Le parole proibite dei palestinesi sui social: martire, resistenza e sionista
L’algoritmo di Facebook censura i termini ritenuti di incitamento all’odio. La compagnia collabora con le autorità israeliane per colpire il dissenso sotto l’egida dell’anti-terrorismo
Rimane alta l’attenzione sulla narrazione online del conflitto tra Israele e Hamas, dopo che molti post di solidarietà con le famiglie espulse dal quartiere di Sheikh Jarrah sono stati cancellati e diversi account di giornalisti di Al Jazeera bloccati per aver violato le regola della comunità Facebook.
Gli algoritmi di Facebook, dove alcune decisioni di ban vengono subappaltate in maniera poco trasparente, hanno etichettato parole arabe usate comunemente da utenti palestinesi come “martire”, “resistenza” o “sionista” come un chiaro incitamento alla violenza o all’antisemitismo e scambiato i post sulla moschea Al-Aqsa, tra i siti più importanti dell’Islam, come riferimenti ad Al-Qaeda.
Anche su Instagram, proprietà di Facebook, gli hashtag di solidarietà con la Palestina sono stati silenziati. “Chiediamo scusa a chiunque abbia creduto che questa fosse una censura deliberata”, ha riportato Facebook in un comunicato, a cui ha fatto seguito l’istituzione di un centro operativo speciale per moderare contenuti d'odio relativi al conflitto. Come spiega la vicepresidente per la politica sui contenuti e capo dell’antiterrorismo di Facebook Monika Bickert, ogni volta che c’è una minaccia alla sicurezza, Facebook si attiva sul campo per rimuovere i post che vìolano le leggi della compagnia. Nel 2018, lo stesso Zuckerberg aveva ribadito l’impegno di Facebook nel voler difendere gli interessi nazionali contro interferenze esterne, in difesa di valori democratici di stati come Israele.
Dal 2016, Facebook supporta infatti il ministero della difesa israeliano nella moderazione online di incitamenti alla violenza contro le autorità, permettendo così al governo di Netanyahu di sorvegliare e arrestare centinaia di utenti palestinesi che tentavano di organizzare cortei o esprimevano dissenso contro l’occupazione.
Se la profilazione tramite social media non ha alterato i contorni del conflitto, ne ha decisamente accelerato le dinamiche: una manifestazione contro l’occupazione israeliana richiede diverse ore di organizzazione, mentre il monitoraggio e l’arresto di utenti palestinesi è reso immediato dall’impronta digitale lasciata online, a cui il governo può accedere facilmente grazie ai servizi offerti da Facebook.
E, nonostante la caduta di Netanyahu, restano le preoccupazioni su come la gestione opaca dei social possa continuare a essere soggetta a manipolazione e a fini propagandistici. Una lettera fatta circolare nelle scorse settimane dai suoi dipendenti esorta gli amministratori della piattaforma di ingaggiare audit indipendenti per indagare su pregiudizi sistemici, umani e automatizzati, ristorando così libertà di dissenso politico contro Israele.
La petizione chiede inoltre a Facebook di pubblicare i dati sulle richieste che i governi fanno per l’utilizzo di dati sensibili, incitando la piattaforma a chiarire la sua posizione su ciò che considera antisemitismo.
Aggiornamento del 16 giugno 2021
"Quando i governi ci segnalano dei contenuti che violano le nostre regole, come i discorsi di incitamento all'odio o alla violenza, noi li rimuoviamo - proprio come faremmo se ci venissero segnalati da una ONG o da un membro della nostra community. Quando i governi segnalano dei contenuti che non infrangono le nostre regole ma che sono illegali a livello locale, non li rimuoviamo completamente, ma possiamo limitarne l'accesso nel Paese in cui sono illegali. Non rimuoviamo e non rimuoveremmo contenuti da Facebook o Instagram che non violano i nostri Standard della community".
Portavoce Facebook