Ottenere le licenze per coltivare mariujana nei terreni dei nativi è più facile. Molte tribù hanno lasciato fare ai fautori della coltura estensiva. Ma i Navajo resistono. Per rispetto alla madre terra

Sono le tribù indiane il nuovo Eldorado per chi vuole investire nella coltivazione della cannabis legale. Terre fertili e immense, le riserve diventano il luogo ideale per queste avventure, in quanto sovrane, indipendenti, non soggette alle leggi dei singoli Stati ma solo al governo federale. Si tratta di un affare ghiotto che fa acquolina ad un esercito sempre più nutrito di investitori. Ma anche a tante tribù che da generazioni fanno i conti con povertà, emergenze sanitarie e disoccupazione. Soprattutto dopo l’ennesimo colpo, stavolta assestato dal coronavirus.

 

Il nuovo business della marijuana, però, dopo aver portato soldi e prosperità, rischia di cancellare le profonde tradizioni che hanno da sempre accompagnato la vita delle le 568 tribù native americane. Questi luoghi sacri e fragili potrebbero essere feriti irrimediabilmente dalle colture industriali e intensive.

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«Non credo che la marijuana sia la soluzione ai problemi delle riserve, come tanti lasciano credere», spiega scettico il professor James Singer, che al Salt Lake Community College insegna Sociologia e Studi Etnici. «Certo, potrebbe sicuramente essere redditizia per qualcuno», continua. «Pensate a quello che è successo con i casinò: un grande affare per pochi, un fallimento immane per tanti. Senza parlare delle malattie sociali che vanno a braccetto con certe attività». Pesa il paragone con un’altra ferita aperta, le estrazioni di uranio nella Nazione Navajo. «Hanno distrutto la terra e non hanno prodotto benessere per i nativi. Temo che accadrà anche con la cannabis».

 

Ed è successo, difatti, a Shiprock in Nuovo Messico, novemila anime sparse tra le spettacolari vette della riserva Navajo. «Il posto perfetto per l’affare. Non ci sono tasse federali e soprattutto gli investitori possono approfittare delle aree grigie e fluide nelle regolamentazioni locali».

 

Bea Redfeather, la “piuma rossa”, è l’attivista che ha guidato la rivolta dei nativi contro una massiccia piantagione di marijuana coltivata illegalmente. Un migliaio di serre, quattrocento acri di terreno. «Hanno profanato questo luogo sacro con trivelle e scarichi abusivi. Ci vorranno anni prima che la terra guarisca», racconta con rabbia. Tutto ha avuto inizio nei primi mesi della pandemia. «Da casa mia vedevo da giorni uno strano via vai. Finché una mattina ho trovato decine e decine di serre, montate letteralmente nottetempo e sorvegliate da uomini armati».

 

La mente dell’operazione è il Navajo Dineh Benally, al tempo presidente dell’ente che regola le coltivazioni agricole nella locale contea di San Juan; i soldi sono quelli di Irving Lin, un imprenditore originario di Taiwan che dalla California coordina il flusso di investimenti asiatici sull’onda della recente e impressionante espansione cinese nel mercato della cannabis; la manodopera, invece, è di centinaia di operai cinesi rimasti senza lavoro a seguito della crisi e arrivati da tutta America per 5 dollari all’ora e condizioni di lavoro disumane.

 

«Ho iniziato a filmare, a fare foto con il mio cellulare», spiega Redfeather. «Benally ha cercato di corrompermi con del denaro, poi mi ha minacciato». E così cominciano i sit-in. «I social media mi hanno aiutato molto. Eravamo in pochi, poi siamo diventati centinaia». Un momento molto intenso per la comunità. «Coltivavano cannabis spacciandola per canapa industriale, nonostante fosse proibito dalle leggi della riserva. Polizia e Fbi hanno sequestrato la produzione e li hanno costretti ad andare via, ma pagheremo per anni le conseguenze dello scempio», aggiunge.

 

Intanto Dineh Benally, libero, starebbe puntando già a nuovi affari in altre riserve. «Sarebbe dovuto finire dietro le sbarre», tuona Redfeather: «Ha fatto pressione sui contadini per farsi cedere le concessioni di utilizzo dei terreni. Lui e i suoi amici hanno approfittato della pandemia, della disperazione delle famiglie che hanno visto quel denaro come un miraggio, ma anche dei lavoratori cinesi che avevano perso il lavoro».

 

Nella contea di San Juan la pandemia ha rallentato il processo di bonifica. «Continuano a riaffiorare detriti, il bestiame mangia la plastica. Hanno costruito bagni senza un sistema di drenaggio e le fogne sono finite nell’acqua usata per irrigare i campi. Hanno contaminato le risorse naturali, violato la nostra terra. Ci vorrà tempo», continua il racconto Redfeather. Ma ne occorrerà ancora tanto anche per guarire l’anima dei Navajo. «Abbiamo perso l’armonia. Ci sono lotte atroci tra chi vorrebbe tentare il business della cannabis o della canapa per risollevare l’economia, spingendo per la legalizzazione nella riserva, e chi invece difende le coltivazioni tradizionali».

 

Per tante tribù, però, il business della marijuana è già una realtà radicata. Capofila i Paiute del Nevada, il distributore al dettaglio più importante. Idem nello stato di Washington, dove gli Suquamish già nel 2015 diventarono la prima tribù a legalizzare la cannabis; oggi sei delle 29 tribù riconosciute sul territorio producono e distribuiscono. Anche nello Stato di New York, dopo la recente legalizzazione della marijuana a fini medici e ricreativi, i Shinnecock e i Mohawks stanno valutando l’idea. Mentre la nuova frontiera potrebbe presto materializzarsi nel Dakota del Sud.

 

I Navajo, al momento, resistono. Bea Redfeather è nel consiglio della contea, eletta al posto di Benally. «Non avrei mai pensato di diventare un’attivista, una politica men che mai». La prima cosa che ha fatto è stata revocare i permessi rilasciati ai coltivatori di canapa. «Credo che madre terra si sia davvero arrabbiata. È lei che ha cacciato via gli usurpatori».