In fuga dalla guerra arrivano a Trieste. Da qui sono rispediti in Croazia, dove vengono picchiati e torturati dalla polizia. Le organizzazioni umanitarie denunciano: violati gli accordi internazionali sul diritto d’asilo. Ma per le autorità dei tre paesi è tutto regolare (Foto di Alessandro Penso per L’Espresso)

Sulla frontiera orientale l’Italia ha ancora il volto cattivo di Matteo Salvini. La soglia di Gorizia è in un nuovo muro, presidiato da soldati con i fucili spianati contro i disperati. Come Hakan, che cammina da dodici giorni, non mangia da quattro, ma non si vuole fermare perché «Trst, Trieste è vicina», e lui è in fuga dall’Afghanistan da troppo tempo. Un passo dopo l’altro, con le scarpe rotte e le vesciche che fanno zoppicare. In mezzo al bosco di pini neri e tigli restano una maglietta sgualcita, un caricatore del telefono rotto e i cartelli sbiaditi di una frontiera abbattuta, il ricordo di un muro in cui l’odio etnico e politico si è fuso per un secolo. Hakan procede deciso, sente vicina la terra della speranza. Poi l’alt, i giovani militari dell’esercito con il mitragliatore puntato a terra e lo sguardo di chi sta eseguendo gli ordini, quindi il furgone della polizia.

Inizia così l’odissea al contrario dei migranti lungo la rotta balcanica. Si chiama “riammissione senza formalità”. Dopo poche ore li scaricano in Slovenia e da lì poi sono consegnati all’inferno degli agenti croati che spezzano braccia e gambe. Alla fine, come fossero polvere da eliminare, li scaraventato in Bosnia ed Erzegovina. Un sadico gioco dell’oca li trascina nella casella di partenza, oltre gli spalti della “Fortezza Europa”.

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Tutto inizia sotto al monte Cocusso (Kokoš), nel carso triestino. «Sbucano ogni giorno e mi dicono che non devo avvicinarmi, che sono pericolosi. Che c’è il virus, che sono infetti, ma sono ragazzi e a me dispiace non dargli nemmeno l’acqua», racconta la signora Maria, ottant’anni di memorie tra guerre e atrocità, con la cucina nel blocco comunista e il soggiorno in Italia. Mohammed e Ahmed, ventenni del Punjab, le passano accanto e alzano la maglietta sul volto come fosse una mascherina. Sono rimasti più indietro; altri hanno già imboccato la statale verso Basovizza. Dove pochi giorni prima i presidenti Sergio Mattarella e Borut Pahor hanno riconciliato una terra sbranata dalla Storia, un signore scende dall’auto e porge un paio di panini. Alcuni di loro continuano a camminare fino a scorgere il mare, altri invece sono già stati rinchiusi in un tendone militare poggiato sul confine che fu. Si buttano a terra, piangono.

Ismail li guarda da dietro la finestra di casa Malala, una struttura di prima accoglienza: «Io so com’è. Mi è già capitato, mi hanno controllato la febbre, preso le impronte e dopo avermi fatto dire se volevo chiedere asilo, consegnato ai poliziotti sloveni. Dopo due giorni a quelli croati che mi hanno picchiato con il manganello fino al confine bosniaco e preso a martellate il telefono. Ho aspettato che i miei piedi guarissero e sono ripartito». Ismail è nato nel distretto di Khyber in Pakistan e da lì è partito quando aveva solo sedici anni. Divide la stanza con Huriakhil, afgano di Laghman. Lui non è stato respinto, ma cerca un suo amico: «Eravamo insieme, abbiamo chiesto asilo tramite un interprete, lasciato le impronte, ma in poche ore lui è sparito. Ho provato a rintracciarlo, pensavo fosse in un’altra struttura per fare la quarantena invece ho scoperto che l’hanno portato in Bosnia».
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CROAZIA, VIOLENZA EUROPEA
«L’abisso, che il fiume attraversa, è fosco e impenetrabile. La terra è cupa, invisibile, sommersa di pioggia», scriveva lo slavo Miloš Crnjanski in “Migrazioni”, il romanzo dell’epica balcanica. Lo smarrimento di ogni patria perduta, la crudeltà insensata delle guerre e quell’attesa della terra promessa che si infrange lungo l’ex linea del fronte della carneficina bosniaca. Qui agenti ordinano ai cani di addentare ragazzini, urlandogli «dobro, dobro» (bene, bene ndr) e sono pronti a dare coltellate e a fratturarti le gambe.

I volontari di “Border Monitoring Violence Network” hanno raccolto centinaia di testimonianze di persone respinte dalla polizia croata con l’uso - e spesso l’abuso - della forza. Un fenomeno strutturato, tanto che Amnesty International parla di «strategia deliberata per intimidire le persone e scoraggiare i tentativi di ingresso». «Li supplicavamo di smettere e di avere pietà. Eravamo già legati non c’era motivo di continuare a picchiarci e torturarci», racconta Amir. A fine maggio hanno fermato il suo gruppo nei pressi dei laghi di Plitvice e non gli danno la possibilità di dire nulla, solo calci e botte. Poi, dopo cinque ore di abusi, l’umiliazione: spalmano ketchup, maionese e zucchero sulle teste e sui volti sanguinanti. «Ci facevano le foto, ridevano e cantavano “Tanti auguri”», ricorda. Alla fine con le braccia spezzate e i corpi martoriati, li hanno messi su due furgoni e scaricati al confine. «Usiamo raramente la parola “tortura” in Europa, ma in questo caso dobbiamo farlo», ragiona Massimo Moratti, vice direttore dell’ufficio per l’Europa di Amnesty International.

Ci sono testimonianze di persone marchiate con le croci in testa disegnate con la vernice spray, brutalmente umiliate, eppure la Commissione europea è rimasta in silenzio. Una recente inchiesta del Guardian ha mostrato come i funzionari dell’Unione abbiano nascosto le prove del mancato controllo, nonostante la Croazia riceva un contributo europeo di quasi 7 milioni di euro per la sicurezza frontaliera, di cui 300mila euro destinati proprio al monitoraggio del rispetto dei diritti umani. Uno “scandaloso insabbiamento” mentre Zagabria da mesi negozia l’ingresso nell’area di libero movimento Schengen, che richiede di osservare gli standard europei in materia di diritti umani ai confini.

IN ATTESA DEL GAME
Nel 2019 quasi 70mila persone si sono messe in marcia per la risalire i Balcani e raggiungere l’Europa. Non hanno alternative. Cinque anni dopo l’esodo di massa dei profughi siriani lungo questo percorso restano le macerie di una politica fallimentare, con la Turchia che tiene in scacco l’Europa minacciando di aprire i confini, l’Ungheria e il suo muro di filo spinato, la Grecia che implode. L’unica via per provarci passa da qui, dove la polizia croata continua a respingerli.
Bihac e Velika Kladusa sono due città bosniache del cantone di Una-Sana e portano addosso ancora i segni di un paese lacerato, dove molti rivedono nei migranti quello che hanno vissuto: un sistema d’accoglienza che non funziona. E gli europei pronti a chiudere gli occhi davanti ai massacri: come è avvenuto venticinque anni fa a Srebrenica, quando i caschi blu olandesi non mossero un dito per fermare l’eccidio di migliaia di innocenti.
«In questo momento sono almeno novemila e sono bloccati», spiega Silvia Maraone coordinatrice dei progetti lungo la rotta balcanica da quattro anni di Ipsia, l’Istituto pace e sviluppo innovazione Acli, «ma i numeri ufficiali non esistono e non c’è spazio per tutti nei centri ufficiali». Trovano riparo in edifici abbandonati dagli stessi bosniaci emigrati verso il nord Europa con il tetto di lamiere e amianto e i muri che cadono a pezzi, catapecchie senza acqua ed elettricità, senza dignità.

«Devo riprovare, settimana prossima vado “in game”», Kemal ne è certo. È il quinto tentativo di quello che chiamano “gioco”, una lotteria per entrare nell’Unione Europea, un tentativo dopo l’altro sperando di sopravvivere affidandosi alla sorte. Si parte di notte, gli zaini pieni di quel che si può, direzione Trieste, schivando orsi, lupi, le mine della vecchia guerra ancora sepolte lungo i confini e soprattutto la polizia. I bambini bloccati qui hanno imparato a giocare a push-back, si rincorrono: chi fugge e chi fa l’agente croato.
L’industria dei passeur mette a profitto la speranza. Quattro-cinque mila euro, che si riducono a metà se ti respingono dopo che hai varcato il confine con l’Italia. Ma queste sono le tariffe per i ricchi e chi non ha soldi, pur di non restare qui, “in game” va anche da solo.
Kemal in Iraq faceva il muratore. «Non ho soldi, da noi la guerra non è mai finita. Sono arrivato fino a qui e non voglio restarci. Ero riuscito ad arrivare in Italia, ma solo qualche ora. Poi la polizia croata mi ha trattato come un animale e mi ha mandato indietro senza neanche le scarpe». Kemal e come lui tanti altri.

IN NOME DELLA LEGGE
Le “riammissioni senza formalità”, basate su un accordo firmato tra Italia e Slovenia nel 1996, da metà maggio si sono intensificate. I migranti vengono rintracciati entro dieci chilometri dal confine e mandati indietro in meno di 24 ore. Per il prefetto di Trieste Valerio Valenti accade in percentuali inferiori al 50 per cento e tutto avviene «nel pieno rispetto delle normative europee ed internazionali. La riammissione non riguarda minori, soggetti vulnerabili, chi richiede asilo e chi ha già lasciato le impronte in un paese europeo. Lo stesso del resto accade tra Francia e Italia». Ammette ci sia un problema su «come opera la Slovenia con la Croazia, però bisogna ricordare che la frontiera europea del trattato di Schengen è la Slovenia non l’Italia». Cosa succede dopo, non ci interessa. L’ha ricordato anche la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese rispondendo a un’interpellanza del deputato Riccardo Magi: «A tutti gli stranieri irregolari rintracciati vengano fornite informazioni sulla possibilità di richiedere protezione internazionale; Slovenia e Croazia sono membri dell’Ue e quindi da considerare intrinsecamente sicuri».
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Insomma una procedura corretta? Non per Magi «perché la ministra ha ammesso che questo accordo si applica anche ai richiedenti asilo e così si viola il Regolamento Dublino III. L’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) sottolinea infatti come «non si possano effettuare respingimenti di alcun genere nel paese Ue confinante solo perché il richiedente proviene da lì. Il Regolamento è nato per evitare rimpalli di frontiera e violarlo significa scardinare il sistema europeo di asilo». Eppure sulla base delle denunce fatte dalla neonata rete “RiVolti ai Balcani” - composta da 36 organizzazioni tra cui Amnesty e Ipsia Acli - gran parte dei respinti sono proprio richiedenti asilo ai quali è stato impedito di accedere alla procedura. «Si tratta di una profonda e sconcertante illegalità e tutte le polizie coinvolte lo sanno benissimo» - denuncia Gianfranco Schiavone, una vita dedicata all’accoglienza, presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati Onlus di Trieste, - «nonostante si incida in modo macroscopico sulla libertà ai migranti non viene notificato alcun provvedimento e la riammissione avviene anche in maniera collettiva, proibita dal diritto internazionale. Mi pare poi molto curioso che improvvisamente centinaia di afgani e iracheni non chiedano più asilo in Italia; mentre è certo che proprio il Consiglio di Stato francese ha chiarito che non ci possano essere riammissioni tra due paesi europei. In quel caso però l’ha potuto stabilire perché almeno le riammissioni venivano fatte con un provvedimento». Qui invece non si riesce a trovare una traccia documentale su chi viene gettato in Bosnia e le associazioni chiedono all’ Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati di chiarire se queste riammissioni siano legittime.

Resta così solo la speranza di curare le ferite di chi ce la fa. Mohammed e Ahmed se ne stanno seduti su una panchina davanti alla stazione ferroviaria di Trieste. Una signora arriva curva sul suo trolley. Lo apre: è pieno di garze, medicinali. Si chiama Lorena, è una psicoterapeuta. Con lei il marito Gian Andrea, 83 anni professore di filosofia in pensione e un gruppo di volontari: Gordana, neuroscienziata bosniaca; il ricercatore pakistano Rahimm che traduce; le dottoresse Sofia, dalla Colombia, e Iman siriana-palestinese arrivata proprio attraversando le violenze della rotta balcanica. Si chinano ai loro piedi per medicarli. Mohammed e Ahmed chiedono scusa per le loro condizioni. «Curare la parte più bassa del corpo, i segni delle torture è un gesto di intimità. È riconoscere l’intera persona, restituirgli dignità», spiega Lorena inginocchiata. Alza lo sguardo, si incrocia con quello di Ahmed. Restano in silenzio. Esistono.