Indiani d’America
La doppia vittoria dei Navajo: contro il virus e contro Trump
Viaggio nella più popolosa enclave di nativi americani. Che ha portato all’elezione il candidato democratico e ha condotto un’eccellente campagna vaccinale
La strada che porta da Phoenix a Tuba City, la più grande comunità di Navajo Nation, è la prima tappa obbligata per chi vuole immergersi nella storia di questa terra: un corridoio che attraversa in maniera monotona e silenziosa una delle zone più iconiche degli Stati Uniti, un tempo casa degli Apache, degli Hopi, dei Pueblo, dei Maricopa, dei Cocopah e dei Navajo. Oggi, queste tribù, insieme a molte altre, vivono in riserve dove sono ancora visibili in tutta la loro drammaticità i segni dei saccheggi e dello sfruttamento di una colonizzazione che li ha resi, o ha provato a renderli, ospiti non graditi nella loro stessa casa.
Appena ci si allontana dal ritmo e dai grattacieli di Phoenix, seguendo le indicazioni per Sedona, la città più “turistica” di questa zona, ci si trova proiettati improvvisamente in una dimensione diversa, che nemmeno il migliore dei film è mai riuscito davvero a raccontare. Mentre le ruote macinano chilometri in salita, di cui ci si accorge solo per il freddo gelido che arriva addosso all’improvviso, con lo sguardo si riesce davvero a percepire l’infinito, pieno del rosso delle montagne e dei canyon, del verde degli imponenti cactus e dell’azzurro del cielo che regala riflessi di intensa magia.
Per arrivare a Navajo Nation si attraversa, dunque, ogni possibile e immaginabile bellezza, tanto che nemmeno l’evidenza di una terra costretta a fronteggiare una condizione di intollerabile povertà riesce a intaccare la percezione di sacralità che avvolge questo territorio e questa popolazione. D’altro canto, la loro storia, racconta che ai Dinè (“figli del popolo sacro”), come i Navajo preferiscono farsi chiamare, il creatore donò questa terra posizionata fra quattro montagne sacre, corrispondenti ai quattro punti cardinali: Bianca Peak, a Est, associata con il colore bianco, Mount Taylor, a Sud, associata al blu, San Francisco Peak, a Ovest, associata al giallo e l’Hesperus Mountain, a Nord, associata al nero. I punti cardinali, che richiamano anche le fasi della giornata - alba, giorno, tramonto e notte - e, dunque, la inviolabilità della natura, sulla quale si basa tanta parte della cultura e della tradizione di questo popolo.
«Sono orgogliosa di essere una nativa americana perché la terra dove mi trovo è parte delle mie vene, io appartengo a questa sabbia, appartengo a questo luogo», dice Jamescita Peshlakai, senatrice dello Stato e veterana della Guerra del Golfo: «Sono una nativa americana e i miei spiriti mi hanno condotta qui, nella mia patria sacra di cui sono profondamente fiera. Questo è un territorio per noi sacro dove Padre sole, Madre terra, Padre cielo e Madre acqua sono il tutto di cui noi siamo parte». Con un territorio di 71mila chilometri quadrati, che si estende fra l’Arizona a Nord-Est, lo Utah a Sud-Est e il Nuovo Messico a Nord-Ovest, Navajo Nation è oggi la più vasta riserva di nativi americani, ma anche uno stato sovrano indipendente, con un proprio presidente e una propria Corte Suprema, tanto che più volte si è parlato di darle riconoscimento di Stato.
Nelle ultime settimane, poi, i Dinè sono diventati la tribù più popolosa dell’intero Paese, superando quella degli Cherokee; questo nonostante l’impatto gravissimo che il Covid-19 ha avuto in questa zona con 1.299 vittime e un tasso di infezione 21 volte più alto di quello di New York. «Nel 2020 sono andata in media a due funerali a settimana, solo di familiari o conoscenti», dice Peshlakai: «La responsabilità è da attribuire in gran parte a Donald Trump che per mesi ha ignorato questa pandemia e non ha attivato alcuna azione necessaria per contenerla».
L’ospedale locale ha fatto il possibile per aiutare i malati, ma con 29 posti letto in totale è stato impossibile fare miracoli. A contribuire a un numero cosi alto di perdite sono state concause che esistevano già prima della pandemia, le cui responsabilità vanno fatte risalire alle mancanze del governo federale nei confronti di questa terra, da oltre un secolo. Qui, infatti, si registra uno dei tassi più alti di diabetici di tutti gli Stati Uniti. Una condizione dovuta in gran parte al larghissimo consumo di bibite con zuccheri, conseguenza dell’atavica scarsità di acqua potabile che affligge nuclei familiari molto numerosi, residenti in spazi comuni limitati. Il problema dell’acqua è dovuto alla carenza di investimenti strutturali da parte del governo federale.
Uno stallo quasi totale, visto che Trump ha approvato un solo stanziamento da 5 milioni di dollari, pari al 25 per cento del costo stimato per la costruzione di un nuovo sistema idrico. Dei circa due milioni di americani che vivono senza acqua potabile, la maggior parte sono nativi americani: solo un’abitazione su tre a Navajo Nation è dotata di acqua corrente e nella riserva degli Hopi il 75 per cento dell’acqua è contaminata da eccessivi livelli di arsenico. Anche l’approvvigionamento di cibo, poi, non risulta impresa facile. La terra dei Navajo è grande quanto lo Stato del West Virginia che ha ben 163 punti vendita di alimentari, numero che nella riserva si riduce a 13, costringendo tutti a complessi spostamenti in auto.
«Che il governo federale sia responsabile della nostra povertà è un dato di fatto, ma è anche colpa del capitalismo che spinge a consumi esagerati», dice Peshlakai: «Non dimentichiamo che noi, i primi veri americani, siamo stati trattati a lungo come “non residenti” e la passata amministrazione ha separato le famiglie e ha chiuso bambini nelle gabbie: gli indigeni americani del Sud vengono qui non perché sia facile, ma solo perché nel loro Paese sono trattati peggio di quanto siano trattati i nativi americani negli Stati Uniti».
Il punto, sostiene la senatrice, è che si dimentica che la prosperità di questo Paese è nata dalle ossa e dallo sfruttamento dei nativi americani. «Ci hanno preso la terra, hanno derubato i nostri figli e fino al 1924 non eravamo considerati cittadini degli Stati Uniti; in Arizona abbiamo ottenuto il diritto di voto solo nel 1948, io sono la prima donna senatrice proveniente da questa zona, eletta nel 2016». Il diritto al voto: questa popolazione ne ha compreso il valore fino in fondo, impegnandosi in una campagna elettorale a sostegno di Joe Biden e Kamala Harris come non si era mai visto prima, neppure per Barack Obama.
Grazie al loro impegno, nonostante le rigidissime misure imposte dal Covid-19, lo Stato dell’Arizona è andato proprio al candidato democratico: un evento che non si verificava dall’elezione di Bill Clinton. Tanto che la First Lady, Jill Biden, è già venuta qui in visita ufficiale per incontrare le donne, prima di tutto, che ha definito le «mie sorelle guerriere» e per ricevere da loro la lista delle priorità da affrontare per ridare, al più presto, condizioni dignitose di vita agli Indiani Americani. Priorità che hanno a che fare con l’approvvigionamento idrico prima di tutto e con investimenti che, almeno in parte, sono già stati pianificati. Ma anche con iniziative per conservare e proteggere la cultura e la storia di queste popolazioni.
«Oggi troppo spesso i bambini nativi americani imparano la nostra stessa cultura dai film di John Wayne, che non rappresentano certo chi siamo», afferma la senatrice: «Ogni volta che muore un anziano muore una parte delle nostre tradizioni e delle nostre cerimonie. E lo stesso avviene ogni volta che muore una donna di medicina. Non è solo il razzismo a pesare, quanto lo spreco delle risorse e lo sfruttamento delle minoranze messo in atto nel corso della storia. Resta fondamentale, dunque, lavorare sulla coscienza personale e cancellare i danni prodotti dalla scorsa amministrazione, che ci hanno fatto sprofondare indietro nel tempo».
E ora che finalmente, grazie a una campagna vaccinale eccellente condotta a un ritmo superiore a quello di ogni altro Stato nel Paese, il numero dei casi di Covid-19 si attesta finalmente a livelli bassissimi, i Navajo hanno organizzato spedizioni di mascherine e altro materiale sanitario verso l’India perché, come recita un loro proverbio: «Sono cresciuto sapendo che era sbagliato avere più di quello di cui avevo bisogno, perché avrebbe significato che non mi stavo prendendo cura della mia gente».
Prendersi cura degli altri, invece, resta il principio fondamentale della gente che vive nella terra fra le montagne sacre: «Non ho mai identificato il mio servire nell’esercito o in politica con il giuramento che ho prestato, ma con il mio cuore, con la mia filosofia e con il mio impegno di donna Navajo che, prima di tutto, protegge i suoi figli, la generazione dei più giovani e il nostro territorio», conclude la senatrice: «Allora non importa se è la bandiera americana che sventola, io sto sempre e comunque difendendo Navajo Nation. Per questo ho prestato servizio nell’esercito, anche se la cavalleria ha ucciso la mia gente; l’ho fatto come madre, per difendere il diritto dei miei figli ad ereditare questa terra».