Licenzia i magistrati scomodi, zittisce i giornalisti, attacca le istituzioni di Bruxelles. È Il leader del governo del paese balcanico che dal primo luglio sarà il presidente di turno dell’Unione europea

La prima avvisaglia si era avuta durante la conferenza stampa di lancio della presidenza slovena tenuta con il presidente del parlamento europeo David Sassoli a fine maggio. Il primo ministro sloveno Janez Jansa, collegato virtualmente da Lubiana, aveva avuto problemi tecnici proprio quando avrebbe dovuto rispondere a un paio di domande sulle limitazioni della libertà di stampa in Slovenia.

 

Qualche giorno più tardi, durante la presentazione delle priorità della presidenza ospitata dal think tank europeo European Policy Centre, il direttore Janis Emmanouilidis, che la moderava, si è rifiutato di affrontare il tema della libertà di stampa con Iztok Jarc, l’ambasciatore sloveno presso le Istituzioni europee. Questa volta il problema era la mancanza di tempo, che però è stato trovato per parlare di temi meno esplosivi, come l’economia circolare, oppure cari a Jansa, come l’allargamento dell’Unione nei Balcani.

 

Con l’avvicinarsi del primo luglio, giorno d’inizio della presidenza di turno dell’Unione europea da parte della Slovenia, una pesante cappa di censura ha preso ad avvolgere Bruxelles, preoccupata più a nascondere che a mettere sotto accusa le gesta del nuovo autocrate dell’Est. «Vuole usare questi mesi per smentire le dicerie interne, dimostrare che il suo governo è ben voluto all’estero e che il suo partito merita la rielezione», dice da Lubiana Goran Forbici, direttore dell’ong Cnvos.

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Utilizzare Bruxelles come capro espiatorio di ogni problema esistente in Patria o, al contrario, considerarla come un megafono per le proprie aspirazioni o ancora come personale conto corrente con i soldi degli altri non è cosa nuova. Sulla retorica del “neocolonialismo” europeo hanno costruito le proprie carriere l’ungherese Victor Orban e il polacco Mateusz Morawiecki, pur approfittando senza scrupoli dei finanziamenti copiosi dei contribuenti europei. Il premier ceco Andrej Babis da anni arricchisce il proprio impero economico con i soldi della Politica agricola comune, pur offrendo alla Commissione, con una buona dose di ipocrisia, il volto pulito di Vera Yourova, Commissaria ai valori e alla trasparenza. Il premier uscente Boyko Borisov ha impunemente trasformato la Bulgaria nello stato più corrotto dell’Unione, tanto che gli Stati Uniti hanno appena applicato sanzioni economiche a ben 64 società legate all’establishment.


Ma il fatto che perfino il leader di un piccolo e poco rilevante Paese europeo, con una popolazione inferiore a quella della città di Roma, si erga a fustigatore dei principi su cui si fonda l’Unione, dalle libertà fondamentali allo stato di diritto, e riesca a far passare la sua propaganda, la dice lunga sullo stato di salute del progetto europeo.


Era il 2016, nel pieno della crisi migratoria, quando Jansa, su Twitter, definì «prostitute da 30 e 35 euro» due giornaliste della televisione di Stato, ree di avere denunciato che alcuni membri del suo partito facessero parte di un gruppo neonazista su Facebook. Da allora gli insulti contro i giornalisti da parte del premier e dei suoi alleati non sono mai cessati. A cessare invece sono stati i fondi per la televisione di stato e l’agenzia di stampa, oggi entrambe sull’orlo del collasso. L’informazione ufficiale televisiva ha traslocato sui canali PlanetTv e Nova24, il primo ad azionariato ungherese, il secondo posseduto da ungheresi vicini a Orban e sloveni vicini a Jansa; quella cartacea è stata affidata a Democrazia, un giornale che giudica l’Olocausto «un mito» ed è conosciuto per il linguaggio volgare e provocatorio. Parimenti nel mirino sono le istituzioni culturali, i cui vertici sono stati sostituiti con esponenti più “patriottici” con un focus sulle atrocità del comunismo.


Oltre a media, direttori di museo, giudici e ong, il governo sloveno sta lentamente mettendo nel mirino ogni voce critica, anche al di fuori dei suoi confini. Tanto più se si trova a Bruxelles, strumentalmente accusata di ingerenza indebita negli affari nazionali. L’anno scorso ci era finito anche il commissario Paolo Gentiloni, dopo avere inviato una richiesta di spiegazioni sul licenziamento in tronco del capo dell’ufficio di statistica, l’uomo che dà il via libera ai dati forniti alla Commissione. La risposta via Twitter non si fece attendere: «Spero che questa sia l’ultima volta che Gentiloni gioca un gioco politico a favore della sinistra». Quest’anno, dopo avere licenziato il procuratore capo sloveno, Jansa ha bloccato la nomina dei due nuovi procuratori da inviare a Bruxelles perché colpevoli di avere indagato in passato su di lui e su alcuni traffici di soldi. Il suo stesso ministro della Giustizia è stato costretto a dimettersi per non avere avallato la decisione. Ufficialmente, ancora una volta, si è trattato solo di «un problema tecnico che verrà presto risolto». Di fatto, dicono da Lubiana gli oppositori, di «una vera epurazione».


Nessun critico si salva dagli strali del premier, mirati a consolidare il consenso maggioritario in Parlamento. Bruxelles è diventata un’arma da guerra, così come lo è da anni per Polonia e Ungheria, suoi modelli politici di riferimento. All’europarlamentare liberale Guy Verhofsdadt che lo scorso marzo gli aveva intimato su Twitter di «lasciare in pace i giornalisti» dopo che Jansa aveva attaccato una giornalista di “Politico” che aveva descritto la situazione dei media in Slovenia, ha risposto: «Sono gli sloveni che decidono sui loro interessi non chi si comporta arrogantemente come un falso difensore dei valori europei. Basta col paternalismo!». Identico è l’atteggiamento che ha avuto con gli olandesi, quando hanno criticato la sua stretta sui diritti fondamentali: Jansa ha ribattuto che non hanno il diritto di parlare perché sono responsabili del massacro di Srebrenica.


Solo pochi giorni fa nel mirino dei suoi tweet alla Donald Trump, l’ex presidente americano con cui il primo ministro sloveno si diceva in grande sintonia, è finita Dunja Mijatovic, la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, l’istituzione europea che promuove la democrazia e i diritti umani, ma le cui raccomandazioni non sono sempre messe in pratica nonostante gli eventi negli anni le abbiano dato ragione. A infastidire il nuovo autocrate in fieri è stato il memorandum in cui Mijatovic chiede alle autorità slovene di porre fine al marcato deterioramento della libertà di espressione, sottolineando come «i discorsi pubblici ostili, le campagne diffamatorie e le intimidazioni contro chi esprime opinioni critiche hanno un effetto raggelante sulla libertà dei media». La risposta di Jansa è stata brutale. In un tweet ha accusato Mijatovic di fare parte di un network di «fake news» e ha definito il suo rapporto «male informato». Poi è passato alla strategia del fango contro il nonno e la madre, entrambi politici di sinistra rispettivamente durante la Seconda guerra mondiale e la guerra di Jugoslavia. «Ha un’idea tutta sua dello stato di diritto», dice Marko Milosavljevic, professore di giornalismo all’Università di Lubiana: «Sostiene che i Paesi dell’Europa dell’Est non abbiano in proposito la stessa concezione di quelli dell’Europa dell’Ovest. A dirlo non è il premier bielorusso ma quello di un Paese che aveva intrapreso un profondo processo di democratizzazione per fare parte dell’Unione e che ora sta rimettendo tutto in discussione». E non solo per la Slovenia.


La presidenza slovena arriva in un momento delicato per Bruxelles. Il Parlamento europeo ha appena citato in giudizio presso la Corte di giustizia europea la Commissione per inadempienza sul fronte dei diritti umani. E se fonti interne dicono che la Commissione sarà pronta ad agire in autunno quando dovrebbe scattare l’udienza, e che dunque potrebbe non finire in tribunale, il fatto che il parlamento sia dovuto ricorrere a tanto indica la timidezza della Commissione nell’espletare nel decennio passato il suo ruolo di guardiana delle istituzioni e l’inefficacia del Consiglio europeo come organo decisionale.

 

La strategia del dialogo ad ogni costo pare non avere funzionato. In Polonia e Ungheria i diritti fondamentali sono profondamente compromessi, tanto che il parlamento ungherese, così come era già avvenuto in Polonia, non si è fatto scrupolo qualche giorno fa di varare una legge contro la libertà della comunità Lgbtq, in palese contraddizione con il diritto europeo. I due Paesi, che tengono sotto scacco l’intera politica economica ed estera dell’Unione, hanno giurato di difendersi l’un con l’altro nel caso in cui il Consiglio mettesse finalmente all’ordine del giorno l’applicazione dell’articolo 7, la procedura di ritiro del diritto di voto ad un Paese membro per cui occorre il consenso degli altri 26.

 

E insieme pianificano di impedire che la Commissione applichi la clausola legata al Next Generation Eu, che prevede lo stop ai fondi in caso di non rispetto dei diritti fondamentali nel loro utilizzo. Un’eventualità probabile. In vista delle prossime elezioni nazionali, Orban ha già detto che restituirà alle famiglie con bambini le tasse pagate nel 2020 e Jansa, che cammina nelle sue orme, ha annunciato 300 milioni di euro per una riforma mirata ad alzare gli stipendi di tutta la popolazione pochi mesi prima del voto. La presidenza slovena potrebbe facilitare i piani di entrambi e mettere in ulteriore difficoltà la Commissione. Ma a volte perfino Bruxelles riserva sorprese.