Emergenza umanitaria
L’Afghanistan è un paese alla fame
A tre mesi dall’addio dell’Occidente, la fine degli aiuti svela il disastro climatico. Dove c’è guerra c’è siccità. Un terzo della popolazione è a corto di cibo. E un milione di bambini rischia di morire. Foto di Alessio Romenzi
«Quello che vediamo e analizziamo è che ovunque nel mondo c’è più conflitto e più violenza dove le temperature sono più alte della media», sono parole di Marshall Burke, professore presso il Dipartimento americano di Scienze ambientali del sistema terrestre e membro del Freeman Spogli Institute (FSI), centro studi internazionale su ambiente e insicurezza alimentare. Nel 2013 Burke è stato coautore di uno studio dal titolo «Clima e conflitti», la tesi delle sue ricerche è che i cambiamenti climatici aumentino vari livelli di conflitto, dalla violenza individuale fino a conflitti collettivi, le guerre civili, gli scontri tra nazioni, scrive Burke: «Il clima non è l’unico o il principale fattore di conflitto, ma sulla base dei nostri studi, la comunità internazionale non dovrebbe ignorare la minaccia rappresentata dal riscaldamento globale».
Al suo studio sono seguiti anni di polemiche, gli si contestava che ci fossero dati troppo scarsi, e una risicata letteratura a suffragio delle sue conclusioni, ma anche anni di ricerche e pubblicazioni di università, centri studi, organizzazioni internazionali.
Per tutti la sfida era studiare luoghi in cui il cambiamento climatico stava diventando un moltiplicatore di minaccia, e cioè stava inesorabilmente trasformando i disastri naturali in disastri sociali. Luoghi in cui l’aumento delle temperature, la riduzione delle piogge, la competizione per le risorse d’acqua sta influenzando l’andamento delle guerre e modificando i conflitti e le migrazioni.
Oggetto delle ricerche il Corno d’Africa, il Medio Oriente e, naturalmente, l’Afghanistan, Paese in cui l’intersezione tra clima e conflitto sta determinando minacce sempre più elevate alla stabilità interna e esterna.
I dati dimostrano anche come il cambiamento climatico sia lo schema di disuguaglianze globali: l’Afghanistan dalla metà del XX secolo ha assistito a un aumento medio della temperatura di 1.8 gradi Celsius (3.24 Fahrenheit), rispetto a una media globale dello 0.82. Cioè più del doppio, pur avendo contribuito al cambiamento climatico globale in maniera ridotta (un afgano medio produce 0,2 tonnellate di emissioni di anidride carbonica all’anno, rispetto alle quasi 16 tonnellate dell’americano medio).
Significa che pur avendo inquinato meno, l’Afghanistan è colpito più gravemente di altri dagli effetti del riscaldamento globale, dai disastri lenti provocati dalla siccità, dell’inaridimento del suolo, dell’acqua che scarseggia e dell’assenza di infrastrutture che possano arginare le conseguenze di un fenomeno destinato a peggiorare.
Il Paese non ha sbocchi sul mare, e l’80 per cento della popolazione dipende dall’agricoltura per la sussistenza. Le improvvise inondazioni, i terremoti, gli smottamenti provocati dallo scioglimento dei ghiacciai, uniti alle temperature estreme stanno rendendo ormai da anni sempre più difficile il lavoro nei campi, dunque il sostentamento, cioè il cibo, cioè la sopravvivenza quotidiana.
Lo scorso agosto mentre tutti i titoli dei mezzi di informazione si concentravano sulla riconquista di Kabul da parte dei talebani e sulle migliaia di persone che tentavano di fuggire dall’aeroporto Hamid Karzai terrorizzati dall’instaurazione del nuovo Emirato Islamico, minore attenzione è stata riservata agli effetti di lunga durata delle crisi precedenti, quelle croniche, come la crisi umanitaria prodotta dalla prolungata siccità che da anni non dà tregua al Paese e che, unita alla grave carenza d’acqua, ha portato 14 milioni di persone, cioè un terzo della popolazione, a vivere in una condizione di insicurezza alimentare acuta.
Siccità che, secondo le Nazioni Unite, rischia di trasformarsi da evento episodico a evento annuale entro il 2030.
Tre anni fa l’ultima, devastante, aveva prodotto 400 mila nuovi sfollati interni, cioè persone che avevano dovuto abbandonare i loro villaggi ormai non più coltivabili per spostarsi in altre aree del Paese in cerca di lavoro, e quattro milioni di persone in uno stato di bisogno di aiuti alimentari.
Oggi, con i talebani al potere, le forze guidate dagli Stati Uniti che hanno lasciato il Paese, gli aiuti economici internazionali congelati e l’inverno alle porte, la situazione si è aggravata e il Paese vive un’emergenza umanitaria senza precedenti: tre milioni di bambini sotto i cinque anni rischiano di soffrire di malnutrizione acuta entro la fine dell’anno e, se non arriveranno i trattamenti salvavita immediati, un milione di bambini rischiano di morire di fame nel giro di poche settimane.
Le scorte di cibo continuano a diminuire in Afghanistan anno dopo anno, e solo nel 2021, a causa dei combattimenti, migliaia di agricoltori e coltivatori non sono stati in grado di piantare i raccolti annuali, la metà di quelli coltivati è andato perso, il prezzo del grano è aumentato del 25 per cento.
Manca tutto, dunque. Manca il cibo. Manca l’acqua, mancano le infrastrutture che possano tamponare l’emergenza. Soprattutto dove i conflitti armati si intrecciano col riscaldamento globale.
L’Afghanistan ha vissuto guerre per quarant’anni e la guerra è l’opposto dello sviluppo: i contraccolpi dell’ultima offensiva militare vanno ad aggiungersi a decenni di conflitto che hanno privato l’Afghanistan della capacità di sviluppare infrastrutture necessarie a provvedere ai bisogni della popolazione come dighe e sistemi di irrigazione.
I contadini afgani coltivano ancora la terra con metodi antichi, come nel secolo scorso, lavorano tradizionalmente con i karez, antichi mezzi di irrigazione che trasportano acqua sotterranea dalle montagne evitando l’evaporazione.
In alcuni remoti villaggi sono ancora funzionanti, ma la stragrande maggioranza è andata distrutta in 40 anni di guerra. L’acqua vale più dell’oro: nelle principali città l’acqua potabile è di difficile reperimento, fino ai dati allarmanti sulla capitale: oltre il 70 per cento della popolazione di Kabul non ha accesso all’acqua potabile. Allarmanti e destinati a peggiorare: stando ai dati della John Hopkins University, la domanda d’acqua nel bacino di Kabul aumenterà di sei volte entro il 2050, proporzionalmente all’aumentare della popolazione che arriva dalle campagne nella città, sperando di trovare lavoro.
L’accesso all’acqua per scopi agricoli e dunque la possibilità di coltivare la terra ha inasprito il conflitto per generazioni ed è stata una delle principali ragioni di disaffezione e mancanza di fiducia verso i governi di Hamid Karzai prima e di Ashraf Ghani poi, ritenuti incapaci di migliorare le condizioni di vita dei cittadini e provvedere ai loro bisogni primari.
L’hanno capito i talebani, che negli anni hanno cominciato a usare le risorse naturali come strumento di consenso.
Corruzione e negligenza da una parte, conquista delle risorse vitali dall’altra: un pezzo della strategia dei talebani per la conquista del consenso è consistita, infatti, nel mettere le mani sull’acqua. È stato così nel tentativo di conquistare Herat, nella parte occidentale del Paese, dove i talebani avevano ripetutamente attaccato la diga, e lo stesso è avvenuto a sud, conquistare la diga per controllare Kandahar.
Una strategia ampia che da una parte garantiva l’accesso delle persone a beni primari come l’acqua, e dall’altro sfruttava la crisi sociale per reclutare nuovi sostenitori, lo schema del cambiamento climatico come moltiplicatore del conflitto, appunto.
La povertà, lo stato di bisogno, ha sempre reso più semplice per le organizzazioni fondamentaliste reclutare combattenti nelle comunità rurali, dove le persone non vedono altra prospettiva che impugnare le armi, così per anni i talebani hanno tratto vantaggio dalla crisi: le condizioni sempre più precarie dell’agricoltura affamavano le famiglie, qualcuno decideva di trasferirsi nelle aree urbane in cerca di lavoro, quelli lasciati indietro, soprattutto bambini e ragazzi, restavano esposti all’influenza dei talebani, che hanno reclutato giovani pagandoli una manciata di dollari al giorno, comunque più di quello che avrebbero guadagnato lavorando i campi.
Contestualmente i cambiamenti climatici hanno spinto moltissimi agricoltori ad abbandonare le colture alimentari come il grano a favore del papavero d’oppio più resistente alla siccità, in un Paese che è il più grande produttore mondiale dell’industria dell’oppio.
Cambiamento climatico, assenza d’acqua e risorse vitali, reclutamento, traffici illeciti e consenso.
Anche in questo caso, gli allarmi c’erano stati.
Già nel 2016 le Nazioni Unite avevano avvertito la comunità internazionale: «Il cambiamento climatico renderà estremamente difficile mantenere i risultati raggiunti in termini di sviluppo. Siccità e inondazioni sempre più frequenti e gravi e la desertificazione accelerata influenzeranno i mezzi di sussistenza rurali, l’economia nazionale e dunque la stabilità del Paese».
La stabilità, appunto. Tra le righe, il comunicato delle Nazioni Unite di cinque anni fa, cioè cinque anni prima del ritiro delle truppe occidentali, stava mettendo in guardia la comunità internazionale. Il messaggio era: in un Paese in guerra da quarant’anni, basato su un’economia agricola, in cui le infrastrutture sono danneggiate o inesistenti, non predisporre misure strutturali per contenere gli effetti del riscaldamento globale, significa rendere sacche di popolazione vulnerabili all’influenza dei gruppi armati.
I gruppi radicali costruivano consenso approfittando della crisi, mentre la comunità internazionale tamponava le emergenze con gli aiuti economici che negli anni hanno raggiunto il 40 per cento del Pil.
Praticamente sostenevano l’economia del Paese, pagavano stipendi, cibo, progetti umanitari, sanità.
Oggi il flusso di aiuti si è interrotto, e i soldi non arrivano più.
In risposta alla conquista del potere da parte degli “studenti di Dio” ad agosto gli Stati Uniti e i donatori internazionali hanno sospeso gli aiuti e congelato beni per miliardi di dollari.
Niente più stupendi, niente più supporto per l’agricoltura, niente soldi per pagare le organizzazioni internazionali, niente più denaro contante per gli afghani.
Niente che non si potesse prevedere, con anni di anticipo, ripetuti allarmi, report delle Nazioni Unite, pubblicazioni universitarie, e così via.
Oggi, mentre i governi europei sembrano giocare a una mosca cieca diplomatica, muovendosi a tentoni tra la necessità di negoziare con gli studenti di Dio e l’inopportunità di riconoscere il loro governo, i pastori e i contadini affamati vendono il bestiame e cedono le figlie in sposa in età sempre più giovane in cambio di denaro per potere provvedere al sostentamento del resto della famiglia.
Su questo, i talebani si giocano il consenso. Sono loro, oggi, a dover dimostrare di avere un piano, e saper provvedere al Paese. Trovare soluzioni per sfamarlo.
Oggi che sono al governo, sono i talebani a essere indeboliti dalla crisi e dalla fame. Sono i talebani che rischiano di perdere consenso, a favore di gruppi ancora più estremisti come l’Isis (qui chiamato Iskp) che stanno devastando il Paese con costanti attentati kamikaze.
In uno scenario di questo tipo, il cambiamento climatico e la povertà che ne deriva, sono stati e restano catalizzatori del conflitto, e l’interazione tra cambiamento climatico e strutture di governo deboli, ha spinto e rischia di spingere in futuro le persone verso l’economia illecita, la radicalizzazione. E costringerà milioni di persone ad abbandonare le loro case.
Un paradigma che riguarda l’Afghanistan e molti altri Paesi che vivono in uno stato di guerra: «Se si osserva una mappa dei Paesi più vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico, confrontandola con una mappa dei conflitti attivi, sembrano sovrapponibili», dice Tara Clerkin, coordinatore per l’agricoltura e il clima di Irc, International rescue committee.
Cioè dove sono più allarmanti gli effetti della crisi climatica, più allarmanti sono anche gli effetti delle guerre. Continua Tara Clerkin: «Dico spesso che gli agricoltori sono i canarini nella miniera Hanno sperimentato in prima persona gli impatti climatici per anni e ci hanno avvertito delle crescenti minacce ai mezzi di sussistenza umani. Il problema con questa analogia è che il canarino muore. La comunità globale ha la reale responsabilità di assicurarsi che non permettiamo che ciò accada».