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L’attacco di Erdogan ai diritti umani è l’ultima mossa di un leader allo sbando
Contestato nelle piazze, in calo di popolarità, con un partito diviso. Il presidente turco sceglie il pugno di ferro. Ma questa volta rischia
I primi mesi di quest’anno in Turchia sono stati particolarmente foschi: con la nomina di fiduciari del presidente turco ai vertici delle accademie, come è avvenuto alla Bogaziçi, l’Università del Bosforo, a seguito di un decreto presidenziale varato nella notte del 2 gennaio e poi, sempre di notte, dal 17 marzo, in 72 ore, con una scarica di colpi allo stato di diritto e ai diritti umani fondamentali senza precedenti da quando il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Recep Tayyip Erdogan è al potere.
Dapprima, vi è stata la richiesta della messa al bando del terzo maggior partito del paese, il Partito democratico dei popoli (Hdp), accompagnata da quella dell’interdizione di 687 suoi membri dall’esercizio dell’attività politica perché accusati di sostegno al terrorismo. Poi, il 19 marzo, l’uscita, per decreto presidenziale, dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ratificata dalla Turchia il 12 marzo del 2012 dopo averla sottoscritta l’11 maggio del 2011. Erano altri tempi per l’Akp.
La cancellazione dall’ordinamento turco della Convenzione del Consiglio d’Europa era da più di un anno al centro delle richieste dei circoli islamisti e dell’estrema destra che costituiscono lo zoccolo duro della base militante ed elettorale dell’Akp e del suo prezioso alleato, Devlet Bahçeli, presidente del Partito del movimento nazionalista (Mhp), formazione politica dei Lupi Grigi, con basi ideologiche nell’estrema destra panturanica, xenofoba e antioccidentale.
Ma, come si sa, il movimento femminista e quello Lgbtiq in Turchia sono molto agguerriti e subito si è levata la loro protesta in diverse città del paese.
Per giorni nei quartieri centrali della megalopoli turca, alle ore 21, si è udito il fragore della “tencere ve tava çalmak”, la battitura di pentole e padelle, fatte risuonare dalle donne affacciate alle finestre e ai balconi.
Le femministe della piattaforma “We Will Stop Femicide” assieme a gruppi Lgbtiq, manifestano ogni giorno e nel fine settimana si danno appuntamento al molo di Kadıköy, uno dei quartieri più iconici della sinistra turca. «Non puoi cancellare la nostra lotta di decenni. Non rinunceremo mai ai nostri diritti, li abbiamo conquistati lottando con i denti e con le unghie», gridano al ritmo della musica pop.
In un momento in cui alcuni circoli islamisti in Turchia stanno discutendo di riportare le leggi anti-adulterio (che presumibilmente includerebbero la condanna e la repressione del sesso prematrimoniale), le donne con le loro canzoni, anche sulla passione erotica, esprimono un’aperta ribellione e costituiscono il motore della lotta contro l’oppressione.
Il richiamo all’uguaglianza di genere e la promozione dei diritti Lgbtiq presenti nella Convenzione di Istanbul erano da sempre indigesti per i conservatori turchi.
Ma i numeri della violenza sulle donne e della violenza di genere sono agghiaccianti: dall’inizio dell’anno sono già 71 le donne uccise e nel 2020 sono state 284. Negli ultimi 18 anni, da quando l’Akp è al potere, sono state 6.732.
Ma perché il presidente turco ha deciso di rinnegare un trattato internazionale che nel 2011 era un fiore all’occhiello della sua politica riformatrice di avvicinamento all’ordinamento dell’Unione europea?
Il direttorato delle Comunicazioni presso la presidenza della Repubblica turca in un suo comunicato, di lunedì 22 marzo, esprime molto bene le motivazioni che sono alla base di questa decisione: «la Turchia si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul perché il trattato internazionale considera l’omosessualità una condizione umana del tutto normale e ciò è incompatibile con i valori sociali e familiari della Turchia».
In sintesi, il governo turco ritiene che la Convenzione incoraggi gli orientamenti non eterosessuali e che dunque minacci l’istituzione fondamentale della famiglia.
Anche l’associazione Kadem, co-fondata dalla figlia del Presidente (Sumeyye Erdogan Bayraktar), ha ora cambiato idea sostenendo che «a tutelare le donne ci sono già le leggi nazionali, a partire dalla Costituzione».
La visione della nuova Turchia di cui parla tanto il Capo dello Stato consiste nel recupero dei valori locali e nazionali che rappresenterebbero le radici dell’identità turco-islamica che la rivoluzione kemalista aveva represso, cancellato, introducendo appunto valori estranei. E dunque quelli di genere non sono considerati valori della tradizione turca, ma sono importati e dunque dovrebbero essere soppiantati da quelli locali e nazionali (Yerli ve Milli). Per questo sta smantellando stato di diritto e diritti umani.
Il leader turco vede, mese dopo mese, i suoi consensi diminuire e sembra convinto che possa risalire nei sondaggi toccando le corde della identità nazionalista-islamista anche più radicale. Si rende conto che per avere la certezza di vincere le prossime elezioni dovrà eliminare dalla scena politica ed elettorale il più insidioso partito d’opposizione, per questo è disposto anche a correre il rischio di passare alla storia come capo di un governo che chiude un partito come aveva fatto il potere kemalista e golpista nel corso della storia repubblicana contro i partiti islamisti e contro il suo stesso partito nel 2007.
È dal 2018 che il partito del Presidente non ha la maggioranza assoluta in Parlamento e dunque ha bisogno del suo prezioso alleato Devlet Bahçeli al quale ora ha offerto su un piatto d’argento la testa del Partito democratico dei popoli (Hdp), terza maggiore forza politica rappresentata nel Parlamento turco.
Bahçeli sembra sempre più il “leader ombra” della Turchia, dopo aver “intrappolato” Erdogan in un angolo con accanto gruppi di potere politico-affaristici, corrotti e vicini a ideologi dell’estremismo di destra-nazionalista, come quella dei Lupi Grigi con basi ideologiche nell’estrema destra panturanica, xenofoba e antioccidentale.
Il leader turco appare sempre più allo sbando, in piena difficoltà, soprattutto per la grave crisi economica che sta attraversando la Turchia.
Logorato e indebolito da diciotto anni di potere, ora è anche alle prese con una faida interna al suo partito che ha vissuto già due scissioni con la fuoriuscita di leader storici e fondatori e non sembra più in grado di concepire e dettare una sua agenda e una sua strategia.
Ecco perché si affida oltre che al Mhp anche al piccolo partito anti Nato, Vatan Partisi (Partito della Patria) e a circoli del nazionalismo estremo, a quelli islamisti e agli eurasisti che guardano alla Russia e alla Cina, tutte correnti, che seppur elettoralmente marginali, hanno non poca influenza nella società turca dal momento che, dopo il tentato golpe del 2016, sono tornate ad occupare posizioni di rilievo in particolare nelle Forze armate e controllano gangli vitali delle istituzioni del paese.
Siamo alla versione moderna del sogno antico dei primordi della Repubblica di una “Turchia senza curdi” quando tutte le minoranze, specialmente quelle escluse dal Trattato di Losanna (24 luglio 1923), si videro bandite e negate, costrette a celare la propria identità non turchizzata, la propria lingua nelle scuole, nei media e, più in generale, nelle istituzioni pubbliche.
Se l’Hdp dovesse essere chiuso, sarebbe l’ottavo partito filocurdo ad essere messo al bando per il suo presunto coinvolgimento in attività “terroristiche”. Il potere di chiudere un partito politico spetta alla Corte costituzionale che dovrà decidere con la maggioranza dei due terzi. Assieme alla richiesta di dichiarare fuorilegge l’Hdp, è stata presentata anche quella del divieto di esercitare politica per suoi 687 membri. Si vuol dunque impedire che i dirigenti dell’Hdp ancora in libertà attivino un altro partito. L’Hdp infatti ha già pronta un’altra organizzazione, pienamente operante e che è il Partito democratico delle Regioni (Dbp). I curdi sono abituati ad essere messi fuorilegge, hanno sempre saputo che quando la loro presenza sarebbe diventata scomoda per il regime, quest’ultimo avrebbe chiuso il loro partito come è accaduto ben sette volte.
Quando fondano una organizzazione politica, contemporaneamente ne aprono una di riserva perché la legge sui partiti in Turchia richiede che una forza politica per operare deve avere sedi aperte e registrate in almeno 41 province, cioè nella maggior parte del paese. E l’interdizione dalla vita politica di 687 dirigenti di questo partito servirà proprio a impedire che vi possano essere in libertà esponenti politici pronti a trasferirsi nella nuova formazione politica.
Questa volta però la criminalizzazione e la repressione degli esponenti curdi non sta raccogliendo consensi al di fuori della ristretta cerchia dell’alleanza di governo.
Se una grande maggioranza del partito anticurdo di Bahçeli sostiene la chiusura dell’Hdp, nell’Akp di Erdogan vi sono diffuse voci di dissenso e, al di fuori di questo schieramento, questa pratica mutuata dai regimi del passato è quasi unanimemente condannata.
Contrari sono, oltre al maggior partito d’opposizione, il Partito repubblicano del popolo (Chp) di Kemal Kılıçdaroglu; Meral Aksener, sua alleata con l’Iyi Parti (Il Buon Partito di destra nazionalista), il leader del Partito del Futuro (Gelecek Partisi), dell’ex primo ministro Ahmet Davutoglu, il leader del Partito della democrazia e del progresso (Deva), dell’ex vice primo ministro, Ali Babacan, e il leader del piccolo partito islamista, Saadet Partisi, di Temel Karamollaoglu.
Contrario è anche l’ex capo di stato Abdullah Gül, fondatore assieme a Erdogan dell’Akp, ma ora fuoriuscito anch’egli dal partito e ispiratore del Deva.
Contrari sono anche i sindaci delle due maggiori città turche, il sindaco di Ankara, Mansur Yavas, e il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, entrambi del maggior partito d’opposizione Chp. Sia Yavas che Imamoglu hanno accresciuto fortemente la loro popolarità scavalcando addirittura nei sondaggi, seppur di pochissimo, il leader turco. E dunque l’obiettivo del Presidente è quello di limitare fortemente il loro potere a livello locale privando le casse delle municipalità amministrate dal Chp dei fondi statali necessari per i servizi di pubblica utilità in maniera tale da provocare disagio e contrarietà nella popolazione.
Recentemente il governo ha sottratto alla gestione della municipalità di Istanbul centinaia di aree pubbliche, compreso il parco Gezi di piazza Taksim, affidandole a una fondazione di facciata che fa capo allo stato.
Se dovesse essere chiuso l’Hdp, si potrebbe creare uno scenario simile a quello a cui abbiamo assistito nelle elezioni locali del 31 marzo 2019 quando il partito di Erdogan subì una sconfitta bruciante in tutti i grandi centri urbani del paese grazie anche ad una intelligente ed efficace alleanza elettorale: quella tra il Chp e l’Iyi Parti che vedeva l’Hdp praticare la “desistenza” con la rinuncia a presentare propri candidati nei grandi centri urbani, dirottando tutti i suoi elettori sul Partito repubblicano del popolo.
Questa desistenza potrebbe essere una carta vincente se praticata anche nel sudest anatolico.
Per questo il presidente turco potrebbe decidere di convocare elezioni anticipate, per evitare che l’opposizione prenda le sue contromisure e si rafforzi ulteriormente. E intanto il governo cambia i confini di quattro province dell’Anatolia, quelle di Diyarbakir, Ordu, Giresun e Mus, per modificare i collegi elettorali e riequilibrare l’elettorato a favore dell’Akp e del suo alleato Mhp. La pratica che gli americani definiscono di Gerrymandering: manipolazione dei distretti elettorali.