Recovery plan
Così Francia e Spagna stanno affrontando la transizione ecologica
Due ministre donna, in posizione di vertice nei governi di Macron e Sanchez: così i due paesi europei stanno gestendo la sfida del cambiamento climatico. Ecco punti in comune e differenze
Barbara Pompili e Teresa Ribera. Mentre in Italia la sinistra non riesce a mandare neppure una donna al governo loro sono ai vertici dei rispettivi Paesi. La francese Pompili, ex socialista, è una macroniana della prima ora. La spagnola Ribera, socialista, è vicepremier del governo di Pedro Sanchez. Entrambe guidano il ministero della Transizione ecologica, appena istituito in Italia dal governo Draghi e affidato al fisico Roberto Cingolani. In queste due interviste incrociate raccontano cosa le unisce e cosa le divide: le sfide, le opportunità, le difficoltà, le contraddizioni. Una lezione anche per l’Italia, con cui Pompili e Ribera si dicono pronte e felici di collaborare.
Ecologista da sempre, poi responsabile per la biodiversità nel ministero dell’Ecologia del governo socialista di Francois Hollande, Barbara Pompili, 45 anni, è stata una delle sostenitrici della prima ora di Emmanuel Macron. Dallo scorso luglio è a capo del controverso super ministero della Transizione ecologica, la questione centrale del Piano di rilancio europeo.
«Il presidente Macron ha posto il ministero della Transizione ecologica in alto nella gerarchia di governo perché ritiene che la transizione sia la porta d’entrata per rilanciare e trasformare l’economia, traghettandola nel nuovo Millennio. È un ministero cerniera tra più settori che vanno dall’energia alla gestione dei rifiuti, dai trasporti alle cura del territorio, e mira a dare nuovo impulso alle misure ecosostenibili. Il perimetro scelto è vasto perché l’ambiente non è solo protezione di spazi naturali ma riguarda tutti i settori della vita. È ora che i ministeri smettano di lavorare ciascuno per conto suo e sviluppino politiche complessive».
Il piano di rilancio francese vale 100 miliardi di cui 30 saranno dedicati alla transizione ecologica: come intendete utilizzarli?
«Li abbiamo ripartiti in diversi capitoli. I più importanti sono il rinnovamento degli edifici pubblici e privati, a cui toccano sette miliardi, perché rappresenta un quarto delle emissioni complessive, la ristrutturazione dei trasporti ferroviari, con 4,7 miliardi, la mobilità quotidiana con 1,7 miliardi, gli aiuti per aiutare a decarbonizzare le imprese con 2,5 miliardi puntati sui prodotti Clima di BpiFrance, la banca pubblica di investimento, e 2,7 miliardi di sostegno ai settori dell’areonautica e dell’automobile».
Nel perseguire la transizione ecologica, a differenza di altri Paesi europei, la Francia è vincolata dalla dipendenza dal nucleare?
«Sul nucleare investiremo 400 milioni di euro in formazione e sicurezza. Come Francia abbiamo una politica energetica pluriannuale che mira a riequilibrare il nostro mix energetico, aumentando l’apporto delle energie rinnovabili, che però sono escluse dal piano di rilancio perché erano già stati destinati al settore sei miliardi di euro solo per quest’anno, oltre a vari sgravi fiscali».
Come si coniuga la rivoluzione tecnologica con quella ecosostenibile?
«Non mi schiero né tra quelli che pensano che la tecnologia salverà il mondo né tra chi non crede che possa aiutare la transizione ecologica. Il digitale comporta meno spostamenti, processi industriali ottimizzati e una migliore gestione dell’acqua nell’agricoltura. Ma anche un impatto ambientale rilevante, concentrato al 75 per cento sulla fabbricazione degli oggetti. Ad esempio per costruire uno smartphone di 100 grammi servono 70 chili di materiale. Il governo ha preso misure per ridurre quest’impronta, obbligando le aziende a vendere i pezzi di ricambio di uno smartphone. Sono a favore di un uso sobrio del digitale».
Il governo ha appena presentato la “legge clima e resilienza”, elaborata a partire dalle richieste della Convenzione cittadina per il clima voluta da Macron l’anno scorso che prevede dodici misure chiave, tra cui il divieto della vendita di veicoli molto inquinanti, il divieto di voli quando esiste un’alternativa in treno su tragitti inferiore alle due ore e mezza e quello d’affitto degli edifici in classe F e G. Ma è già polemica: il governo è accusato di avere tenuto conto di una minima parte delle raccomandazioni. Le misure non porteranno alla riduzione del 55 per cento delle emissioni nel 2030, come stabilito dalla Commissione europea.
«Bisogna smetterla di scoraggiare le persone! Se si spendono 30 miliardi di euro nella transizione ecologica e si fanno anche delle leggi per ridurre l’impronta di Co2 poi non si può vanificare il lavoro fatto dicendo che non serve a nulla. Non si può far perdere le speranze a chi ha perso il lavoro nella centrale a carbone perché chiudere una centrale è come ritirare un milione di veicoli dalle strade. Bisogna convincere tutti che la transizione è importante, farla insieme, anche con gli industriali, e non mettere gli uni contro gli altri. Ho fiducia che con le misure prese in tutti e cinque gli anni di governo riusciremo a rispettare gli impegni».
Lei è sotto attacco in Francia sia nel governo dove è considerata troppo timida nel pubblicizzare le azioni intraprese sia da parte delle opposizioni che la considerano una “palla al piede della transizione ecologica”, per dirla con la definizione di Greenpeace Francia.
«In un momento di estremo cambiamento, verso un ministero che riguarda questioni importanti è normale che si abbiano reazioni molto dure sia da parte di chi non vuole cambiare nulla sia di chi vuole andare sempre più lontano. Ma io non sono al soldo dei gruppi di pressione, agisco per i francesi e devo individuare percorsi che permettano di coinvolgere tutti. La missione che ho in carico è colossale, e si può fare in mille modi. Esistono priorità. Le mie sono la decarbonizzazione dell’economia, che permette di produrre meno gas serra e che vuol dire anche misure pesanti come la chiusura delle centrali a carbone che hanno un impatto forte sui lavoratori, e il cambiamento delle modalità di trasporto, che è compreso nel piano di rilancio francese. Transizione è poi anche resilienza, che si traduce in azioni quali l’abbandono della cementificazione, l’adeguamento degli edifici esistenti e l’adozione di un’economia circolare».
Come concilia le esigenze di chi non vuole perdere le posizioni economiche di vantaggio o semplicemente il posto di lavoro e quelle di chi mira a cambiare tutto per preservare l’ambiente?
«È molto importante riuscire a cambiare la mentalità di tutti perché solo cambiando stile di vita riusciremo ad attuare la transizione. Dobbiamo fare in modo che questa sia vista come un’opportunità. E le cose si stanno muovendo: ci sono misure come quelle a sostegno della ristrutturazione degli edifici che hanno enorme successo: in un anno sono state approvate 200mila ristrutturazioni; le auto elettriche sono sempre più veloci e più diffuse; oltre un milione di persone hanno chiesto il finanziamento per riparare la bicicletta, e poi siamo sommersi dalle richieste di aiuto finanziario da parte di aziende che vogliono decarbonizzare. La mentalità cambia e la cultura si evolve, non bisogna sempre dare retta al brusio mediatico. Basta guardare al Green deal: oggi è così ambizioso ma qualche anno fa sarebbe stato impossibile».
Una politica dei piccoli passi in avanti?
«Il messaggio che voglio far passare è che l’ecologia è positiva per l’economia. Le aziende che non colgono il cambiamento spariranno. Ne usciranno vincitrici quelle che si immaginano attori della transizione e creano nuovo impiego, nuove filiere. Si tratta di una transizione da un vecchio a un nuovo sistema e deve essere anticipata per evitare che in troppi si trovino in difficoltà. Alla fine è questa la missione del ministero: formare e anticipare. L’ecologia è buon senso e prevenzione. Poi, certo, ci sono alcuni territori che dipendono molto dall’industria e che necessitano di attenzioni particolari, e lì occorre lavorare regioni e Stato mano nella mano per convertire i lavoratori e permettere loro di utilizzare le proprie capacità nell’industria dell’avvenire. I territori locali sono critici: è qui che la transizione provoca difficoltà congiunturali ed è dove noi come Stato dobbiamo intervenire».
Qual è il messaggio che lancia al nuovo ministro italiano della Transizione ecologica, Cingolani?
«Dobbiamo cogliere le opportunità esistenti. E sono molto contenta di potere lavorare con il mio omologo italiano: avremo molto in comune quando nei primi sei mesi dell’anno prossimo la Francia presiederà l’Unione europea. Condividiamo i progetti sull’idrogeno, che diventerà sempre più importante, e sulle batterie, che già fanno oggetto del partenariato di Stellantis. Dobbiamo fare un’alleanza per sviluppare la mobilità, ma anche fare fronte comune sulla scena internazionale. L’Italia è a capo del G20 e co-presiederà la futura Convenzione sul clima a Glasgow con il Regno Unito, che sarà un momento fondamentale di incontro, soprattutto ora che gli Usa sono rientrati negli accordi di Parigi. Su questi accordi bisogna trovare una quadra comune e lavorare insieme».
Con la nomina di Teresa Ribera, 51 anni, nota attivista contro i cambiamenti climatici, alla testa del ministero della Transizione ecologica nel 2018, il premier Pedro Sanchez ha posto la Spagna alla guida della transizione ecologica europea.
«Il ministero è il risultato di un accordo trasversale, che riguarda l’energia, l’acqua, l’ambiente e il territorio, che lo rende paragonabile a un ministero dell’Economia, capace di intervenire nella modernizzazione dell’economia e sull’inclusione sociale. La trasformazione del sistema energetico è la trasformazione di un elemento cruciale dell’economia. E poiché va attuata tenendo conto di aspetti ambientali e sociali, il ministero deve avere i mezzi per orientare tutte le altre politiche che riguardano il suolo, le acque, l’aria, l’uso dei prodotti chimici in agricoltura e anche le infrastrutture, nonostante siano competenza di altri ministeri. Da qui la nomina a vicepresidente, che mi pone in una posizione di forza, di primus inter pares, e mi permette di avere un’ampia capacità strategica».
Quali sono gli obiettivi?
«Innanzitutto decarbonizzare l’economia e adattarla agli effetti del cambiamento climatico tramite la costruzione di un’infrastruttura verde e la modernizzazione dell’industria. Il nostro intervento avviene in tre fasi. Si parte con una discussione strategica con cui si definiscono gli obiettivi. Poi si passa al momento della discussione economica, dell’incidenza sociale, delle politiche industriali e del territorio, della responsabilità dei singoli settori. Da questa discussione nascono gli interventi di politica economica settore per settore. Ovviamente il tutto presuppone un budget. Abbiamo stabilito delle risorse in favore del clima e della politica della transizione energetica e stabilito che qualsiasi altro investimento non debba recare danno ai nostro obiettivi. Decarbonizzaione e resilienza devono essere l’elemento irrinunciabile di qualsiasi decisione».
Come intendete utilizzare le risorse del piano di rilancio spagnolo?
«Dei 27 milioni di euro del piano di Rilancio per il 2021, il ministero ne gestirà sette e poi ce ne saranno altri 6-7 per la mobilità sostenibile. Tutto il resto deve essere compatibile con l’ambiente. Abbiamo unito la componente verde e quella digitale. Ad esempio, nell’ambito della “renovation wave” (ndr: l’iniziativa della Commissione europea per ammodernare gli edifici) abbiamo lanciato un programma non solo per rendere edifici pubblici e privati efficienti da un punto di vista energetico ma anche compatibili con il lavoro a distanza, grazie alla digitalizzazione. È un elemento fondamentale per la coesione territoriale: la Spagna rurale che perde abitanti da anni deve essere recuperata con abitazioni di qualità e con la connessione digitale. Poi abbiamo elaborato un grosso piano per ristrutturare l’ecosistema, l’efficienza delle acque, le zone umide, il suolo contaminato e le zone costiere, dove l’urbanizzazione è stata eccessiva, e ora è problematica, ma dove la discussione è complessa perché legata al settore del turismo».
Come coniugare queste esigenze diverse senza creare conflitto?
«Occorre dialogo, e noi mediterranei già dialoghiamo molto. Ma ora dobbiamo farlo più che mai. Per abbracciarla, i cittadini si devono sentire protagonisti della transizione e il governo deve scendere assolutamente al livello locale. Le faccio un esempio: attorno e sulle centrali termiche si è vissuto per generazioni. Se le chiudiamo dobbiamo offrire delle alternative di prossimità, e non possono essere Roma o Madrid a decidere. Devono offrire le risorse ma spetta ai cittadini e alle imprese trovare le alternative. Non è facile perché spesso i giovani non riescono a immaginarsi un futuro diverso, influenzati da genitori che non vogliono cambiare».
Quanto influisce la resistenza al cambiamento sulle azioni del Ministero?
«Chi si oppone alla transizione ecologica è chi non ritiene che esista un’alternativa migliore. Ma non esiste una vera opposizione frontale. Al contrario, grandi e piccole imprese stanno dimostrando un grande interesse, e stanno nascendo anche aziende nuove, ad esempio, intorno all’idrogeno verde. Per il momento i problemi sono posti soprattutto dall’industria petrolifera. Invece quella dell’automobile, che fino a tre anni fa era sul piede di guerra, ora ha compiuto un cambiamento straordinario. Stanno lavorando a nuovi progetti per produrre veicoli elettrici per la classe media e per il trasporto pubblico».
E i cittadini?
«Esiste una componente trasversale, una non astensione ideologica sui valori fondamentali che produce una forte domanda di cambiamento. Manca invece la comprensione reale della complessità del da farsi. Perché non basta porsi degli obiettivi, occorrono delle regole diverse, una fiscalità diversa, la limitazione dell’uso delle risorse, meno produzione e meno consumo. La richiesta di cambiamento sta crescendo velocemente: all’inizio di questi due anni e mezzo ci ritenevamo molto ambiziosi e ora siamo accusati di essere codardi. Al contempo, la domanda di cambiamento convive con conflitti regolari sulle questioni territoriali e sociali».
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Cosa vuol dire transizione giusta?
«La chiusura di una centrale deve far scattare meccanismi finanziari specifici. Un esempio: la chiusura di una centrale termica libera grandi volumi d’acqua. Tramite nuove leggi quest’acqua deve rimanere su quel territorio e non essere utilizzata altrove. In tandem con l’elettricità, deve essere messa a disposizione delle aziende che vi si trasferiranno e così si conserveranno i posti di lavoro del luogo. Poi bisogna aiutare i cittadini, soprattutto giovani e donne, ad adattare le proprie competenze a nuove realtà, con un costo che deve ricadere sia sulle aziende, sia sullo Stato».
La crisi della pandemia ha accelerato il processo?
«Per alcuni versi sì, per altri no. Con la pandemia e il Recovery plan sono finalmente arrivati i soldi per la promozione digitale a lungo pianificata ma per cui mancavano le risorse. Invece la crisi ha sottratto soldi al settore dell’auto e ha reso il trasporto pubblico “pericoloso” agli occhi dei cittadini, rallentando la trasformazione della mobilità».
Quali sono le sfide comuni di Spagna e Italia?
«In Italia e in Spagna dobbiamo affrontare le sfide dell’acciaio verde, della mobilità sostenibile nelle città d’arte e della ristrutturazione di un patrimonio urbano antico. La transizione ci offre poi l’opportunità storica di portare insieme a Bruxelles una nuova visione del Sud d’Europa: un Sud che grazie all’abbondanza di acqua, vento, sole, idrogeno verde, offre fonti di energia diverse, grazie a cui fare a meno degli idrocarburi russi. Prima non contavamo molto in Europa sul piano energetico ma adesso potremo giocare un ruolo importante. Ancora un esempio: da un mese il prezzo dell’elettricità in Spagna e Portogallo è ben al di sotto della media europea. Grazie al sole e al vento, l’Europa del Sud sta diventando competitiva e lo saremo ancora di più se non perderemo il treno dell’idrogeno verde che ci permetterà di immagazzinare l’energia rinnovabile. Sta cambiando il paradigma energetico europeo».
Come vede il ministro Cingolani, che proviene dal settore delle tecnologie e dell’innovazione?
«Apprezzo moltissimo il profilo del nuovo ministro italiano, esperto di innovazione, perché faciliterà il consenso degli investitori. La mentalità tecnologica è importante per il business, per l’energia, per l’industria. Deve però tenere conto di due dimensioni chiave, quella sociale e quella territoriale. Se all’interno di un’agenda di cambiamento manca la solidarietà del capitale, la gente non l’appoggerà, penserà che è un cambiamento importante solo per le aziende. L’innovazione deve poi aiutare a recuperare nell’ecosistema l’equilibrio che stavamo perdendo con un eccesso di tecnologia. Il fotovoltaico è in conflitto con un utilizzo agricolo del suolo e l’eolico con la bellezza del paesaggio. Non si deve disprezzare il conflitto, che è reale. Bisogna invece integrare la componente tecnologica con quella sociale e territoriale e prevedere le modalità di sostegno ai cittadini perché la transizione può essere costosa».