Migranti
Nei prossimi giorni si discuterà il decreto. Una sfida per il governo Draghi con in maggioranza Salvini e il Pd di Letta. L’Italia continuerà a chiudere gli occhi sul tema dei diritti, dei centri di reclusione e delle violenze sui migranti?
di Francesca Mannocchi
Nella notte tra il sette e l’otto aprile scorso un uomo è stato ucciso e due giovani, un diciassettenne e un diciottenne, sono rimasti feriti nel centro di raccolta di Al-Mabani, a Tripoli.
Secondo le ricostruzioni dei testimoni della sparatoria raccolte dalle organizzazioni umanitarie che hanno raggiunto il posto, nel centro di detenzione, gravemente sovraffollato, è scoppiata una rissa, le guardie hanno reagito ai disordini aprendo il fuoco indiscriminatamente e alcuni colpi hanno raggiunto le celle uccidendo l’uomo e ferendo i due ragazzi.
Il centro di detenzione di Al-Mabani è un edificio che solo lo scorso anno è stato adibito a centro di smistamento per i migranti riportati indietro dalla Guardia Costiera libica. È lì che dopo le operazioni di sbarco vengono portate le persone, è lì che restano per un tempo indefinito prima di essere spostate in uno dei diciassette centri ufficiali.
Oggi il centro di Al-Mabani è il più affollato a Tripoli. A febbraio, nel giro di poche settimane, è passato dalla capienza prevista - circa 300 persone - a 1500, significa che in ogni stanzone ci sono tra le duecento e le duecentocinquanta persone e che, insieme ai migranti, sono aumentate le tensioni. Le condizioni nel centro di Al-Mabani sono invivibili: c’è poca luce e ventilazione, non arriva abbastanza cibo né acqua, non ci sono bagni per tutti, solo tre o quattro ogni duecento persone, ben al di sotto degli standard internazionali.
Secondo Medici senza Frontiere si contano tre persone per metro quadrato, lo staff medico continua a riscontrare casi di scabbia e tubercolosi e le persone chiedono di dormire vicino alle latrine perché è l’unico posto da cui entri un po’ di aria e di luce naturale.
Non è la prima volta che emergono racconti di rifugiati e migranti esposti a violenza nei centri di detenzione libici. Negli ultimi mesi sono state segnalate varie sparatorie e conseguenti morti, nel solo mese di febbraio Msf ha curato 36 detenuti per fratture, traumi contusivi, abrasioni e ferite da arma da fuoco. Tutte recenti, tutte riportate nei centri di detenzione.
È a queste condizioni di invivibilità e pericolo che sono esposti i migranti una volta ripresi in mare dalla Guardia Costiera libica, finanziata anche dall’Italia.
E non sono solo i migranti a rischiare di fronte all’intervento dei libici. Il sette maggio scorso i pescherecci italiani Artemide, Aliseo e Nuovo Cosimo sono stati avvicinati da una motovedetta libica in acque internazionali a 35 miglia nautiche dalle coste di Misurata. La motovedetta che ha aperto il fuoco ferendo a un braccio e alla testa il comandante della Aliseo, Giuseppe Giacalone, è la Ubari 660, una delle sei motovedette donate dall’Italia alla Libia a seguito della firma del Memorandum di Intesa del 2017, ai tempi dell’esecutivo Gentiloni, quando Marco Minniti era ministro dell’Interno.
È sulla base di questi fatti, più volte documentati e denunciati, che il Parlamento italiano sarà chiamato tra qualche settimana a rivotare il Decreto Missioni che include la Scheda 22 cioè il rifinanziamento alla Guardia Costiera libica.
Negli ultimi quattro anni, secondo i calcoli forniti da Oxfam, il totale delle quattro missioni in Libia è costato all’Italia 213 milioni di euro. Ma i fondi delle missioni militari sono solo una parte dei soldi spesi dall’Italia in attuazione dell’accordo italo-libico del 2017: non vi sono conteggiati i 30 milioni di euro del Fondo Africa destinati alla Libia nel triennio 2017-2019, né i fondi di difficile quantificazione che transitano dal Ministero dell’Interno e dal Ministero della Difesa e, se aggiungiamo i soldi destinati alle missioni navali nel Mediterraneo che contengono attività di pattugliamento e coordinamento con la Guardia Costiera Libica (Irini, Mare Sicuro, Sea Guardian), i fondi raggiungono i 755 milioni di euro.
La posizione di Mario Draghi che, nel suo primo viaggio a Tripoli all’inizio di aprile, ha ringraziato la Libia per «i salvataggi in mare», è chiara. Durante il question time del 12 maggio scorso ha ribadito: «La priorità nel breve periodo è il contenimento della pressione migratoria nei mesi estivi. Siamo impegnati a ottenere dai Paesi di partenza, in particolare da Libia e Tunisia, una collaborazione più intensa ed efficace nel controllo delle frontiere marittime a terrestri».
Breve periodo, controllo delle frontiere e contenimento, dunque.
Draghi oggi ha di fronte due sfide, la prima in Europa: in occasione del vertice del Consiglio Europeo il prossimo 24 maggio deve tentare di convincere gli altri stati membri a tenere fede agli accordi presi e ripristinare le posizioni dell’accordo di Malta su una effettiva redistribuzione delle persone migranti. La seconda è tutta interna e altrettanto ostica: sintetizzare le posizioni nella sua compagine di governo, la politica dei porti chiusi di Matteo Salvini e le posizioni del nuovo segretario del Pd Enrico Letta.
Sfida nella sfida è quella interna al Pd, chiamato a risolvere una crisi di identità.
Il Pd del 2021 sarà lo stesso partito che l’anno scorso, a luglio, disconoscendo l’ordine del giorno emerso dall’Assemblea Nazionale, votò quasi compattamente il rifinanziamento alla Missione in Libia o sarà un partito più vicino alla biografia del segretario?
La memoria corre al 3 ottobre del 2013: un barcone con a bordo 500 migranti naufragò vicino all’Isola dei Conigli, a Lampedusa. Morirono 366 persone. Fu proprio il governo Letta a dare vita a Mare Nostrum, una missione pensata per «garantire la salvaguardia della vita in mare e assicurare alla giustizia coloro che lucrano sul traffico di uomini».
L’Italia mise in campo mezzi navali e aerei della Marina, dell’Aeronautica, della Guardia di Finanza e delle Capitanerie di porto. In un anno, tanto durò Mare Nostrum, vennero effettuati quasi seicento interventi e salvate centomila persone. «Per l’operazione della Marina italiana», disse l’anno successivo il ministro Angelino Alfano decretandone la sospensione, «l’Italia ha speso 114 milioni di euro, 9 milioni al mese».
La palla passò poi all’operazione Triton gestita da Frontex, e a poco a poco i governi europei hanno svuotato il Mediterraneo dai mezzi militari e ostacolato il lavoro delle organizzazioni umanitarie e gradualmente impostato le politiche migratorie non sulla ricerca e il soccorso, ma sulle politiche securitarie e l’esternalizzazione dei confini, delegando il controllo delle coste a istituzioni fragili e compromesse come la Guardia Costiera Libica addestrata e ampiamente finanziata dall’Italia.
Contraddizioni interne ai partiti, contraddizioni interne al governo.
Letta, per uscire dall’impasse, rilancia l’idea che la missione Eunavfor Med Irini si trasformi in una missione che consenta anche di gestire i salvataggi in mare, allontanandosi dal proprio mandato. Difficile che avvenga tenendo conto che l’obiettivo principale di Irini è «quello di contribuire all’attuazione dell’embargo sulle armi imposto dall’Onu nei confronti della Libia con mezzi aerei, satellitari e marittimi» e «tenendo conto che la missione è stata appena rinnovata per altri due anni, fino a marzo del 2023», nota Paolo Pezzati di Oxfam che aggiunge: «Molto più probabile che tutti gli sforzi verranno concentrati nel tentativo di cancellazione della Missione alla scheda 22».
Avrebbe un alto valore simbolico, significherebbe cioè ammettere che fino ad ora l’Italia ha sbagliato a finanziare una istituzione compromessa con le milizie armate e i trafficanti ma avrebbe un grande risultato politico: demolire la narrazione costruita intorno al Mediterraneo Centrale negli ultimi anni. Cioè che il problema sia solo in mare e non molto più concretamente a terra.
Quello che è invece più probabile che accada, analizzando le dichiarazioni seguite alle ultime visite di stato (Lamorgese, Draghi e Di Maio in Libia) è che i fondi alla missione verranno sostanziosamente aumentati in continuità con l’esigenza di «contenere i flussi migratori» e per rafforzare il legame con il nuovo esecutivo di Tripoli, legame minacciato dalla presenza sempre più massiccia della Turchia.
Nelle settimane che precedono il voto, il Mediterraneo è praticamente privo di pattugliamento e di un coordinamento dei soccorsi, poche le Ong ancora in condizione di effettuare recuperi (singolare a tale proposito quanto sottolineato da Matteo Villa, analista dell’Ispi: durante il governo Conte II si è arrivati al fermo amministrativo di sette imbarcazioni tra ottobre e dicembre del 2020, lasciando il Mediterraneo privo di assetti di ricerca e soccorso, durante il Conte I erano quattro).
Nelle stesse settimane sono sempre più i migranti riportati in Libia: 9 mila dall’inizio dell’anno, che si aggiungono ai 50 mila dei quattro anni precedenti.
A poche settimane dal voto, dunque, l’equazione sulla Guardia Costiera libica è presto fatta: quante più persone vengono riportate a Tripoli, sulla terraferma, dai mezzi della Guardia costiera, tante più persone finiranno nei centri di detenzione, le cui condizioni - inalterate negli anni - espongono i migranti al rischio di abusi, sfruttamento e di violenze.
L’incognita dell’equazione è quali siano le parole d’ordine con cui l’Europa - compattamente - vuole gestire il fenomeno nel lungo periodo. E dunque se, prima di (non) agire in mare intenda agire a terra.
Per ottenere una soluzione a terra è necessario che la politica si chieda e proponga progetti di stabilizzazione, sviluppo e lotta alla povertà di medio e lungo termine, non tamponi estivi durante la (ampiamente prevedibile dal calendario) stagione delle partenze.
Continuare a finanziare la Guardia Costiera libica, per l’Italia, significa destinare (sapendolo) un numero crescente di persone a una detenzione arbitraria in luoghi in cui ogni negoziazione sul rispetto dei diritti umani dal 2017 a oggi è fallita.
Della discussione sui diritti umani, e la riformulazione del Memorandum, nonostante ripetuti annunci, dopo anni non c’è traccia.
Il Parlamento è chiamato a questo, nell’estate del 2021, non a decidere se spendere ma come.
Non se negoziare, ma su cosa.
Se sul contenimento e la protezione dei confini o sul rispetto dei diritti umani.