Iniziato il ritiro delle truppe Nato. Il paese resta diviso tra i governativi appoggiati dalla comunità internazionale e le fazioni secessioniste che combattono per un’indipendenza totale. E la fondazione di uno Stato islamico

«Abbiamo sconfitto gli inglesi, i russi e ora la Nato. Siamo la nazione più fiera. Che il mondo se ne faccia una ragione. Siamo la tomba degli imperi», suona il nasheed (canzone religiosa) cantato da un anziano leader tribale, di fronte allo sguardo attento, emozionato del talebano mullah Abdul Manan Niazi. Il suo viso segnato dalla guerra e dall’età è illuminato dai raggi solari del tramonto che trapassano i vetri della finestra di una casetta in fango, in cima a una montagna brulla e desertica nei dintorni della città di Herat, nell’ovest dell’Afghanistan. La barba è lunga, grigia e rossastra, un turbante nero in testa e uno shalwar kameez (vestito tradizionale) azzurro.

Personalità influente al tempo del mullah Omar, il mullah Manan, guida dal 2015 un gruppo talebano secessionista, formato da migliaia di soldati che combattono la Nato, esercito governativo ma anche la fazione più grande dei Talebani formata dal gruppo di Doha, oggi al tavolo dei negoziati con americani e governo afghano per la pace. «Dopo la morte del mullah Omar nel 2013, i servizi segreti pachistani (Isi) volevano fare dei talebani una loro marionetta. Ecco perché ho deciso di separarmi. Ora, i talebani a Doha non rappresentano il popolo afghano né il vero Emirato islamico dell’Afghanistan - la vera vittima di questa guerra - che ha combattuto per 25 anni contro gli invasori».

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Il mullah Manan siede a gambe incrociate, solenne, sotto il sole e con il vento che batte sulla faccia. Di fronte, un fucile di produzione italiana, ottenuto durante un combattimento. Attorno, vicino alla casetta di fango, ha radunato decine dei suoi mujaheddin armati fino ai denti, che, in silenzio, ascoltano la sua predica. Nel mezzo del suo discorso, alcuni gridano «Takbir!», seguito dal grido religioso galvanizzante: «Allahu Akbar!».

Il mullah Manan scaglia le sue ire contro la leadership talebana a Doha: «Un vero talebano è al servizio dell’umanità e la guida implementando le leggi di Dio. Loro sono solo degli infedeli perché uccidono musulmani con i soldi non musulmani che arrivano da paesi come Russia, Cina, e anche Pakistan e Iran». La Nato poi, sconfitta, secondo lui non rappresenta più un problema: «Abbiamo distrutto l’occupazione occidentale», esclama, ricordando che a Herat hanno affrontato le truppe italiane. «Gli italiani? Certo, li abbiamo fatti esplodere molte volte. Loro, come la Nato e tutti gli imperi. Siamo più forti. Ora, devono andarsene». Il mullah si riferisce ai 31 soldati del contingente italiano Nato morti in azione durante la ventennale presenza a Herat per stabilizzare la regione.

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La sua guerra è difficile. I suoi mujaheddin sono impegnati incessantemente su molti fronti. «Il processo di pace in corso andrà a rotoli perché gli americani trattano con dei talebani che non vogliono la pace. Noi vogliamo proteggere il paese, che ha bisogno di un vero regime islamico ma senza interferenze della comunità internazionale». Un suo mujahid, Rajan, 25, segue il suo leader portando su e giù per le montagne armi pesanti. «L’occupazione Nato e i talebani di Doha sono un pericolo e continueremo a combatterli. Spero che in futuro nessuna madre afghana debba piangere un figlio e nessun figlio perdere una madre».

La fazione secessionista talebana del mullah Manan, presente soprattutto nell’ovest del paese, è un esempio di quanto lo scacchiere afghano sia frammentato. È però sempre il gruppo talebano di Doha ad avere il controllo sulla maggior parte dei territori e a essere la principale resistenza contro la Nato e i loro alleati dell’esercito governativo.

A pochi chilometri da Kabul, nella provincia di Wardak, dove gli scontri sono costanti e violenti, i mujaheddin talebani, più forti, accerchiano le forze governative nel capoluogo Maidan Shahr dal distretto adiacente di Nerkh, bersagliando i checkpoint e i fortini, dai quali i soldati non escono mai. A volte, i mujaheddin attaccano le principali arterie stradali, segnate da crateri solcati dalle mine posate per distruggere i blindati governativi. A pochi chilometri dall’asfalto le bandiere bianche talebane sventolano al posto del tricolore afghano.

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Sulle loro moto, i Talebani sono pronti all’agguato, nascosti. Kalashnikov sulla schiena, uno shalwar khameez - tagliato sopra le caviglie per motivi religiosi - barba incolta con capelli lunghi, bruni, raccolti sotto il desmal (uno scialle) e il turbante. Il colore verde e azzurro degli occhi è messo in risalto dal surma (khol), la matita per gli occhi, una tradizione musulmana: «Lo faceva il profeta Maometto», commenta, devoto, il mujahid Abdullah. Il comandante del distretto di Nerkh, è Mohammed Nazir, 42 anni, nome di battaglia Mawlawi Saber. Nel 2001 - racconta - ha seguito il richiamo alle armi del Mullah Omar, per affrontare gli americani. «È un nostro dovere religioso combattere l’invasore».

Nel frattempo, invisibili agli occhi, gli aerei militari sorvolano la zona rumorosamente. Da lontano, si sente qualche sparo. «Di notte colpiamo i soldati del governo con i fucili a puntatore laser, di giorno con altre armi. Ora i soldati usano i civili per proteggersi», commenta Saber. Il suo messaggio è però pacifico: «Noi siamo pronti alla pace. È così difficile vivere in guerra che tutto sarà molto più facile. Torneremo ad essere fratelli con gli altri afghani. Non c’è problema. Ma vogliamo che gli stranieri si ritirino e che venga instaurato un governo con valori islamici. Un buon talebano è colui che esegue gli ordini del nostro leader. Ci dirà cosa fare», sorride.

Non c’è rancore nelle voci dei combattenti. Anche un suo mujahid, Hajmal, 25 anni, ha deciso di abbandonare gli studi per combattere il jihad. «Molti di noi hanno perso familiari e amici. Ma il nostro dovere religioso è più importante. Vogliamo un governo islamico, e quando la pace arriverà, non vediamo l’ora di sederci con i nostri fratelli dall’altro lato».

Nelle aree del distretto di Nerkh controllate dai talebani, la guerra è visibile negli occhi della gente. È segnata indelebilmente sui loro corpi. Bambini camminano claudicanti con bastoni. Giovani portano protesi nascoste dai vestiti. Tutti hanno ferite interne irreparabili, che si riaprono con il rombo dei jet militari e che ricordano loro gli attacchi notturni perpetrati dalle forze governative e quelle straniere. «Un drone americano mi ha portato via la gamba», racconta pieno di vergogna Samiullah, 22 anni, un sarto del villaggio di Oryakhil. «Avevo 12 anni e tornavo da scuola. All’inizio non lo accettavo, avrei tanto voluto raggiungere le fila dei talebani e combattere. Ma non posso. Cucio loro i vestiti oppure dono dei soldi. Gli stranieri se ne devono andare, sono la causa di tutti i nostri mali».

A qualche chilometro da Oryakhil, nelle fitte valli verdeggianti, attorniate dalle cime innevate dell’Hindu Kush, sorge il villaggio di Shahid Khil. Un cimitero, pieno di bandiere bianche in onore delle vittime, è posto all’entrata in segno di benvenuto. Dal portone di un casolare esce un uomo, Janatmir Shahid Khil, 50 anni, accompagnato dai figli. «Due anni fa i soldati del governo e gli stranieri, dopo aver bombardato, hanno attaccato uccidendo 8 persone. Studenti, professori, ingegneri: civili innocenti», urla concitato. «Abbiamo educato i nostri figli a combattere gli stranieri e li combatteremmo anche noi. Ma vogliamo solo la pace e che loro se ne vadano».

Un po’ più a valle, un professore del villaggio di Sarmarand, Rahimullah, 58 anni, ha subito la stessa sorte 3 anni fa, perdendo 7 membri della sua famiglia: «Prima hanno bombardato, poi sono entrati in casa, puntandomi il fucile addosso. Hanno picchiato me e i miei figli, accusandoci di essere talebani. Dopo 24 ore se ne sono andati, lasciandosi dietro i cadaveri e la distruzione. Sono pronto a perdonare tutti. Ma gli stranieri sono venuti qui solo per uccidere. Devono andarsene. Ancora oggi», aggiunge, «non riesco a chiudere occhio».

A poche centinaia di metri dal distretto controllato dai talebani di Saber, il drappello della polizia nazionale afghana del tenente Mirwali presidia l’ultimo punto di controllo governativo all’uscita di Maidan Shahr. I diretti avversari provengono dalle stesse aree: «Combattiamo per difendere il paese. Loro ci bersagliano con i fucili a puntatore laser», dichiara Mirwali, corroborando l’informazione talebana. «Ci conosciamo tutti, è pericoloso per noi portare la divisa. Si possono vendicare sulle nostre famiglie».

Un uomo di Mirwali, Qudratullah, 25 anni, ne è stato vittima: «Hanno ucciso mio padre e due zii perché ero nelle forze speciali dell’esercito. Lo sapevano. Ora sono tornato a combattere vicino a casa per prendermi cura di loro. Spero che tutto questo finisca. Torneremo ad essere fratelli e sederci allo stesso tavolo». Le vere vittime della guerra afghana - civili, soldati, talebani e miliziani al fronte - difendono le proprie convinzioni. In comune però, hanno il sogno di un nuovo Afghanistan. Tuttavia, rimangono ai margini della politica internazionale, usati come pedine.

L’Afghanistan, difatti, è diviso. In balia della comunità internazionale, in un momento decisivo caratterizzato dall’inizio del ritiro delle truppe Nato (circa 3500 unità) entro l’11 settembre - come annunciato di Joe Biden venendo meno all’accordo firmato fra Trump e i talebani nel febbraio 2020, che stabiliva il ritiro completo entro il primo maggio di quest’anno - e la decisiva conferenza sulla pace in Afghanistan organizzata prossimamente ad Istanbul (e fortemente voluta dagli Stati Uniti). In Turchia, si potrebbe arrivare ad uno storico accordo fra talebani e governo afghano per la formazione di un governo di transizione e un cessate il fuoco totale.

Il rischio di tutto ciò è però un nuovo conflitto civile. Se la violazione dell’accordo fra Usa e talebani ha suscitato una reazione drastica da parte della leadership di Doha, che ha minacciato di riprendere le ostilità su scala completa, un eventuale accordo ad Istanbul, quasi certamente imposto dalla comunità internazionale e dagli Usa - noncurante della situazione sul campo - creerebbe le basi per nuovi scontri.

A dirlo è Rahmatullah Nabil, ex-direttore dei servizi segreti afghani (Nds): «Un accordo forzato permetterebbe alla Nato e agli Usa di uscire degnamente da una sconfitta, creando un governo di transizione basato su valori ideologici e etnici, ma rischiando una guerra e una balcanizzazione del paese. Una volta fuori, per la comunità internazionale, sarebbe facile incolpare gli afghani per le future violenze».

Secondo alcune indiscrezioni, confermate da esponenti di entrambi i lati, i talebani potrebbero però accettare una proroga del ritiro in cambio del rilascio di prigionieri e la fine di ogni appoggio aereo e terrestre all’esercito governativo. Nabil è preoccupato: «Abbiamo molte paure e speranze per Istanbul. La comunità internazionale tratta con il governo, signori della guerra e talebani. Sono sì parte della realtà, ma non tutta. Gran parte della popolazione non si riflette più in questi schemi e ignorarlo sarebbe un grave errore».

Se i talebani sono divisi, lo è altrettanto il governo, poco rispettato dalla popolazione e dai suoi stessi rappresentanti corrotti a Kabul, i quali accusano i talebani di non volere la pace ma armano milizie segrete e private per combatterli, cercando di difendere i propri interessi (spesso sostenuti da stati come Iran, India e Russia). Ghulam Farooq Wardak, ex-ministro e uno dei principali creatori della costituzione afghana del 2004 lo dice chiaramente: «Questo governo, sostenuto dagli stranieri, è corrotto e arma milizie. È stato votato da un milione di persone su 34. Non rappresenta nessuno». «Il presidente Ashraf Ghani fa lo stesso. A nessuno interessa il popolo afghano», tuona Nabil, indignato.

Tutto è corroborato da Jalal, 53 anni, un signore della guerra del suo villaggio, Khinjan, nella provincia di Baghlan: «Siamo sostenuti dalle Nds (i servizi segreti afghani). Ci danno soldi e qualche arma per difenderci». Jalal combatte da quando aveva 16 anni. Nel 2004, un bombardamento Nato sulla sua casa ha ucciso ventisei persone della sua famiglia. Una ferita che non si rimarginerà. Duro e inespressivo, oggi difende il suo villaggio dai talebani con centinaia di civili assoldati: «Il governo senza di noi non riuscirebbe a difendersi. È come il marito di una moglie che lo tradisce. Quando lo scopre in casa sua, invece di sfidarlo da solo chiama il vicinato per farsi aiutare. Noi vogliamo la pace, ma senza che i talebani ci impongano i loro valori. Quando tutto sarà finito, consegneremo le armi».

Di miliziani come Jalal, l’Afghanistan ne è pieno. «I programmi di disarmo protratti negli anni sono andati a rotoli. Sono gruppi inaffidabili e più pericolosi dei talebani. Ci aspetta una nuova guerra», ammette Belqis Roshan, parlamentare indipendente per la provincia di Farah, «Il governo arma le milizie perché non vuole la pace».

Afghanistan, bomba a orologeria. Tutti contro tutti. Soldati e popolazione sono vittime dei politici. Come su una scacchiera: i pedoni scoperti, vittime della regina. Non ha importanza. Tutto è lecito per fare scacco al re.