Con il cambio di paradigma economico, in Europa non è soltanto il grande partito della sinistra italiana ad essere entrato in crisi. In Germania, sono stati i lunghi anni di Grande coalizione con il centrodestra di Angela Merkel ad annacquare l’identità della Spd fino a ridurla ad un nobile partito sul viale del tramonto, pronto a cedere il testimone ai giovani dei Verdi. In Francia, la cometa luminosa del Partito Socialista di François Mitterand, che nei primi anni Ottanta aveva governato con i comunisti, si è sfaldata in tanti filamenti più o meno luminosi che faticano oggi a ricomporsi.
Lo scorso 11 gennaio il giornale della sinistra francese, Libération, scriveva: «A sinistra rischiano di esserci più candidati che elettori». Una provocazione, naturalmente. Ma anche un grido di allarme.
A tre mesi dalle elezioni regionali, a un anno dalle elezioni presidenziali francesi e a quattro dal trionfo di Emmanuel Macron, la sinistra sta provando a ricomporsi. L’obiettivo è una grande alleanza di tutte le sue componenti per riuscire a battere le destre. Perché, a stare agli ultimi sondaggi, il secondo turno delle presidenziali 2022 sarebbe una riedizione del duello Marine Le Pen-Macron del 2017, scenario sgradito a gran parte dell’opinione pubblica.
Ma il problema è duplice. Anche tutta insieme, la sinistra non otterrebbe più del 30 per cento dei consensi, più o meno la stessa percentuale su cui può ancora contare Macron, dopo cinque anni di un governo a luci e ombre che ha progressivamente virato a destra. E poi i contrasti tra leader, forti abbastanza per conquistare i riflettori ma non per unire partiti e gruppi sotto un unico ombrello. L’unico ad avere annunciato formalmente la sua candidatura alle presidenziali del 2022 è Jean-Luc Mélenchon, l’ex socialista che ha fondato nel 2016 il partito “La Francia ribelle” con cui ha conquistato quasi il 20 per cento dei voti nelle ultime presidenziali. Piace a tanti giovani e alla sinistra più radicale ma spaventa, soprattutto per i toni anti-europeisti, i moderati.
A loro guarda invece l’ex ministro socialista dell’Industria, Arnaud Montebourg, vecchio astro del partito, che però, dopo la sconfitta alle primarie socialiste del 2017, si è dedicato alla produzione di miele. Con la pandemia e il ritorno in auge della concezione patriottica dell’economia - “made in France” era il suo cavallo di battaglia - ha intravisto l’occasione per un rientro sulla scena, e a gennaio ha annunciato la creazione del movimento “L’impegno”.
La vera attenzione mediatica è però sempre più per la sindaca di Parigi, la socialista Anne Hidalgo, che ha appena ricevuto il premio di Trombinoscope, l’annuario politico francese, come “politico/a dell’anno 2020” per la sua capacità di tenere a bada la sinistra radicale di Mélenchon e trovare una quadra con i Verdi. Forte del sostegno del partito, si sta scaldando i muscoli in attesa delle elezioni regionali di giugno, quando diverrà più chiaro se i socialisti riusciranno o meno a conservare il vantaggio attuale sui Verdi e ad ottenere le redini di un’eventuale coalizione.
Questi ultimi contano però di replicare il trionfo delle comunali dell’anno scorso, che li ha portati alla guida di grandi città come Lione, Bordeaux e Marsiglia, per potersi presentare in autunno come il vero centro coagulante di una “sinistra ecologista e solidale”. «A capo di un progetto incentrato sull’ecologia serve un ecologista, non basta chi si è dato una mano di verde», dice Yannick Jadot, il carismatico eurodeputato verde che da tempo pianifica il raggruppamento delle forze di sinistra sotto le insegne di una nuova politica che metta la rivoluzione ecologica al cuore del programma di governo. «L’ecologia non è solo quella del centro città ma anche delle zone rurali e della politica industriale europea», dice nel giorno in cui presenta al parlamento europeo la proposta per tassare le emissioni di Co2 contenute nei prodotti importati. La frecciatina è diretta a Hidalgo, che si è intestata il progetto di trasformare la capitale francese nella “città dei 15 minuti”, dove un cittadino potrà soddisfare qualsiasi bisogno in un quarto d’ora a piedi, in bicicletta o con un mezzo pubblico. «Vedrei bene un binomio Hidalgo-Jadot», dice da Parigi l’analista politico di Cevipof Bruno Cautres: «Sono più o meno alla pari nelle intenzioni di voto e credo abbiano entrambi il vento in poppa. Certo, Hidalgo è ben voluta sia dai socialisti sia da tanti ecologisti».
Ma siccome a sinistra le cose non sono mai semplici, non è del tutto scontato che Jadot risulti a settembre il vincitore delle primarie verdi. Sempre poi che si facciano solo tra Verdi, visto che proprio Jadot spinge per primarie più ampie, «all’altezza dell’obiettivo: un raggruppamento che occupi lo spazio politico tra Mélenchon e Macron e si contrapponga a Macron e a Le Pen». Un punto quest’ultimo su cui non c’è accordo: Eric Piol, sindaco verde di Grenoble, considerato il pioniere dell’ecologia cittadina, da anni tesse tele con il partito di Mélenchon, a cui non vuole rinunciare, oltre che con comunisti e socialisti. E, nonostante sia meno noto di Jadot, ne è comunque il rivale naturale. Molti vedono in lui la vera cerniera di uno schieramento rosso-verde alla francese.
Non si intravedono invece tentativi di accordo per una coalizione di centro sinistra in Germania. Il progressivo indebolimento della Spd, per 15 anni partito ancella del centrodestra, ha rafforzato i Verdi (“die Grünen”) fino alla prima grande svolta nelle elezioni regionali del 2017 in Baviera, quando si cominciò a capire che il duo alla guida, Annalena Baerbock e Robert Habeck, aveva dismesso gli abiti del “no” e si stava preparando a governare. Quattro anni e una pandemia più tardi, è il paradigma economico europeo ad essere andato incontro alle idee dei Verdi tedeschi - che vogliono introdurre una tassa sulla Co2, investire in tecnologie verdi, quintuplicare l’uso dell’eolico e abbandonare il gasdotto russo Nord Stream2. Così non solo sotto la guida del settantenne Winfried Kretschmnn, che si autodefinisce “un verde conservatore”, molto vicino a posizioni liberali, si confermano ora primo partito nel Baden-Württemberg, la patria di Mercedes Benz e Porsche, aumentando il divario con la Cdu, ma guardano già alle elezioni nazionali di settembre, in cui i sondaggi, dandoli stabilmente intorno al 20 per cento, li proiettano da tempo al governo federale, come nuova forza propulsiva degli anni della Grande transizione ecosostenibile.
In questo caso, due saranno le possibilità. O rimpiazzeranno i socialdemocratici come junior partner della Cdu e principale forza progressista del Paese, facendo fuori dal governo la Spd, il grande partito della sinistra, al potere per 34 dei 67 anni della Repubblica federale tedesca e leader di coalizione per 21. Oppure potrebbero diventare la testa di una coalizione rosso-verde. Quest’ultima è però un’eventualità meno probabile perché avrebbe bisogno dei voti della Linke, il partito di sinistra radicale, con cui i Verdi tedeschi - innovatori, pragmatici e pro-business - scontano più differenze ideologiche che con il centrodestra.
Resta un dato comune a Francia e Germania. Nei prossimi anni, quelli dell’attuazione del Piano europeo di recupero e resilienza, sarà difficile ricostruire un grande partito di centro sinistra ignorando gli ecologisti o le loro battaglie. Il rosso non potrà fare a meno delle sfumature di verde.