La causa dell’ong olandese Milieudefensie inchioda la multinazionale. «Contribuisce pesantemente al cambiamento climatico e alle conseguenze per la popolazione». E ora le big del petrolio temono

Una vittoria rivoluzionaria e storica per l’ambiente. La Royal Dutch Shell, multinazionale petrolifera anglo-olandese, dovrà diminuire entro il 2030 le emissioni di gas serra del 45% rispetto ai parametri del 2019. Un provvedimento che non riguarda solo l’azienda in sè, ma anche tutti i suoi fornitori e clienti. È il verdetto di un tribunale de L’Aia arrivato mercoledì’ 26, che ha accolto la denuncia del gruppo ambientalista Milieudefensie, associazione della rete internazionale Friends of the Earth, insieme ad altre ong e alla firma di 17 mila cittadini olandesi. 

 

La portata enorme della sentenza è data dal fatto che per la prima volta un’azienda deve allinearsi con gli Accordi di Parigi sul clima, stretto tra paesi e non da privati con l’obiettivo di mantenere l’aumento medio della temperatura al mondo entro 1,5°. Anche perché in questo caso si tratta di una delle compagnie più inquinanti al mondo. Secondo Milieudefensie la Shell emette una quantità di Co2 nove volte superiore rispetto a quella dei Paesi Bassi. La giudice Larisa Alwin è stata netta: «Shell è responsabile di enormi emissioni di Co2 e contribuisce alle conseguenze disastrose del cambiamento climatico per la popolazione». E quindi deve agire ora, non ritardando più quella transizione ecologica che viene annunciata spesso ma perseguita di rado. 

 

Esulta l’avvocato di Milieudefensie, Roger Cox dopo la lettura di una «sentenza che cambierà il mondo. Le persone in tutto il mondo sono pronte a citare in giudizio le compagnie petrolifere nel proprio paese, seguendo il nostro esempio». Ma non solo, per Cox da adesso «le compagnie diventeranno molto più riluttanti a investire in combustibili fossili. Il clima ha vinto». Sulla stessa linea le parole di Donald Pols, direttore dell’associazione: «Una gigantesca vittoria per la terra, per i nostri figli e per tutti noi».

 

Dall’altra parte della campana gli umori sono diversi. La Shell ha promesso di ricorrere in appello rispetto alla «deludente» decisione della corte, per usare l’espressione di Harry Brekelmans, Projects & Technology Director. La difesa dell’azienda olandese si è basata sul suo programma, annunciato lo scorso settembre, che prevede una progressiva riduzione di emissioni da qui al 2050. In quell’anno dovrebbe raggiungere l’obiettivo “zero” in cui per ogni tonnellata di gas serra (tra cui Co2) rilasciata ce ne sia una rimossa. Secondo il piano della “conchiglia” entro il 2030 il calo previsto è del 20% in relazione però ai livelli del 2016, quando le emissioni della compagnia non avevano raggiunto ancora il picco attuale, mentre entro il 2035 del 45%. Una politica climatica troppo «poco concreta e piena di condizioni» per il tribunale dell’Aja, che quindi ha imposto alla Shell di cambiare rotta. Senza contare che la multinazionale vuole investire nel prossimo futuro dai 19 ai 22 miliardi ogni anno, di cui più dell’80% in petrolio e gas. 

 

E adesso le altre compagnie petroliferi mondiali, specialmente occidentali, cominciano a temere che l’appello di Cox si avveri, e che vengano intentate sempre più cause contro di loro. Cosa che in realtà già succede ma che più di battaglie contro le trivelle, finora è sembrata una lotta contro i mulini a vento. Ma la sentenza de L’Aia potrebbe costituire un precedente pericoloso.