentato avvenuto nella mattinata. «Non possiamo sapere chi sia il responsabile di questo attacco», commenta un avvocato anonimo che vive nella zona: «Alcuni dicono che sia l’Isk ma qui siamo in pericolo non solo a causa loro. Ci sono altri gruppi che la notte uccidono le persone. Anche i Talebani». Ma anche lui non dice nulla di più.

 

Il terrore è tornato. Come prima. E non solo a Jalalabad, visto che il raggio di azione dell’Isk sembra essersi espanso in diverse provincie, colpendo la città settentrionale di Kunduz, Kandahar e la settimana scorsa anche un ospedale nel cuore di Kabul. Sono molte le informazioni che sostengono la tesi che le cellule dell’Isk opererebbero in varie zone del paese, compreso al confine con il Tajikistan, a Kunduz e Takhar, dove alcuni civili avvertono: «miliziani dell’Isk operano in queste zone. Non si è al sicuro». Informazioni confermate, off the records da alcuni comandanti Talebani.

 

L’Isk non è un fenomeno nuovo in Afghanistan, soprattutto nella provincia di Nangarhar, dove è presente da ormai sei anni, durante i quali ha anche controllato determinate aree in maniera quasi permanente. Fra il 2019 e il 2020, attorno a Jalalabad c’erano molte “terre di nessuno”, che non appartenevano né al governo né ai Talebani e dove i terroristi dell’Isk potevano infiltrarsi facilmente, avvicinandosi al centro città. Decimati dall’esercito del governo precedente e dai Talebani, che li hanno combattuti per anni, i terroristi (soprattutto provenienti da paesi stranieri, o ex-membri del gruppo terrorista Tehrik-i-Taliban Pakistan) sono risorti ultimamente.

 

E si sono sviluppate molte teorie nel corso degli anni. Secondo 4 ex-parlamentari del governo precedente, fra cui la parlamentare Farah Belqis Roshan, la presidenza di Ashraf Ghani avrebbe sostenuto i terroristi, insieme allo zampino degli Stati Uniti, «mandando loro rifornimenti e uomini con aerei». Affermazioni pesanti, che trovano però conferma attraverso due canali molto forti: un ex-alto comandante dell’ex Nds, i temuti servizi segreti del governo repubblicano caduto ad agosto e pilotato dagli Usa, anonimo per ragioni di sicurezza, afferma infatti che «l’ISK è un progetto internazionale per tenere a bada i Talebani e per creare il caos nella regione. Posso confermare tutto ciò. E non solo, ma anche che il progetto non è per nulla finito e che qualcuno sta cercando di ricreare una nuova guerra civile con altre milizie attive. Ecco perché troviamo cellule in molte provincie, soprattutto nel nord come a Takhar, Badakhshan, Kunar e Nangarhar. Ci sono arabi, uiguri, tagichi, uzbechi e altri». Anche il suo rivale, Mawlawi Abu Abdallah (nome cambiato), l’attuale capo di una delle più forti unità dell’intelligence talebana, la 071, il quale si esprime sulla tesi degli ex-parlamentari: «È confidenziale ma lo confermo».

 

Secondo il portavoce del ministro degli Interni Serajuddin Haqqani, Qari Saeed Khosti lo scopo dell’Isk sarebbe quello di «indebolire i Talebani. Sono un progetto straniero contro di noi. Ma non hanno radici nella cultura afghana e la gente non li sostiene. L’Isk non è un problema troppo importante. Non bisogna dar loro troppo adito perché è proprio questo che li rende più forti. È vero, abbiamo arrestato molti loro affiliati, ma finisce qui». Khosti non vuole soffermarsi troppo a parlare di Isk. Secondo lui, i problemi che mettono in ginocchio il paese sono altri: «Stiamo affrontando una crisi umanitaria ed economica molto preoccupante. Soprattutto a causa del congelamento di fondi afghani da parte degli Stati Uniti e della Banca Mondiale. Sono i soldi del popolo afghano, ne hanno diritto. E senza questi non possiamo lavorare e fornire assistenza alle provincie. La gente ha bisogno di cibo, medicine, materiale, di soldi, soprattutto con l’arrivo dell’inverno», esclama, riferendosi anche al problema alimentare che sta causando un’impennata della malnutrizione nel paese.

 

Difficile dire, quindi, che potere abbia lo Stato Islamico nel paese e se davvero ci siano questi giochi di potere dietro a tutto ciò. Ma ciò che è sicuro è che ogni giorno ci sono arresti di sospettati. I Talebani, per strada, sono molto nervosi. Ciò nonostante, già durante gli ultimi anni le defezioni talebane verso lo Stato Islamico erano molte. Soprattutto dopo gli accordi di Doha del febbraio 2020 quando molti Talebani si sono sentiti traditi. Ma ci sono anche ragioni economiche. Una spia dell’Isk, nella provincia centrale di Daikondi, raccontava in maniera pacata e silenziosa, in un luogo segreto, come avesse deciso di passare all’Isk dopo aver combattuto per decenni con i Talebani: «Ricevo un salario di 500 dollari mensili e l’Isk combatte per il vero Islam», erano le sue parole. Secondo un articolo del Wall Street Journal apparso la settimana scorsa, addirittura alcuni membri dell’ex-esercito repubblicano avrebbero scelto la via dell’estremismo. Per fame e soldi in un paese dilaniato da una crisi economica lancinante che ha messo in ginocchio la maggior parte della popolazione, si è pronti a tutto.

 

L’ex-comandante delle Nds ammette che l’Isk «non è forte. Ma è sufficientemente armato e organizzato da creare caos in una situazione di per sé già allo sbando. Ci sono interessi a destabilizzare l’Afghanistan per non permettere a determinati paesi della regione, come la Cina, di avere il sopravvento». E se questo fosse provato vero, significherebbe che l’Isk è solamente il primo sintomo di una lunga serie che forse porterà a una nuova guerra civile nel paese. «Vogliono creare una nuova Siria», tuona, sul finire, l’ex-comandante Nds. «In questo paese, operano agenti e spie di tutti i paesi. È una guerra silenziosa», conclude il Mawlawi Abu Abdallah. Un nuovo “grande gioco” in salsa 2.0.