La polizia croata, prima in maniera gentile poi con crescente decisione, ci intima di non superare il nastro che indica il limite non valicabile. Il limite è un confine inesistente stabilito appositamente per la delegazione dei parlamentari europei composta, oltre che dal sottoscritto, da Pietro Bartolo, Alessandra Moretti, Brando Benifei.
È un lembo di plastica che attraversa la strada malandata che porta dentro al bosco di Bojna, è un atto insensato che non rispetta le regole.
Gli agenti ci dicono che oltre quel segno, lasciato sulla carne viva dell’Europa, non possiamo proprio passare.
Il primo di noi che decide di farlo, Pietro Bartolo, non è un tipo qualsiasi. È lo storico medico di Lampedusa, un uomo di mare e di cura dagli occhi vivaci che non ha nessuna intenzione di farsi dire come ci si debba comportare in un contesto del genere. Lo seguiamo, convinti.
Decisissimi a non farci fermare da chi ci sta impedendo di raggiungere quello vero, di confine. Il confine che separa la Croazia e la Bosnia si trova infatti alcune centinaia di metri più avanti.

Ed è lì che inspiegabilmente, anche a prescindere da quanto avevamo comunicato per giorni, le autorità croate non ci vogliono far arrivare.
La paura che giustifica l’impiego di agenti in un contesto surreale, fatto perfino di un breve e goffo inseguimento realizzato sulla stradina che attraversa una sterpaglia dove ancora resistono le mine antiuomo, è quella dei nostri occhi.
Evidentemente non ci vogliono far vedere qualcosa e così impediscono ad un gruppo di deputati della UE di percorrere alcuni metri di selciato del Vecchio Continente. Azzardiamo un’ipotesi: i poliziotti non vogliono che qualcuno, magari con un ruolo istituzionale, assista alla scena di gruppetti di migranti che intendono chiedere asilo in quel tratto di rotta balcanica.
Così la polizia forma un cordone e ci impedisce di compiere ulteriori passi.
Brando Benifei, il nostro capo delegazione, lo dice chiaro guardando fisso una telecamera «non mi è mai capitato, sono stato lontano dall’Europa, in zone del mondo difficili, complicate, e mai nessuno mi aveva impedito, in questo modo, di svolgere il mio compito ispettivo».
Alessandra Moretti aggiunge una riflessione che ci accompagna per ore, un non detto pesante come un macigno «se fanno così con noi, che ne è di quelle donne e di quegli uomini o di quei bambini, provenienti dalla Bosnia, che cercano di passare, tentando di compiere il proprio viaggio verso il luogo che hanno desiderato raggiungere?».
Una risposta ce l’avevano fornita qualche ora prima all’Hotel Porin, il centro d’accoglienza situato alle porte di Zagabria.
Un luogo ben attrezzato e ampio, nel quale i bambini giocano rumorosamente e dove si possono ascoltare anche i racconti di famiglie provenienti dal Kurdistan o dall’Afganistan che spendono parole gentili verso i cittadini croati.
«Il problema è il confine. La polizia al confine ci ha tolto tutto, tutto, perfino i soldi», ci avevano detto dei giovani di Kabul, abbassando lo sguardo e fornendoci altri particolari di quel contesto denunciato da mesi da diversi rappresentanti di organizzazioni umanitarie e raccontato con precisione dalle inchieste giornalistiche.
Le autorità croate - le stesse che reagiscono raccontando incredibilmente falsità sulle nostre intenzioni, proprio in queste ore - da tempo, spiegano, che si tratta in gran parte di montature. Che le violenze e i soprusi della polizia son stati casi marginali, isolati.

Ancora una volta, come è già accaduto in passato, ad opera di svariati politici italiani rispetto al Mediterraneo, si punta il dito nella direzione delle ONG e degli attivisti dei diritti umani. Nessuno parla di “taxi del mare”. Ma solo perché in questo tratto di “Balkan Route”, nell’entroterra, c’è il bosco.
Non sapremo mai se i ragazzi afgani avevano ragione e non conosceremo neppure la cifra esatta dei soprusi dei reparti repressivi.
Ma possiamo affermare con certezza che si avverte tutta la spropositata necessità di un cambiamento radicale delle politiche europee in materia migratoria. Cosa che ci viene ribadita quando continuiamo il nostro viaggio visitando le aree della Bosnia più note alle cronache di queste durissime settimane invernali. Raggiungiamo il campo di Lipa mentre la neve cade copiosa. Siamo in zone dove gli operatori umanitari italiani sono i primi a dire di farla finita con le politiche emergenziali: «Non chiamatela nemmeno emergenza umanitaria, vi prego», mi rimprovera Silvia Maraone storica rappresentante dell’IPSIA, «perché qua quel che servono sono scelte strutturali». E ha ovviamente ragione da vendere.
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Proprio Pietro Bartolo ha più volte richiamato un concetto simile nei diversi interventi realizzati in Parlamento: «Va superata la logica degli accordi di Dublino, ci vuole una svolta vera, una svolta che non si fondi sull’esternalizzazione continua delle frontiere, sui respingimenti come unica soluzione».
Parole identiche a quelle pronunciate da un altro parlamentare europeo, Massimiliano Smeriglio, che, sempre in questi giorni, ha visitato la parte “italiana” della rotta balcanica, ricordando con puntualità quanto anche i nostri governi non si possano chiamare fuori, non possano far finta di non avere responsabilità.
«C’è un grande bisogno di Europa» è quel che dice un giovane operatore della Croce Rossa, nel campo d’accoglienza che ospita novecentoquaranta persone situato, come uno spillo conficcato nella pelle, nel cuore della Bosnia, mentre la neve imbianca i nostri giacconi e i corpi esili dei ragazzi pakistani che mi spiegano quanto sia difficile vivere a gruppi di trenta sotto tendoni privi di corrente elettrica, riscaldamento e sistemi di areazione.
Assam, con la coperta che gli cade sulle spalle, e un volto dalle labbra carnose che sbuca sorridente, mi spiega che in fondo “the game", il gioco, è questo: è un tentativo fatto di fughe nei boschi, respingimenti, botte, frammenti di futuro da immaginare.
Sono due anni che ci prova, lo rifarà ancora.
C’è proprio bisogno bisogno d'Europa, dunque, visto che, di fronte alla cosiddetta pressione migratoria, non c’è Stato che possa cavarsela da solo.
Che poi, io credo, vuol dire innanzitutto la condivisione di una responsabilità che sin qui non è mai stata veramente affrontata coralmente, una responsabilità comune di fronte a cui non servono i cordoni di polizia per nascondere la realtà ma che invece domanda, e subito, maggiore dialogo e cooperazione tra i governi, interventi in discontinuità di tutte le istituzioni europee, politiche di accoglienza di qualità, azioni per l’integrazione, libera circolazione, in un quadro di regole chiare, dei migranti.
I “migranti” che poi dovrebbe voler dire donne, uomini, bambini.